Elogio del politico al tempo dei tecnici

Di Giorgio Caravale Lunedì 18 Febbraio 2013 18:31 Stampa
Elogio del politico al tempo dei tecnici Foto: Giuseppe Pessia

Cosa accomuna Grillo a Monti? Pur  con tutte le innumerevoli differenze di stile e linguaggio, entrambi sono animati da un profondo disprezzo verso la politica di professione. È invece necessario recuperare anche in politica il senso del valore positivo dell’esperienza, e ristabilire un corretto rapporto tra politici e tecnici che sia rispettoso delle naturali gerarchie del sistema politico.


Solo poche settimane fa un accostamento tra Beppe Grillo, comico genovese alla testa di un movimento populista e autoritario, e Mario Monti, rispettabilissimo rappresentante dell’establishment europeo e capo di un governo tecnico chiamato a salvare l’Italia dall’abisso economico sull’orlo del quale era stata condotta per mano dalla litigiosa coppia Berlusconi-Tremonti, sarebbe risultato quasi blasfemo. Ma gli scenari politici, si sa, cambiano in fretta e mai come in questo caso gli italiani si sono trovati ad assistere nel giro di pochi giorni alla clamorosa metamorfosi di un autorevole “tecnico” prestato alla politica il quale ha dismesso l’abito super partes sino a quel momento indossato per vestire invece quello di un politico smaliziato e agguerrito pronto a gettare fango sulle forze che più lo avevano sostenuto, pur di guadagnare qualche voto in più per la sua Lista civica alle prossime elezioni nazionali.

Gli attori sono sempre gli stessi, ma la sceneggiatura (e insieme la scenografia) sono improvvisamente mutati. Questo repentino cambiamento di ruoli consente di vedere in modo più nitido elementi che prima apparivano offuscati se non volutamente celati. Entrambi, il comico genovese fondatore del M5S e l’economista della Bocconi, sono accomunati da un profondo disprezzo nei confronti della politica come professione. Non è un caso, d’altra parte, che la supplenza esercitata in questi lunghi mesi dall’ex rettore della Bocconi sia stata linfa vitale per il crescente sentimento dell’antipolitica che, nella presenza al governo di ministri tecnici privi di legittimazione politica, ha trovato la prova più lampante dell’inadeguatezza della nostra classe politica. E non è stato certo casuale che l’ascesa a tratti irresistibile di Grillo sia iniziata proprio con l’avvio del governo Monti. Lo stesso rischio che molti commentatori hanno sottolineato analizzando la parabola politica del M5S – quello di portare acqua al mulino dell’antipolitica denigrando il profilo professionale del politico – sembra emergere in modo ormai lampante anche in alcune dichiarazioni e scelte politiche compiute recentemente dall’ex-rettore della Bocconi Mario Monti, ora alla testa di una coalizione politica, a dir la verità piuttosto eterogenea e scomposta, accomunata dalla condivisione di una agenda politica che porta il suo nome.

La sua ostentata estraneità alla politica, persino la sua ostilità nei confronti dei politici di professione si è esplicitata in modo del tutto evidente nelle regole che ha voluto introdurre per la scelta dei candidati della sua formazione al prossimo Parlamento: chiunque avesse alle spalle un’esperienza parlamentare men che breve era di fatto escluso dal novero dei futuri deputati e senatori. Secondo l’ideologia tecnocratica di Monti gli esponenti della società civile, economisti, industriali, professori universitari, sarebbero di per sé più virtuosi e adatti a esercitare la funzione legislativa rispetto ai politici di professione, a dispetto della loro totale inesperienza di governo e di amministrazione della cosa pubblica e della loro palese ignoranza di regolamenti e meccanismi parlamentari; in altre parole essi sarebbero più adatti a sedere tra gli scranni delle nostre istituzioni rappresentative, nonostante, o forse proprio grazie, alla loro completa verginità in materia.

Si tratta in entrambi i casi – la versione populista e demagogica di Grillo e quella tecnocratica di Monti – di visioni distorte e pericolose che lungi dal condurre a un nuovo equilibrato rapporto tra politica e società civile rischiano invece di contribuire ad alimentare pericolosamente il vento dell’antipolitica, esattamente ciò che l’ex-rettore della Bocconi dice a parole di voler evitare.

Come scriveva alla metà degli anni Settanta l’esponente repubblicano Bruno Visentini – intellettuale, tecnico e politico non sempre citato a proposito nella più recente era Monti –­ esiste una profonda differenza tra il politico e il tecnico, l’uno ha bisogno dell’altro, ma la guida deve restare salda nelle mani del primo. L’uomo politico, infatti, ricopre un ruolo fondamentale nella vita pubblica di uno Stato perché svolge la «funzione di assistere e di guidare gli altri uomini, sollecitandone e accettandone il mandato, in quella difficile opera che è per ogni collettività la quotidiana creazione della propria storia». La sua professione non può in alcun modo ridursi a quella di un tecnico: «la funzione e l’arte del politico non possono essere sostituite dal semplice assolvimento delle funzioni tecniche». La fondamentale differenza tra le due figure risiede nel fatto che «l’azione politica si proietta verso l’avvenire, con valutazioni di valore e con funzioni di scelte coerenti con indirizzi globali e di sintesi»; il politico di professione è colui che ha, o dovrebbe avere, lo sguardo lungo, la capacità di guardare al futuro e di pensare nel lungo periodo al bene e allo sviluppo della collettività; esattamente ciò che manca al tecnico: «Il tecnico è inevitabilmente e doverosamente legato al particolarismo analitico della sua competenza, con il rischio – come ben sanno coloro che hanno professionalità tecnica e impegno e piacere in essa – di essere indotto ad attribuire carattere di finalità al fatto tecnico e di considerare esaurito in esso il suo impegno».[1]

Ciò che occorre recuperare – scriveva Visentini in quelle lontane riflessioni ancora attuali – è un corretto rapporto tra politici e tecnici che sia rispettoso delle naturali gerarchie del sistema politico. Il politico di professione non deve cercare nel tecnico sostegno e avallo alle proprie scelte bensì rigore delle informazioni, serietà delle indicazioni ed equilibrio di giudizio. Per conto suo il tecnico non deve sacrificare il rigore e la serietà tecnica delle sue competenze sull’altare del suo personale desiderio di far carriera compiacendo il proprio interlocutore, ovvero facendo dell’opportunismo la propria stella polare, dando così luogo a forme di prestazioni clientelari che troppo spesso sanciscono «una nuova forma di trahison des clercs».[2]

La politica insomma deve recuperare un rapporto virtuoso con la società civile, mantenendo rispetto a essa un primato che dovrebbe derivarle in modo quasi naturale dall’autorevolezza dell’impegno, dalla capacità di guida e da una moralità di esempi oggi tutta da ricostruire. La politica ha un estremo bisogno delle professionalità e delle competenze che la società civile può offrirle, e per realizzare questo obiettivo essa ha bisogno di ricostruire un’immagine di sé che risulti attraente per la parte migliore della società civile, spezzando il circolo vizioso instauratosi tra antipolitica e disimpegno civile.

Visentini ricordava che un buon politico deve avere tre fondamentali caratteristiche: una solida conoscenza dei problemi, la capacità di circondarsi di buoni tecnici che ne supportino l’azione e una chiara geometria delle priorità e degli effetti derivanti dalle decisioni politiche. È la direzione che le forze responsabili dovranno seguire di qui in avanti per ridare credibilità alla politica. Quando l’attuale segretario del PD Pierluigi Bersani si riferisce ai «presidi di esperienza politica» che egli si impegna a mantenere sia tra i banchi del Parlamento che tra quelli del governo – pur negli spazi di apertura alla società civile che ha sentito il bisogno e l’opportunità di creare inserendo nelle proprie liste molti rappresentanti del mondo del lavoro, delle imprese e della cultura – è proprio a questa funzione di guida che egli fa riferimento. Prendendo le distanze delle scelte populiste di Grillo e da quelle tecnocratiche di Monti, il PD ha mantenuto la barra dritta, premiando attraverso le sue “parlamentarie” il patrimonio di esperienze di amministrazione locale e nazionale accumulato nel corso degli anni, anche a costo di prestare il fianco a qualche strumentale polemica sul supposto trionfo dell’apparato di partito. La presenza di esponenti della società civile e il contributo che professionisti del mondo dell’industria, del lavoro, della cultura possono dare alla guida del nostro paese ha un senso solo nella misura in cui essi possono e debbono collaborare con chi nel campo specifico della politica ha esperienza e professionalità da vendere. Solo una politica forte e rinnovata che goda del profondo rispetto di cittadini ed elettori potrà valorizzare a pieno l’importante contributo che la società civile saprà e vorrà offrire al governo della cosa pubblica.



[1] B. Visentini, Il rapporto tra politici e tecnici. L’arte di governare, “Corriere della Sera”, 28 luglio 1974.

[2] B. Visentini, L’arte di governare e il difficile rapporto tra tecnici e politici. Perché l’Italia ha ancora bisogno di Carli, “Corriere della Sera”, 4 agosto 1974.


 


Foto: Giuseppe Pessia

 

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