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Autonomia differenziata? No, secessione dei ricchi.

Intervista di Giulia Gigante a Gianfranco Viesti - 27/03/2024

Le disparità regionali e le teorie della divergenza, lo sviluppo mancato del Mezzogiorno, le politiche di coesione territoriale e l’austerità asimmetrica, il ruolo delle politiche pubbliche e “la secessione dei ricchi” spacciata per autonomia differenziata. Da questi campi di ricerca Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari, ha estratto un motivo di lotta e un percorso di studio che coinvolge l’Europa, l’Italia e il Mezzogiorno dal XX al XI secolo. Presentissimo nel dibattito pubblico, Viesti è autore di due opere “Centri e periferie” e “Contro la secessione dei ricchi”, centrali per orientare i lettori nel confronto concordato per Orizzonti.

Sul Sud e il settore pubblico, una critica al centrosinistra

Ancora non è stata fatta un’analisi accurata delle ragioni della scon­fitta del centrosinistra e del Partito Democratico in particolare. Qui provo a dare un piccolo contributo al dibattito che spero prima o poi ci sarà anche nelle sedi opportune. Credo sia importante e utile analizzare accuratamente gli errori fatti dai governi di Matteo Renzi e di Paolo Gentiloni, per porvi al più presto rimedio anche nella definizione dei programmi di governo futuri.

La nuova sedazione del Sud

“È finita un’epoca”, come s’usa dire. Si è chiusa per il Sud la stagione della speranza nella possibilità di trovare un posto tutto suo nel grande gioco dell’economia europea e globale, grazie a quel “rimbocchiamoci le maniche” che ha funzionato da motto-architrave per l’immaginario di sviluppo degli ultimi trent’anni – ormai quasi quaranta, per la verità – e che ha avuto il centrosinistra come principale interprete. Il lamento sulla “scomparsa del Sud” dall’agenda politica nazionale, in questa medesima stagione, scivola via come una lacrima di coccodrillo: se l’idea cardine coincide con l’auto-attivazione, ogni “politica per il Sud” decade in automatico o si trasforma in puro lubrificante delle traiettorie intraprese dai singoli attori e dai singoli territori. Il leghismo non ne è la causa, ne è solo un altro effetto. Il grottesco è che i primi a lamentarsene oggi (della scomparsa) sono proprio coloro che negli anni passati non hanno predicato altro che la buona novella dell’auto-attivazione.

Testimone o protagonista. Qual è il posto dell’Italia nel mondo?

Dall’Iran, paese verso cui Federica Mogherini ha fatto una politica giusta, non “concessiva”, alla politica estera americana fortemente destabilizzante che richiede una risposta europea unitaria; dalla Russia di Putin che ha guadagnato parecchio spazio al focolaio di tensione rappresentato dall’Estremo Oriente, con le minacce nucleari del regime nordcoreano. Su questo e molto altro si sofferma Massimo D’Alema, tracciando un quadro complesso di quale sia il ruolo dell’Europa e del nostro paese nel mondo.

Una politica audace per il Sud

Dopo gli anni delle scelte antimeridionaliste dei governi Berlusconi, prima i timidi segnali di attenzione del governo Monti, con il ministro della Coesione territoriale Barca, poi un leggero miglioramento delle politiche per il Sud con il governo Letta e il ministro Trigilia, infine con Gentiloni e il ministro De Vincenti finalmente l’abbozzo di una strategia per il Sud che non fosse limitata alle sole politiche di coesione. È però “troppo poco e troppo tardi”. Cosa ci aspetta nella prossima legislatura? Il clima sarà favorevole per il Mezzogiorno?

Come garantire il diritto alla salute

Pur potendo contare su un sistema sanitario poco costoso, equo ed efficace, da qualche anno il diritto alla salute in Italia è sempre meno garantito: le procedure di accesso ai servizi sono più complicate, i ticket sono più elevati del prezzo delle prestazioni, le liste d’attesa sono più lunghe, le famiglie sono lasciate sole nell’assistenza alle persone con disabilità, le diseguaglianze sono sempre più ampie, gli operatori sanitari sono demotivati, le strutture e le tecnologie sono obsolete e persino l’ordinaria manutenzione è carente. Se questa è la diagnosi, come è necessario operare per tornare a garantire ai cittadini il diritto alla salute?

Un programma di politica fiscale

Come sempre, le questioni fiscali avranno un ruolo centrale nel dibattito elettorale. E come sempre su di esse si misureranno le contraddizioni e le menzogne dei diversi programmi. Tuttavia, mai come in questa occasione la questione fiscale andrebbe presa sul serio e affrontata secondo orientamenti di radicale innovazione. I tempi lo richiedono, le possibilità esistono.

Cose da fare, e da non fare, per l’economia italiana

Per tornare a far crescere l’economia italiana occorre intervenire su: riequilibrio del bilancio, investimenti pubblici, nuovo diritto dell’economia, profitto da produttività, perequazione distributiva, una strategia per il Sud, una diversa politica europea. Si tratta di interventi la cui realizzazione è affidata sia all’azione di politica economica sia alla risposta autonoma dei produttori; entrambe, finora, sono mancate. Solo così il paese ritroverebbe un sentiero di crescita del PIL nel lungo periodo dell’ordine del 2,5/3% l’anno.

Scienza e salute in un ospedale pubblico del Sud

Oltre trent’anni di pratica della medicina, in particolare della neurologia, esclusivamente in un ospedale pubblico di una città capoluogo di provincia pugliese sono forse sufficienti per esprimere alcune considerazioni che travalicano la storia personale e investono una intera generazione che si appresta, nell’arco di qualche anno, a passare il testimone a una nuova classe medica della sanità pubblica.

Ricercatori via dall’Italia: dove e perché

A indurre gli scienziati a muoversi verso paesi diversi da quello di origine sono sostanzialmente due ragioni: in primo luogo la possibilità di svolgere una attività scientifica di alto livello e con un finanziamento adeguato e, in misura minore, migliori prospettive salariali e di carriera. Alla luce di ciò, il dato relativo alla spesa per ricerca in proporzione al PIL, del solo 1,29% per l’Italia, spiega meglio di tante altre considerazioni perché per il nostro paese non si possa parlare di una fisiologica mobilità della ricerca quanto, piuttosto, di una vera emorragia verso paesi con sistemi magari anche simili al nostro, ma che investono di più e meglio nel settore.

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