Autonomia differenziata? No, secessione dei ricchi.

Di Giulia Gigante Mercoledì 27 Marzo 2024 12:28
Autonomia differenziata? No, secessione dei ricchi. ©istock/ScottNodine

 

Le disparità regionali e le teorie della divergenza, lo sviluppo mancato del Mezzogiorno, le politiche di coesione territoriale e l’austerità asimmetrica, il ruolo delle politiche pubbliche e “la secessione dei ricchi” spacciata per autonomia differenziata. Da questi campi di ricerca Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari, ha estratto un motivo di lotta e un percorso di studio che coinvolge l’Europa, l’Italia e il Mezzogiorno dal XX al XI secolo. Presentissimo nel dibattito pubblico, Viesti è autore di due opere “Centri e periferie” e “Contro la secessione dei ricchi”, centrali per orientare i lettori nel confronto concordato per Orizzonti.

Forse sarebbe utile riproporre alcuni interrogativi. Ad esempio, perché ci sono centri e periferie? Perché dobbiamo misurarci con condizioni geo-economiche di partenza eterogenee tra Nord e Sud? In quali forme continuano a persistere ancora oggi? 

Perché il mondo non è piatto. Ci sono diversi luoghi del mondo che hanno diverse condizioni di partenza volte a favorire lo sviluppo economico. Tutto questo non è deterministico, nonostante le condizioni geografico-strutturali siano rilevanti. Da questo punto di vista, come dimostra una letteratura molto ampia, ci sono differenze fortissime all’interno del Paese, e dentro le condizioni geografiche, che dipendono dalla storia e dalla politica economica, si creano una serie di meccanismi in base ai quali lo sviluppo economico procede a velocità differente nei diversi territori. Ripeto, nulla di deterministico. Infatti, territori rimasti indietro possono essere attraversati da un notevole grado di sviluppo, ma trattasi di un caso relativamente raro soprattutto all’interno degli Stati nazionali. Perciò in Italia, così come nel Regno Unito, in Germania, negli Stati Uniti, l’insieme delle caratteristiche geografiche strutturali, delle vicende storiche, e delle politiche che sono state messe in atto, determina nel medio-lungo periodo condizioni di benessere diverse tra i diversi luoghi. Quello che sappiamo è che ci sono disparità più grandi in alcuni casi (come in Italia o in Inghilterra) e più ridotte in altri, penso alla Francia. Ma negli ultimi trent’anni, le disuguaglianze territoriali interne ai Paesi sono aumentate un po’ dappertutto. Il Mezzogiorno non è un caso a sé, ma è una Regione che come tante altre regioni del mondo è influenzata dai grandi fenomeni economici e politici.

Lei ha definito il progetto leghista “un progetto contro l’Italia”. Perché? Dopotutto, i rappresentanti della Lega sostengono che il ddl Calderoli non faccia altro che dare attuazione a quanto previsto dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione… 

No, il 116 prevede che le regioni possano chiedere ulteriori competenze. Non vi è nessun obbligo da parte del Parlamento di concederle; tutte le richieste avanzate in questi 20 anni non hanno avuto seguito. A mio avviso, il parlamento dovrebbe rifiutarsi di accogliere anche queste richieste, ancora più estreme delle precedenti.

Perché? Il motivo è molto semplice: non sono richieste di tipo autonomistico, ma secessionistico. Le competenze volute dalle regioni sono tali e tante da configurare la nascita di Regioni-Stato all’interno del Paese; inoltre il tentativo di queste regioni è di ottenere e di consolidare un livello di servizi per i propri residenti migliore rispetto al resto della nazione. Per questi due motivi, parlo di una secessione dei ricchi. Ed è importante rimarcare il fatto che queste richieste, basate sull’idea che un territorio più ricco meriti di più, sono state avanzate dalle tre regioni più forti d’Italia.

 

Ecco, il progetto contro l’Italia…. 

Certo! Se queste richieste venissero accettate sarebbe un unicum nel mondo. Non esiste nessun Paese che annoveri delle Regioni-Stato al suo interno, con un’eterogeneità di poteri tra le diverse regioni. Diverrebbe impossibile l’attuazione delle grandi politiche nazionali e più difficile la gestione del debito pubblico. Per non parlare delle imprese…si troverebbero difronte a regole e politiche radicalmente diverse. E ancora, immagini la corsa delle regioni a statuto ordinario nel richiedere ulteriori competenze, una stagione infinita di conflitti tra realtà regionali e lo Stato centrale.

 

Quindi il paragone con la Repubblica federale tedesca è del tutto inopportuno… 

La Germania è un paese serio, rinato federale dalla seconda guerra mondiale. Le sue autonomie, i Länder, sono molto forti e detengono TUTTI i medesimi poteri. In più, esistono dei meccanismi perequativi estremamente efficienti nel determinare le disponibilità finanziarie dei singoli Länder. Per almeno venticinque anni dopo la riunificazione, sono state aggiunte procedure speciali che hanno favorito in maniera molto netta i nuovi Länder più poveri rispetto agli altri. Infatti, in Germania, non esistono sostanziali differenze nella disponibilità e nella qualità dei servizi pubblici fra Est e Ovest.

Lei scrive: “le clausole finanziarie al momento prevedibili approfondirebbero il divario fra le regioni più ricche del paese e le altre, mettendo a disposizione delle prime risorse crescenti nel tempo per finanziare i propri servizi”. Quali sono queste clausole e perché andrebbero a svantaggio delle regioni meridionali?  

Il pericolo c’è perché questo è lo scopo del gioco. Come esplicitamente detto dalla Regione Veneto e implicitamente dalla Regione Lombardia, il fine delle loro richieste è quello di ottenere più risorse. Questo avviene attraverso un meccanismo finanziario che diventa simile a quello delle regioni a statuto speciale, per cui le nuove competenze sono finanziate con regole ad hoc, fatte regione per regione, e basate su una compartecipazione al gettito delle tasse nazionali. Per farla breve, le regioni trattengono una percentuale del gettito fiscale dei loro contribuenti. L’elemento chiave è chi decide questa percentuale. Come già successo per le regioni a statuto speciale del Nord, questa percentuale può essere tale da garantire, nel tempo, una disponibilità molto maggiore di risorse per i servizi rispetto alle altre.

Perché sostiene che i LEP, i “livelli essenziali delle prestazioni”, previsti in Costituzione, nell’ambito dell’autonomia differenziata, sono una cortina di fumo? 

Sono totalmente irrilevanti. Innanzitutto, perché parliamo solo dei Lep delle materie che lo Stato trasferisce alle Regioni. Piuttosto dovremmo interessarci alla circostanza che entro il 2026, come condizione obbligata del PNRR, bisognerà definire i Lep in tutte le materie, ma questo sembra non interessare nessuno. In secondo luogo, perché i Lep sono fissati in maniera molto vaga e discutibile, come ha prontamente notato la Banca d’Italia, e sono stabiliti senza alcuna provvista finanziaria aggiuntiva, in modo tale da cristallizzare il livello dei servizi già disponibile nei diversi territori. Questa è l’opinione dell’ufficio parlamentare di bilancio.

Piccolo azzardo: materie di peculiare rilevanza come la Sanità meriterebbero di essere centralizzate? 

No, la sanità è una materia che per sua natura non può che essere concorrente. Storicamente è impossibile torna indietro per un Paese come il nostro. Tuttavia, è necessario che rimanga concorrente e non sia esclusiva delle regioni, che il parlamento, finalmente, si adoperi per la progettazione di una politica sanitaria nazionale definendo l’enorme cornice all’interno della quale le regioni si devono muovere, altrimenti saremo costretti ad accontentarci del risultato che abbiamo visto durante il Covid; ossia modelli di sanità territoriale completamente diversi tra Lombardia e Veneto e con l’impatto che questo scenario ha avuto sulla popolazione.

In queste settimane, si sta consumando uno scontro molto acceso tra i Presidenti delle regioni del sud e il governo di Giorgia Meloni. Lei ritiene che gli amministratori e i rappresentanti politici che stanno dando battaglia contro il ddl Calderoli, compresi i parlamentari d’opposizione, siano sulla strada giusta? Oppure, la protesta andrebbe impostata in altro modo? 

La vera opposizione all’autonomia differenziata l’hanno fatta e la faranno i cittadini, le associazioni sui territori e soprattutto i sindaci. Questi sono gli elementi e i protagonisti principali. La novità degli ultimi mesi è uno schieramento molto netto dei partiti politici. Nel senso che, diversamente dal passato, le opinioni in questa materia sono polarizzate tra maggioranza e opposizione, mentre negli anni passati non era affatto così. I partiti attualmente all’opposizione possono svolgere un ruolo molto importante. Sarei molto cauto sulla azione dei Presidenti delle Regioni, perché il tutto non può e non deve essere visto come uno scontro fra contesti regionali. Il vero obiettivo non consiste nel rafforzamento di una regione piuttosto che di un’altra, ma nello stabilire un meccanismo di decentramento in base al quale la distribuzione delle risorse pubbliche sia equa, il suo uso sia responsabile e i cittadini abbiano modo e voce nel poterlo controllare, e nel caso contestare.

Quali politiche dovrebbe attuare il Governo per ridurre il gap strutturale tra Nord e Sud del Paese e quali sono le battaglie che una sinistra meridionalista dovrebbe portare avanti?  

Da sempre sappiamo che per contrastare il sottosviluppo regionale serve un’azione da un lato diretta verso lo sviluppo economico, per creare le condizioni perché il tessuto produttivo si allarghi e si diversifichi soprattutto nella manifattura e nei servizi più moderni a maggiore contenuto tecnologico e a maggiore possibilità di sviluppo, mentre dall’altro serve un’azione di lunga lena sulle condizioni dei cittadini, sui servizi pubblici disponibili, a cominciare dall’istruzione e dalla sanità. Una sinistra meridionalista dovrebbe assumere questi due obiettivi al cuore del suo progetto. Nel primo caso, perché non è possibile che il nostro Paese, tutto intero, possa arrivare a ragionevoli ritmi di crescita economica senza una corrispettiva crescita economica particolarmente vivace nel Mezzogiorno, e in secondo luogo perché se vogliamo contrastare le rilevantissime disuguaglianze che esistono all’interno del Paese dobbiamo agire non solo su quelle che incidono sui cittadini in quanto singoli (salario minimo, condizioni contrattuali, reddito di cittadinanza), ma anche sulle condizioni relative ai luoghi nei quali i cittadini vivono. Ergo, liste d’attesa in sanità, disponibilità di asili nido, tempo pieno a scuola. Per una sinistra moderna guardare al Mezzogiorno in maniera seria significa riprendere e riproporre una battaglia identitaria e costitutiva della propria ontologia e azione politica.

Nel corso della storia, a livello centrale, è avvenuto uno scontro tra impostazione e interpretazione neoclassica e ricette keynesiane inerenti all’incremento o al taglio della spesa pubblica. In questa fase, quale delle due serve al Paese? 

Cerchiamo di sintetizzare quanto più possibile. Negli ultimi trent’anni sono diventate nettamente prevalenti le voci degli economisti che sostengono il bisogno di permettere ai mercati di funzionare spontaneamente; questo presenta implicazioni anche sulle questioni territoriali, perché non è affatto detto che l’autoregolamentazione del mercato comporti la riduzione delle disparità, che potrebbero anche aumentare. Personalmente, valuto l’esito di queste politiche molto negativo, soprattutto in termini di rottura della società in cui viviamo. È opportuno un ripensamento complessivo, tornando a sostenere intelligenti politiche pubbliche che modifichino le condizioni strutturali delle nostre economie e delle nostre società.

A giugno si svolgeranno le elezioni europee. “Portiamo il sud in Europa” è uno degli slogan più gettonati. Ma come può l’Europa, o meglio questa Europa, aiutare il Mezzogiorno a incrementare il proprio processo di sviluppo? 

Questione abbastanza problematica. Certamente, da un lato vi sono le politiche di coesione, meritevoli di essere difese e migliorate alla luce della discussione sul bilancio dopo il 2027, tema importante e fondamentale, però dall’altro vedo un pericolosissimo ritorno alle regole europee dell’austerity, responsabili dell’impatto sulla capacità dei Paesi di realizzare sia investimenti pubblici sia le spese per lo sviluppo, ovvero spese corrette come la sanità e l’istruzione che sono un punto decisivo per l’Italia e per il Mezzogiorno. Per cui, più che portare il Sud in Europa bisognerebbe portare qualche idea più di sinistra in Europa.