Il post-comunismo italiano costituisce senza dubbio un case study del tutto peculiare nel contesto del processo di trasformazione del panorama politico europeo innescato dal crollo del Muro di Berlino. Al di fuori dell’Italia, infatti, il comunismo era divenuto politicamente irrilevante in tutta l’Europa occidentale ben prima del 1989 e, di conseguenza, in quella parte del continente gli eventi di quell’anno non determinarono grandi cambiamenti né nei sistemi politici dei diversi paesi, che conservarono la morfologia e le dinamiche precedenti, né nei partiti comunisti occidentali, che generalmente non modificarono neanche il loro nome e semplicemente videro accelerarsi il loro declino. Nonostante il fatto che il Partito Comunista Italiano, come tutti i partiti comunisti ad ovest della cortina di ferro, a partire dal 1947 sia rimasto ininterrottamente fuori dal governo, esso presenta alcune analogie con quanto avvenuto nell’Europa orientale. Anche in Italia, infatti, il PCI ha cambiato nome ed è entrato a far parte dell’Internazionale socialista; il vecchio sistema politico è crollato ed è stato sostituito da un nuovo assetto, per il quale calza perfettamente la descrizione che Vasselin Dimitrov dà dei partiti politici dell’Europa orientale («instabilità organizzativa e ideologica, incapacità o mancanza di volontà di elaborare programmi politici precisi, leadership personalistica, assenza di radicamento nella società»);2 il principio di alternanza è divenuto realtà dopo 45 anni di egemonia di un solo partito assumendo una forma estrema al punto che nessun partito è mai stato in grado di vincere le elezioni per due volte consecutive; infine, il gruppo dirigente post-comunista è stato tra i protagonisti delle vicende politiche del paese, partecipando al governo ed eleggendo un primo ministro, un presidente della Repubblica e numerosi ministri nei governi di centrosinistra.
Tuttavia, a differenza di quanto è avvenuto in molti paesi post-comunisti dell’Europa orientale, il PDS-DS italiano non si è dato una chiara identità socialdemocratica, non ha mai conquistato un forte consenso elettorale − attestandosi intorno al 16% dei voti − e ha costituito una maggioranza solo in coalizione con altri partiti, con i quali nel
La verità è che il post-comunismo italiano è difficilmente assimilabile sia alle esperienze occidentali sia a quelle dell’Europa centro-orientale, e la sua parabola non può essere compresa al di fuori di un esame dell’originalità del caso italiano e delle peculiarità della storia del nostro paese. Ciò imporrebbe di esaminare tanto gli elementi soggettivi (prima di tutto il pensiero e l’azione politica di Gramsci e Togliatti) quanto quelli oggettivi (a partire dalla limitata integrazione delle masse nello Stato dopo l’Unità e la mancanza di egemonia delle classi dominanti italiane), che hanno favorito la crescita di un forte Partito comunista nell’Italia postbellica, conferendogli la possibilità di “occupare” gran parte dello spazio politico ed elettorale della socialdemocrazia. Il PCI è stato un partito comunista (il che ai colleghi stranieri può sembrare una tautologia, ma non lo è nel dibattito politico e storico italiano), e ciò non riguarda solamente il suo nome, che è cambiato solo dopo la caduta del Muro di Berlino, ma il fatto che esso non ha mai reciso completamente il rapporto con l’Unione Sovietica e con il movimento comunista internazionale (anche se a partire dal 1981 il conflitto politico con l’URSS è diventato sempre più aspro) e non ha mai spezzato del tutto i legami ideologici con il comunismo. Nello stesso tempo, il PCI è stato incontestabilmente uno dei protagonisti della fondazione, del radicamento e della difesa della democrazia in Italia, e ha contribuito in misura considerevole alla crescita economica, sociale e civile del paese, svolgendo una funzione che si potrebbe definire per molti versi “riformista” e socialdemocratica; anche se, a ben guardare, quello del PCI è sempre stato una sorta di “riformismo passivo”, che, a differenza di quanto è avvenuto a livello locale, non è mai diventato un riformismo di governo. Indagare queste caratteristiche peculiari e le loro ragioni profonde è un compito che esula da un breve saggio come questo, e del resto non è neppure necessario, perché la storiografia ha lavorato molto sull’argomento e, soprattutto negli ultimi anni, con buoni risultati. Lo scopo che ci si prefigge è più limitato, e consiste nell’analizzare in modo sintetico ma esaustivo come il PCI abbia interpretato il 1989, come abbia reagito alla caduta del comunismo e quali basi culturali e politiche la svolta del 1989 abbia offerto alla trasformazione del PCI in un nuovo partito.
I dirigenti del PCI furono colti di sorpresa dalla caduta del Muro. Ciononostante, essi interpretarono quell’evento come una “rivoluzione democratica”. Come dichiarò l’allora segretario del partito Achille Occhetto, era in atto una trasformazione democratica, promossa dalle forze del cambiamento, che dimostrava come il PCI non aveva «niente a che fare» con il comunismo dell’Est e aveva anzi avuto ragione a sottolineare il «valore universale della democrazia» (una formula adottata da Enrico Berlinguer negli anni Settanta). Soprattutto, secondo Occhetto, la rivoluzione democratica aveva un carattere progressista perché rompeva il bipolarismo internazionale creato a Yalta, spianando la strada a nuove politiche tanto nel sistema internazionale quanto in Italia. Infatti, a suo giudizio, la sinistra internazionale era stata soffocata dal bipolarismo e dalla guerra fredda, la cui fine aveva riaperto la possibilità di trasformare, a Oriente come a Occidente, il «modello sociale e politico dominante».3
Nel configurare una interpretazione e una reazione al 1989, un grande ruolo fu paradossalmente svolto dal forte legame che univa Achille Occhetto e Michail Gorbaciov. Negli anni precedenti, la speranza in un successo del progetto di riforma del comunismo avviato da Gorbaciov aveva contribuito a rinviare il dibattito sull’identità e sul nome del partito. Occhetto sembrava condividere alcune caratteristiche importanti della seconda fase del “gorbaciovismo”, vale a dire l’importanza conferita alla priorità di una riforma democratica rispetto a una riforma economica e alle questioni sociali nonché alla focalizzazione dell’attenzione verso il sistema internazionale più che ai problemi interni, come se la rivoluzione sistemica prodottasi alla fine della guerra fredda nel sistema internazionale e in Italia potesse, in qualche misura, compen-sare la fragilità dell’Unione Sovietica e del PCI, favorendone la trasformazione e la ricerca di un nuovo ruolo egemonico. Non tutti nella direzione del partito condividevano quell’interpretazione del 1989 e i diversi elementi che vi si mischiavano: rimozione, wishful thinking, radicalismo di sinistra e paradigmi neoliberali. Nessuno tuttavia fu capace di dare una base più solida e realistica al cambiamento del partito, anche perché l’improvvisa proposta di Occhetto di «apertura di una fase costituente» per dare vita a «un nuovo soggetto politico» fece sorgere una forte opposizione all’interno del partito, al punto che gli altri dirigenti favorevoli al cambiamento ebbero timore che mettere in discussione le basi analitiche della “svolta” ne avrebbe messo in pericolo l’esito.
Non si intende qui riprendere la discussione sul fatto che il 1989 possa o meno considerarsi una rivoluzione. A parere di chi scrive, tale definizione non sarebbe adeguata, non tanto per una sottovalutazione del cambiamento che si è verificato, ma perché quel cambiamento è sembrato più dovuto a ciò che Albert Hirschmann ha definito exit (vale a dire un ritiro unilaterale da una relazione sociale e politica, simboleggiato in questo caso dall’attraversamento del Muro) che a un tentativo consapevole (e riuscito) di presa del potere da parte di una forza rivoluzionaria capace di trasformare la società e lo Stato.4 Inoltre, come è stato rilevato da molti, entrambe le strategie, exit e voice (cioè, nella concettualizzazione hirschmanniana, l’azione di protesta e di contrasto del potere costituito volta a cambiare i termini di una relazione sociale e politica), hanno trovato compimento e hanno avuto successo grazie al duplice effetto del crollo del comunismo in Europa e dell’attrazione esercitata dalle società occidentali, soprattutto dalla “economia sociale di mercato” della Germania occidentale, nei confronti della Repubblica Democratica Tedesca e dell’Ungheria.
L’interpretazione del 1989 come rivoluzione democratica appare dunque unilaterale e inadeguata: essa ebbe, infatti, conseguenze importanti sulla “svolta” del PCI. In primo luogo, consentì al partito di evitare una discussione sul ruolo svolto nella caduta del comunismo dalla socialdemocrazia occidentale, in quanto essa fu tra i protagonisti del compromesso che aveva dato vita alla “economia sociale di mercato”. Al contrario, l’interpretazione di Occhetto nasceva da una versione di sinistra dell’impiego del paradigma del totalitarismo, fondata sulla dicotomia di matrice liberale tra Stato e società civile. La centralità di quel paradigma permise una sostanziale continuità con la piattaforma del XVIII Congresso, che si era svolto nella primavera del 1989 e nel quale Occhetto aveva auspicato una nuova strategia, fondata sulla “democratizzazione integrale” del mondo e della società italiana, quale base dell’identità di un nuovo PCI né comunista né socialdemocratico.
La trasformazione del PCI in un partito nuovo risultava dunque fondata su un intreccio di neoliberalismo e democraticismo di matrice giacobina epolitologica, la cui provenienza era rintracciabile più nella possibilità di trasformare il sistema politico italiano in conseguenza della fine del bipolarismo internazionale, che non nella necessità di innovare la cultura politica del partito. Se si legge il discorso di Occhetto al Comitato Centrale del novembre 1989, si trova un’espressione ricorrente (Occhetto la ripete sei volte): «sbloccare il sistema politico», quale obiettivo principale e caratteristica fondamentale della fase costituente proposta, che era intesa non solo come cambiamento del nome e del programma del partito, ma soprattutto come generale riconfigurazione del panorama politico. Per fare ciò, era necessario «costruire qualcosa di realmente nuovo», le cui caratteristiche restavano tuttavia vaghe.
La procedura adottata dal PCI per operare il cambiamento del nome fu molto lunga e ci vollero un anno e mezzo e due congressi per assistere alla nascita del nuovo Partito Democratico della Sinistra, nome che era stato proposto qualche mese prima della caduta del Muro di Berlino da Salvatore Veca e Michele Salvati.5 La fragilità della base culturale nel nuovo partito produsse un paradosso: il PDS risultava una versione ridotta del PCI; nessuna nuova forza politica o sociale significativa aderì alla fase costituente, molti elettori e membri abbandonarono il partito e il potere rimase saldamente nelle mani della leadership ex comunista. Nello stesso tempo, sul versante politico e culturale, la «discontinuità» (come
[1] La relazione “Post-Communism in Italy” è stata presentata al convegno “Twenty Years after the Fall. A Reappraisal of
[2] Cfr. la relazione di V. Dimitrov, “Post-Communism in East Central Europe”, presentata al convegno “Twenty Years after the Fall. A Reappraisal of
[3] Cfr. le conclusioni di Achille Occhetto al Comitato Centrale del PCI del 20-24 novembre
[4] Cfr. A. O. Hirschmann, Lealtà, defezione e protesta, Bompiani, Milano 1982.
[6] Partito Democratico della Sinistra, L’Italia verso il 2000. Analisi e proposte per un programma di legislatura, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 51, 57, 64, 66 e sgg.