Risvegliamo l’intelligenza collettiva

Di Graziella Priulla Mercoledì 16 Febbraio 2011 12:57
Risvegliamo l’intelligenza collettiva Illustrazione: Oscar Sabini
I giornali e le tv hanno dato risalto alla manifestazione del 13 febbraio nelle grandi città: Roma e Milano, poco più. Catania è stato uno di questi luoghi: la dolce mattinata siciliana si è riempita delle sciarpe bianche, degli allegri richiami, dei gesti colorati di parecchie migliaia di persone che in questa processione laica si sono riprese le strade e le piazze... | di Graziella Priulla

 

I giornali e le tv (non tutti, ovviamente) hanno dato risalto alla manifestazione del 13 febbraio nelle grandi città: Roma e Milano, poco più.

È rilevante però anche ciò che è successo nei tanti altri luoghi d’Italia in cui le donne si sono fatte sentire con un’energia che nessuno aveva previsto (ma come sono diventate sorde le antenne della politica, in tempi di sfrenato sondaggismo!).

Catania è stato uno di questi luoghi: la dolce mattinata siciliana si è riempita delle sciarpe bianche, degli allegri richiami, dei gesti colorati di parecchie migliaia di persone che in questa processione laica si sono riprese le strade e le piazze, si sono riappropriate del diritto sia di indignarsi e di dire di no, sia di dar voce a quella voglia di cittadinanza attiva che non si esaurisce in una croce su una scheda, che non si identifica con l’audience.

Disincantata, spenta, afona era ormai da anni questa città, notoriamente e storicamente di destra, consegnata da sempre al clientelismo nell’inerzia imbarazzante della sinistra. “Se non ora, quando?” proprio per questo ha avuto qui un significato ancor più forte, e ancor più importante è darvi un seguito: la voglia di reagire è rinata, sarebbe suicida non tenerne conto, non essersi accorti che si sono uniti alla protesta anche molti fino ad ora tiepidi e disimpegnati, e molti che normalmente votano per le coalizioni di governo. Sarebbe folle continuare chi con i giochetti di palazzo, chi con il rassegnato ripiegamento sul privato e sul particolare, chi con gli esercizi raffinati e sterili della vocazione minoritaria a spaccare il capello in quattro (“forse”, “ma”, “però”, “verrei se”).

Queste non sono solo osservazioni mie: sono i discorsi che si facevano domenica mattina in via Etnea con tante e tanti ritrovati dopo molto tempo, o con molti nuovi conoscenti; sono le riflessioni che continuano ora, tra le “femministe storiche”, tra le colleghe di lavoro, tra le amiche di sempre, e fuori, tra quante sentono che il momento è arrivato e che nessuno si può tirare indietro.

Qualcosa dobbiamo fare, ci diciamo da tre giorni: intanto possiamo riaprire sedi di discussione, ricominciare il lavoro antico della divulgazione, della disseminazione. Smettere di ragionare solo sui tempi brevi.

Dobbiamo ritrovare, con il valore etico della politica, la sua valenza di socializzazione, il suo senso alto di pedagogia civile. Quanto ci è costato l’aver ceduto agli altri le chiavi dei racconti degli uomini, delle donne, del mondo? E che cosa accade quando una comunità comunica attraverso simboli resi logori da un’usura che finisce per privarli dei significati originari? Quando il girare a vuoto della politica cerca di disattivare l’intelligenza collettiva?

I circuiti della militanza politica, in anni non remoti, fornirono a molti strati della popolazione strumenti cognitivi e interpretativi che altrimenti non avrebbero avuto; che danno aver buttato a mare, col partito “leggero”, le sedi del confronto e del dibattito sui temi dell’attualità! La sera non andiamo più né in via Veneto né in sezione: stiamo a casa a guardare la televisione.

Per quanto mi riguarda, per quanto io posso fare all’università, è ora di ricominciare a parlare con gli studenti e le studentesse di ciò che pareva scontato, ma scontato non è.

Sono nati quando già lo specchio deformante della politica come “cosa sporca” era diffuso nel senso comune. Sono stati esposti come unico input agli aspetti parossistici dell’iconografia della politica, alla narrazione/epopea del capo tradotta in format televisivo. Questa democrazia umiliata e impotente, impaurita e incattivita, è la sola che conoscono. L’uso sfrontato della corruzione appare loro “normale”; il fascino delle seduzioni e degli ammiccamenti, tanto più facili delle argomentazioni, li ha disabituati a ragionare. Sono figli di un’epoca che di categorie vuote costella non solo le chiacchiere delle comari, ma i discorsi dei rappresentanti istituzionali. Sono risultati della grande mutazione dell’ambiente simbolico in cui tutti siamo immersi.

Non erano poi tanti – a Catania almeno – nella manifestazione di domenica. Non c’erano neanche molte ragazze. Così lontane dalle fonti che a noi sono familiari (giornali, siti d’attualità) da ignorare perfino che ci fosse, la manifestazione. Gli avvenimenti e le ragioni che li fondano appaiono loro confusi, il mondo al di fuori del loro cortile si presenta ai loro occhi come una sequenza di turbolenze indecifrabili. Le indagini dei sociologi parlano di un deficit di senso.

Noi non siamo innocenti, se abbiamo permesso che questo avvenisse.

È il linguaggio che consente di abitare nel regno del politico, ma la politica intreccia reti di concetti in cui molti ragazzi si perdono. Bisogna recuperare con loro il senso delle parole, sottraendole da un lato alla ripetizione coattiva, dall’altro all’astrazione, per calarle nella vita: bisogna prendere insieme in mano i giornali, e discutere sulle differenze tra “etica” e “moralismo”; rileggere i significati di termini “pesanti” come “democrazia” e “libertà”; riflettere sulle declinazioni della parola “popolo”; ritrovare il nesso tra “polis” e “politica”, e tra “politica” e “sguardo sul mondo”. Bisogna addestrarli a capire che dietro le frasi fatte, le metafore abusate, gli slogan reiterati, i messaggi di fittizia facilità, sono in agguato la banalità del pensiero e i rischi della manipolazione.

Forse bisogna anche trovare l’umiltà di mettersi con loro davanti agli spot e ai cartelloni pubblicitari, all’“Isola dei famosi” e al “Grande Fratello”, per spiegare che sia il commercio che lo spettacolo possono essere diversi. E che c’è un nesso a unire tutto questo alla perdita di speranza, all’incertezza sul futuro delle giovani generazioni.

Non dobbiamo aver paura di dire cose ovvie, se per loro ovvie non sono.

 


Illustrazione di Oscar Sabini