Verso Copenaghen: quali politiche per l'Italia?

Di Giuseppe Surdi Giovedì 10 Dicembre 2009 18:30 Stampa

L’Italia si trova tra i paesi in prima fila nella lotta ai cambia­menti climatici e tuttavia sembra presentarsi alla vigilia del-l’appuntamento di Copenaghen ancora priva di una stra­tegia complessiva entro cui si inquadrino singoli provvedi­menti e iniziative. Altri paesi europei, come ad esempio la Germania, affronteranno invece in maniera più consape­vole obiettivi e impegni globali e specifici per la propria co munità nazionale.

Gli obiettivi collettivi

La preoccupazione per le sorti del clima del pianeta aumenta a ritmo crescente; lo testimonia la progressione degli obiettivi di riduzione del - le emissioni di gas serra di cui si discute a livello globale.

L’ultimo atto in questa direzione è la proposta del Consiglio europeo del 30 ottobre scorso di una riduzione delle emissioni clima-alteranti del 50% a livello mondiale entro il 2050, a cui i paesi sviluppati dovrebbero contribuire abbattendo i propri gas serra di almeno l’80-95% rispetto ai livelli del 1990. Questo proposito, che fa propria la posizione dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC),1 verrà portato dall’Unione europea al tavolo delle trattative alla Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite di Copenaghen, con l’intento esplicito di cercare di contenere l’incremento della temperatura nel corso del XXI secolo entro i 2 °C per evitare che aumenti superiori possano innestare dinamiche del clima attualmente non prevedibili e potenzialmente pericolose.

Come scongiurare che questo avvenga non è però così chiaro. Purtroppo la scienza del clima non dà certezze definitive sul rapporto tra andamento della temperatura, emissioni e attività umana e anche rispetto allo stato attuale delle conoscenze inoltre stanno emergendo dei dubbi sulla possibilità che un taglio della metà delle emissioni globali entro il 2050 possa garantire di per sé quota 2 °C,2 ancor prima che questo obiettivo sia condiviso da tutti i principali paesi emettitori, cosa peraltro molto difficile.

La posizione della UE e dei paesi membri, compresa l’Italia, spinge comunque verso l’accordo più alto possibile, ispirata da principi di precauzione e dalla volontà di dar seguito al ruolo di capofila della lotta al riscaldamento globale che l’Unione europea ha assunto e che ha portato i paesi membri, in poco più di dodici anni, a impegnarsi prima, a Kyoto, in una riduzione dei gas serra dell’8% entro il 2012 e, successivamente, in un obiettivo unilaterale di taglio del 20% entro il 2020 rispetto ai livelli del 1990, come stabilito nel 2008 dalle ormai famose politiche europee del «20-20-(20)», obiettivo che diventerà automaticamente del 30% nel caso di accordo globale sul clima.

 

Il contesto italiano

L’Italia si trova quindi tra i paesi in prima fila nella lotta ai cambiamenti climatici ed è plausibile che sarà impegnata in un rilancio ulteriore delle proprie ambizioni “verdi”, soprattutto se l’esito delle negoziazioni, in particolare tra USA, Cina, India, Brasile, sarà, almeno parzialmente, positivo. Non si comprende però quanto il paese, le sue istituzioni e l’opinione pubblica ne siano effettivamente consapevoli.

La sfida è da “far tremare le vene ai polsi”, a maggior ragione se si considera il punto di partenza. Nono tra i grandi inquinatori mondiali, con il suo 1,7% di emissioni globali da combustibili fossili,3 fino al 2007 il nostro paese era infatti l’unico insieme alla Spagna tra i grandi d’Europa a sforare ampiamente il proprio obiettivo di Kyoto. Questo obiettivo richiede una riduzione del 6,5% delle emissioni nazionali rispetto ai valori del 1990, pari a una quantità massima di 483 milioni di tonnellate CO2 eq. annua da poter emettere in atmosfera nel periodo 2008-12; nel 2007, invece, l’Italia ha prodotto 552 milioni di tonnellate di gas serra, quindi, per essere in regola con il Protocollo internazionale, il nostro paese dovrebbe diminuire le proprie emissioni rispetto a questo dato di circa il 14% entro il 2012.

C’è da dire che l’andamento delle emissioni è in discesa dal 2004: nel periodo 2005-07 si è, infatti, registrata una riduzione della media annua di gas serra di 19 milioni di tonnellate, e le prime stime per il 2008 prospettano un ulteriore abbattimento compreso tra 3 e 6.4 Per il 2009, poi, la crisi e il disastro della caduta della produzione industriale del paese, di circa il 20% su base annua, trascinerà al ribasso le emissioni complessive avvicinandoci beffardamente al target di Kyoto, a un prezzo altissimo però in termini di occupati e reddito nazionale.

I drivers di questa evoluzione non sono facilmente distinguibili, ma guardando ai dati disaggregati dell’“Inventario italiano dei gas serra 1990-2007”5 si nota come, tra il 2005 e il 2007, la riduzione delle emissioni sia avvenuta principalmente nel settore residenziale, pubblico e commerciale (_12 milioni di tonnellate), nei processi industriali (_4 milioni di tonnellate) e nelle industrie manifatturiere e di costruzioni (_3 milioni di tonnellate). Un ruolo importante può averlo giocato il succedersi di stagioni temperate in inverno e in estate, che ha contenuto i consumi di energia e le emissioni connesse soprattutto nel settore abitativo e commerciale. D’altra parte il forte incremento dei prezzi dei combustibili fossili (tra il 2004 e il 2007 la quotazione dell’olio combustibile è quasi raddoppiata) può aver spinto il settore industriale a un aumento di efficienza nei processi produttivi; quando poi, nel 2008, il petrolio ha sfondato quota 150 dollari al barile si sono modificate, seppur in modo momentaneo, le abitudini di trasporto dei cittadini, come sarà evidente quando saranno disponibili i dati, determinando una diminuzione significativa delle emissioni anche in questo settore.

La crisi sta facendo il resto. Ragionare di riduzione di emissioni in questo frangente ha però un sapore vagamente “panglossiano”, visto che stiamo correndo il rischio di una desertificazione produttiva le cui conseguenze sociali e i riflessi sul potenziale di sviluppo del paese sono difficili da valutare, ma certamente pesantissime. In altri termini, l’alternativa tra desertificazione fisica, probabilmente già in atto nel Mezzogiorno e che rischia di acuirsi all’aumentare delle temperature,6 e desertificazione produttiva e sociale non può essere un’alternativa accettabile. Servono politiche che affrontino i problemi dell’ambiente e spingano il paese fuori dalle difficoltà congiunturali e strutturali in cui si trova, e che siano tra di loro sinergiche. Il quadro dei vincoli a cui l’Italia è sottoposta deve in questo senso essere trasformato in un insieme coerente di politiche che offrano opportunità di sviluppo per tutto il sistema nazionale.

Gli impegni sottoscritti dall’Italia in sede europea con il pacchetto clima ed energia, del resto, richiedono interventi in questa direzione, a meno di non voler dichiarare che si è scherzato e non si è in grado di rispondere agli obblighi assegnatici.

Le politiche del «20-20-(20)»7 puntano, come detto, a raggiungere a livello europeo un _20% di emissioni rispetto al 1990 e per farlo impongono al nostro paese, al pari degli altri Stati membri, di ridurre del 21% rispetto ai livelli del 2005 le emissioni nei settori inclusi nell’Emission Trading System (ETS),8 il manifatturiero e l’energetico, e del 13%, specificamente per l’Italia, nei settori non ETS (civile, servizi, agricoltura, trasporti). Nel pacchetto, a sostegno dell’obiettivo europeo, vi è anche il regolamento che impone la riduzione delle emissioni medie delle automobili a partire dal 2012; il trasporto, infatti, è uno dei settori chiamati principalmente in causa insieme a quello energetico. Nel 2007, in Italia, l’attività delle industrie energetiche ha contribuito per il 28% dei gas serra immessi in atmosfera, mentre la mobilità ha pesato come secondo emettitore per il 23%. Il problema è che intervenire in questi comparti non è affatto semplice: l’Italia presenta già un’intensità energetica bassa rispetto alla media europea e ha modalità di trasporto che si sviluppano principalmente su gomma (92% del traffico passeggeri e 68% di quello merci)9 con l’impiego prevalente di combustibili fossili.

Per rispondere alle esigenze del clima e agli obiettivi assunti sono necessarie, quindi, politiche in grado di trasformare in senso sostenibile la produzione di energia, di modificare la conformazione attuale della mobilità nazionale e, ovviamente, di spingere verso un efficientamento di tutta la struttura produttiva e di consumo in modo da contenere i fabbisogni energetici complessivi e le emissioni. Vaste programme, in effetti, ma che corrisponde agli impegni presi. Rendere il mix dei combustibili più “verde” aumentando le fonti di energia carbon free è infatti il secondo obiettivo che la UE si propone di raggiungere entro il 2020, ovvero il 20% della quota di rinnovabili sui consumi finali di energia, il 17% per l’Italia, insieme all’obiettivo di un utilizzo di almeno il 10% di carburanti “verdi” (biocombustibili, idrogeno, energia elettrica) nei trasporti in ogni paese europeo.

Nel contesto attuale lo sviluppo delle rinnovabili non è solo uno strumento necessario per ridurre l’impatto inquinante della produzione di energia elettrica, la cui domanda dovrebbe tornare a crescere nel tempo, una volta esaurita la crisi; si tratta an che di una leva che può aiutare il paese a uscire dalle secche attuali. L’Italia, infatti, per soddisfare l’obiettivo europeo dovrebbe installare impianti da fonti rinnovabili per una capacità di circa 25 GW, con un impiego di risorse del sistema paese dell’ordine di oltre 60 miliardi di euro entro il 2020. Se ben veicolate, queste risorse possono contribuire allo sviluppo di filiere industriali della green economy, che sono destinate a diventare strategiche in un futuro post Copenaghen, in cui i grandi paesi saranno comunque impegnati nel rendere sostenibili i propri modelli di produzione e consumo, in primis di energia, magari senza vincolarsi ad obblighi stringenti.

Per quanto riguarda poi l’efficienza energetica, anche se le politiche per il clima e l’energia non hanno alla fine fissato l’obiettivo di una riduzione del 20% dei consumi, l’Italia è comunque sottoposta, come gli altri Stati membri, alla direttiva 2006/32/CE che richiede entro il 2016 un risparmio energetico del 9%, da raggiungere attraverso Piani d’azione nazionali. Un impegno che è per il nostro paese assolutamente significativo se si pensa che circa il 40% del patrimonio edilizio nazionale ha più di 50 anni e quindi necessita di opere straordinarie di riqualificazione energetica.

L’insieme dei vincoli all’interno del quale si muove il paese è quindi ben strutturato, mentre non si può dire altrettanto del suo orientamento strategico. E senza una strategia chiara è difficile anche solo sedersi al tavolo di Copenaghen.

 

Una strategia per Copenaghen

L’esigenza di una programmazione complessiva è stata ovviamente avvertita anche dalle istituzioni nazionali; non a caso, infatti, nel 2008 è stato deciso, per decreto,10 di attribuire al governo il compito di definire una “Strategia energetica nazionale”.

L’idea è quella di individuare le priorità del sistema paese nel medio-lungo termine e di stabilire, sulla base di un’analisi delle dinamiche del prossimo futuro, gli obiettivi della politica energetica nazionale rispetto alla diversificazione delle fonti di energia, al potenziamento delle infrastrutture, alla promozione delle fonti rinnovabili, dell’efficienza e della ricerca energetica e alla realizzazione di impianti di produzione di energia nucleare.

Al di là dei limiti di un piano che, fin dal titolo, sottovaluta la portata delle problematiche ambientali, il percorso che avrebbe dovuto portare alla elaborazione di questa strategia prevedeva una Conferenza nazionale dell’energia e dell’ambiente, in cui tutti gli stakeholders interessati avrebbero dovuto contribuire e dibattere sugli scenari possibili e sulle linee da seguire; conferenza di cui però si è persa traccia.

Allo stato attuale l’unica cosa che emerge in modo abbastanza chiaro è la volontà dichiarata dal governo di voler procedere, nel medio termine, a una trasformazione radicale dell’attuale mix di combustibili nella produzione di energia, puntando: a una riduzione della quota dei combustibili fossili fino al 50% dell’energia prodotta (dall’85% attuale); a un obiettivo per le fonti rinnovabili del 25%, superiore quindi agli obblighi europei; a coprire, infine, il restante 25% attraverso la costruzione di nuovi impianti nucleari. Obiettivi così importanti e significativi necessitano però di essere ricondotti e valutati all’interno di un quadro strategico coerente da cui emergano gli effetti che le diverse decisioni di policy hanno sul sistema nazionale, sia in termini di rispetto dell’insieme dei vincoli europei e nazionali che il paese ha sottoscritto, sia in termini di traiettoria di sviluppo, sia infine in termini di risorse complessive necessarie per le politiche che puntano a perseguire tali obiettivi.

I nodi, le alternative e le sinergie da affrontare sono, infatti, molteplici: necessità crescenti di impianti di back up per le rinnovabili, sviluppo delle smart grids, smaltimento delle scorie, efficientamento del sistema energetico,11 investimenti in tecnologie di cattura e sequestro del carbone, politiche di riduzione dei consumi nel settore residenziale e commerciale, mobilità “verde”, sono solo alcuni dei tanti aspetti che dovrebbero essere affrontati all’interno di una visione organica della questione energetico- ambientale che riguarda il paese.

Allo stato attuale, questo manca. Risulta così difficile riflettere, ad esempio, sulla compatibilità economica tra gli impegni di sostegno alle rinnovabili e l’investimento in nuova generazione nucleare e, quindi, sui possibili oneri complessivi a carico dei contribuenti o dei consumatori. Così come si possono solo azzardare ipotesi sul ruolo che potrebbe giocare la realizzazione del programma nucleare sulla riduzione delle emissioni e quindi sul rispetto del Protocollo di Kyoto, del «20-20-(20)» e di eventuali nuovi obiettivi vincolanti che saranno contrattati al tavolo di Copenaghen.

Procedere al buio in questa fase di grande trasformazione espone a tutta una serie di rischi. Anzitutto quello, molto probabile, di essere inadempienti rispetto agli obblighi già sottoscritti, e di conseguenza di sopportare i costi che Kyoto e le politiche europee prevedono. Ancor più grave è il pericolo di non avere gli strumenti per comprendere e sviluppare una discussione pubblica su quali siano, nel medio termine, gli interessi del paese sia sotto il profilo energetico sia sotto quello ambientale, impedendo, quindi, all’Italia di giocare consapevolmente qualsiasi ruolo nelle trattative internazionali, a partire da quelle sulla ripartizione degli sforzi di un eventuale accordo globale. Terzo, il rischio di perdere una serie di opportunità, che andrebbero inquadrate in una strategia complessiva per poter imboccare, sfruttandole, un nuovo sentiero di sviluppo, soprattutto in questa fase di crisi.

Un’occasione almeno parzialmente persa è, ad esempio, il Piano casa. Questo poteva, infatti, essere lo strumento per una profonda opera di riqualificazione energetica del patrimonio edilizio esistente, legando fin da subito in maniera vincolante le possibilità di ampliamento degli edifici, da un lato, al miglioramento della loro efficienza con obbligo di certificazione energetica di standard più elevato e, dall’altro, all’installazione di fonti rinnovabili per la produzione di energia termica ed elettrica, come previsto dalla direttiva europea 2002/91/CE che l’Italia ha recepito. In questo modo si sarebbe dato anche un forte impulso non solo allo sviluppo delle microrinnovabili, ma anche a quelle filiere di produzione di materiali edili impegnate nell’innovazione dei propri prodotti e al settore delle costruzioni, che nella crisi faticano non poco. Proposto come un innovativo stimolo “verde” all’economia italiana, il piano stesso non avrebbe forse incontrato l’ostilità di alcune regioni e un iter così travagliato che ne ha svuotato il potenziale.

Un secondo esempio, in positivo stavolta, è invece rappresentato dagli incentivi a sostegno dell’auto a più basso impatto inquinante che, nei primi dieci mesi dell’anno hanno portato all’immatricolazione di 360.000 veicoli a GPL e metano, pari al 20% del mercato complessivo. Questa misura congiunturale di sostegno a un settore in difficoltà potrebbe, infatti, costituire un’opportunità ancora aperta, sia per l’industria in questione sia sotto il profilo ambientale, se fosse messa a sistema all’interno di un progetto di trasformazione della mobilità urbana ed extraurbana che punti a modificare in senso sostenibile il mix dei combustibili e che sia coerente con la più ampia strategia energetico-ambientale del paese.

Ragionare in questo modo non significa automaticamente bollare come inutili le varie iniziative prese nel corso del tempo, come le politiche di promozione delle rinnovabili, gli incentivi per il risparmio energetico, i progetti di Industria 2015 per l’efficienza energetica ecc. Significa piuttosto riflettere sulla possibilità che siano poco efficaci rispetto agli obiettivi che vogliono perseguire, se non saranno ricondotti a un progetto unitario. Si badi bene, questo non è un approccio dirigista, ma semplicemente ciò che altri paesi come la Germania, ad esempio, con l’Integrated Energy and Climate Programme (2007) e l’Energy Policy Road Map 202012 (2009), normalmente fanno.

A Copenaghen, questi paesi si siederanno forti delle loro strategie e sapranno trattare consapevolmente obiettivi e impegni globali e specifici per la propria comunità nazionale; l’Italia, invece, si affiderà all’intelligenza e alla capacità dei singoli, sperando di non uscirne troppo male.


[1] L’IPCC è l’organismo scientifico fondato dal Programma ambientale delle Nazioni Unite e dall’Organizzazione mondiale di meteorologia per l’analisi dello stato del clima e lo studio delle conseguenze della sua evoluzione sull’ambiente e sui sistemi socioeconomici.

[2] Cfr. C. Carraro, E. Massetti, Due gradi d’illusione, in “LaVoce. info”, 30 ottobre 2009.

[3] Cfr. ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, Le sfide ambientali. Documento di sintesi sullo stato dell’ambiente in Italia, Roma 2009.

[4] In proposito, cfr. Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Il protocollo di Kyoto quattro anni dopo, Dossier 2009.

[5] Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, Italian Greenhouse Gas Inventory 1990- 2007. National Inventory Report 2009.

[6] Cfr. Clima che cambia e immobilismo, intervista a Vincenzo Ferrara, responsabile del settore clima dell’ENEA, in “Qualenergia.it”, 14 ottobre 2009, disponibile su qualenergia. it/view.php?id=1116&con - tenuto=Articolo.

[7] Il 20 tra parentesi rappresenta l’obiettivo implicito di riduzione dei consumi energetici europei e, quindi, di incremento di efficienza energetica, necessario affinché gli altri due obiettivi vengano effettivamente raggiunti.

[8] Il sistema ETS è un mercato dei permessi di emissione in cui, fissato il tetto massimo di valori consentiti, i soggetti che vi partecipano possono acquistare e vendere quote di emissione secondo le loro necessità.

[9] Cfr. ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, Conto Nazionale delle Infrastrutture e dei Trasporti. Anni 2006-2007, Roma 2008.

[10] Cfr. d.l. 112/08, convertito dalla legge 133/08.

[11] Il confronto tra l’esperienza francese e quella italiana dimostra, ad esempio, che la disponibilità di capacità nucleare rischia di far premio sull’efficienza del sistema energetico nel suo complesso: l’Italia, infatti, presenta un livello di intensità energetica e di consumo di petrolio pro capite minori di quelli francesi (a questo proposito, si veda B. Laponche, Sfide e costi del nucleare, 2008). La maggiore disponibilità di energia può quindi portare a modalità di consumo non efficienti, che devono essere corrette con politiche adeguate.

[12] Come esplicitamente riportato nel documento del ministero dell’Ambiente tedesco, A Road map for Climate, Energy and Growth.