Cinquant’anni di Cina. Storie di un paese che si apre al mondo

Di Barbara Alighiero Mercoledì 19 Maggio 2021 12:04 Stampa

Un po’ romanzo, con suggerimenti autobiografici, ma soprattutto analisi accurata e documentata di cinquant’anni di Cina, un paese che Romeo Orlandi – è evidente – conosce molto bene. E racconta con precisione di particolari, giostrandosi tra argomenti sociali, poli­tici, economici, ma con il tocco di leggerezza dato dalle storie perso­nali dei tanti personaggi di diverse nazionalità, inventati e reali, che da quattro continenti si incontrano a Pechino. Cina caput mundi: nei primi decenni delle tante rivoluzioni di Mao Zedong come modello di un nuovo socialismo alternativo a quello sovietico, e poi negli anni delle riforme di Deng Xiaoping, esempio di un processo di sviluppo esclusivamente cinese. Prima, esportando solo la rivoluzione, poi il tutto, o quasi, che arriva sui mercati del mondo intero.

La storia inizia nel 1957, quando il protagonista cinese Song Mei è un bimbo di nove anni con il fazzoletto rosso al collo dei “giova­ni pionieri” della rivoluzione che, grazie alla morte del padre nella recente guerra di Corea, ha l’onore di partecipare a un incontro a Pechino con Pablo Neruda, al suo terzo viaggio in Cina. Le poesie del cileno ritmeranno e segneranno tutta la vita di questo giovane, nato alla vigilia della fondazione del regime comunista, nel 1949, ma mai sufficientemente moderno per ribellarsi alle tradizioni, tutto sommato più forti di ogni ideologia o progresso economico.

Pechino è ancora antica, un po’ decadente. Il tempo scorre con i ritmi degli hutong, i vicoli mongoli che, malgrado la distruzione, so­pravvivono con i loro suoni e odori. Con le abitazioni nascoste dietro alti muri grigi, una volta residenze di una sola famiglia e poi, con l’arrivo nella capitale di milioni di ex soldati e contadini dal resto del paese, condivise tra dozzine di uomini e donne che si controllano, si spiano, raramente condividono. È un periodo difficile di scontri politici violenti, di errori economici catastrofici che con la colletti­vizzazione forzata del Grande balzo in avanti causarono la morte di almeno 26 milioni di persone, nella peggiore carestia della Cina co­munista. Eppure sono anni di grande fiducia nel nuovo Stato, di ri­nato orgoglio nazionalista, di illusioni che non si infrangono davanti alla realtà, malgrado la realtà. Tutto sembra possibile, a ogni errore si trova una spiegazione plausibile, la causa in un nemico esterno, e il destino viene accettato nel nome di un futuro di gloria e di potenza. Anche la Rivoluzione culturale, lanciata da Mao nel 1966 e finita con la sua morte nel 1976 – una follia dettata dalla lotta di potere nel Partito comunista e che è oggi liquidata come i “dieci anni neri” – viene accettata. Giustificate sono le Guardie rosse che uccidono o conducono al suicidio migliaia e migliaia di intellettuali, di semplici insegnanti, di “nemici di classe” che fino al giorno prima erano com­pagni di vita. I figli denunciano i padri, gli studenti gli insegnanti, i coniugi divorziano. Nessuno osa chiedersi il perché.

Orlandi accenna a tutto questo, con competenza, ma non si soffer­ma, il romanzo scorre oltre, in altri continenti per presentare nel loro luogo d’origine i tanti personaggi che si ritroveranno poi a Pechino.

Come Daniela, che da Torino, arriva all’Istituto di lingue per stranie­ri a studiare cinese e avrà come professore l’affascinante Song Mei, ormai quasi trentenne. Lì incontra Toni Tan, primogenito di una ricchissima famiglia di imprenditori, costretto a lasciare l’Indonesia a causa delle persecuzioni contro i cinesi, sempre sospetti di simpa­tie comuniste. E Renato, orgogliosamente romano, eterno amico e spasimante predestinato al fallimento. Nonché altri giovani da Ve­nezuela, Somalia, Germania, Cile, tutti identificabili dalle diversità nazionali che, in un modo o nell’altro, influenzano l’atteggiamento di ciascuno di loro verso la Cina. In comune, almeno all’inizio della loro esperienza, la curiosità, l’entusiasmo, l’eccitazione per essere nel posto giusto al momento giusto, quello in cui si sta scrivendo la Sto­ria. Che spesso delude, ma sempre stupisce.

Così le drammatiche vicende delle Cina del 1976, dalle dimostrazio­ni di Tiananmen, scatenate dalla morte dell’amatissimo primo mi­nistro Zhou Enlai, il leader del Partito comunista cinese più rispet­tato all’estero e in patria; al terremoto di magnitudo 7,8 sulla scala Richter a Tangshan, a circa 180 chilometri dalla capitale, che causò la morte di quasi 300.000 persone e la distruzione di una parte della vecchia Pechino, in particolare le famose botteghe degli antiquari sulla Liulichang frequentate dagli stranieri fin dall’inizio del seco­lo; fino alla scomparsa del Grande timoniere e l’arresto della vedova Jiang Qing e dei suoi accoliti, la ben nota Banda dei quattro. Un vero anno del Drago, disastroso come sentenzia l’astrologia. Le catastrofi naturali sono da sempre state viste come il segno della fine del man­dato celeste (in effetti le dinastie crollavano per l’incapacità di gestire i disastri). Il 9 settembre Mao muore, e contro la sua volontà dopo lunghe e laboriose discussioni, viene con molto ritardo malamente imbalsamato da esperti chiamati in tutta fretta dalla nemica Mosca. Perché continui ad essere rispettato e omaggiato, nel sarcofago di cristallo nel Mausoleo sulla piazza Tiananmen, dove una volta sor­geva la Zhonghua men, la principale porta meridionale delle mura imperiali di epoca Ming, da lui distrutte nell’intento di cancellare il passato. E se per la Cina fu l’inizio di uno sconvolgente cambio di rotta, per quella generazione di Daniela e Renato fu forse il momento del risveglio, dell’emanci­pazione dai sogni. La Cina che avrebbe dovuto creare una società nuova, più equa, più giusta, si riduce all’ennesimo tentativo fallito di cambiare la natura dell’uomo. Sulla scena si impone un leader abile, arguto, senza scrupoli quanto Mao, che decide di fare uscire ad ogni costo il suo pa­ese dall’arretratezza e dalla miseria: Deng Xiao­ping. Le scelte economiche e politiche di Mao vengono smantellate una ad una, ma senza mai intaccare l’immagine del padre della patria, che con grande abilità non viene demonizzato come Stalin nell’Unione Sovietica di Nikita Kruscev, bensì santificato.

Gli studenti di Orlandi reagiscono ciascuno in modo diverso, sembra influenzati più dal loro passato e dalla loro storia personale che dalla vi­cenda politica in sé. Alcuni se ne vanno indignati. Altri restano, per necessità, per amore, o solo perché non vogliono ammettere di esser­si sbagliati. La Cina si apre al mondo, prima con cautela, lasciandosi la possibilità di un rapido passo indietro, poi sempre più sicura di sé, più audace. Da Rotterdam, Carl, il personaggio che incarna con molta efficacia un pragmatismo più o meno artificiale, raggiunto dopo studi filosofici e ribellione, arriva a Pechino a capo di una delle prime aziende lanciate alla conquista del gigantesco mercato, ben presto meta obbligata per tutti. Carl ha un vantaggio, rispetto agli ormai ex studenti che incontrerà, ha già perso le sue illusioni. Le sue osservazioni sono taglienti, caustiche anche, ma prive di ipocrisie. E mentre Song Mei trova il modo, molto cinese, di escogitare una so­luzione di compromesso non sempre nobile che tuttavia sappia con­ciliare le sue aspirazioni personali e le esigenze di tradizioni fondate ancora sulla pietà filiale e radicate malgrado le molte inutili campa­gne contro Confucio, Daniela si trascina nel conflitto tra l’amore per la Cina e lo sconcerto per la nuova “via cinese al socialismo”. Fino ad arrivare a lavorare per Carl. Come lei, Renato si adatta. Giun­ti in Cina affascinati dal maoismo, si trovano in una dittatura che ha tutte le caratteristiche e le asprezze del peggior capitalismo. La repressione violenta delle dimostrazioni di Tiananmen nel 1989, or­dinata da Deng, conferma la fine del mito: «il partito che dirigeva e il popolo che comandava erano un ostacolo allo sviluppo», scrive Orlandi, spiegando la decisione di mandare l’Esercito del popolo a sparare contro una popolazione inerme che chiedeva più giustizia e meno privilegi per l’élite di partito. Deng non se ne pentirà mai, e il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 non fece altro che rafforzare la sua convinzione di avere fatto la scelta giusta. Dolorosa, di certo, ma giustificata dal fine ultimo: la stabilità, unica garanzia allo sviluppo. I protagonisti di Orlandi seguono tutto, allibiti e impotenti, dalla posizione privilegiata della casa di Carl.

La storia si conclude nel 2003, non sveliamo altro di questo gruppo di «stranieri sedotti e ignorati» dalla Cina, ma possiamo dire senza far danno alla lettura che, fra piccoli colpi di scena, i personaggi alla fine si disperdono, diradandosi nelle direzioni dalle quali erano venuti. Mentre il giudizio sulla Cina, nelle parole di diversi interlocutori, diventa duro, sprezzante, rabbioso. L’Occidente si sente come tradito da questi cinesi che non sono più umili e di una «povertà così digni­tosa» – come scriveva chiunque avesse messo piede in Cina anche per poche ore. La Cina non è più solo terra di abbondanza di manodo­pera a basso costo o mercato in cui vendere tecnologia, evitando che sia di ultima generazione. Con determinazione si va trasformando in una potenza economica. Fa paura. Allora ci si ricorda dei diritti umani, si dà sfogo alla critica sdegnata di questo regime incivile che reprime il dissenso nel sangue, come a Tiananmen. «La Cina sta en­trando nella globalizzazione e l’ha fatto con i carri armati», dice Carl, unico ad essere, probabilmente non senza sofferenza, coerente con la scelta fatta quando ha deciso di diventare un uomo d’affari, con le implicite conseguenze etiche che questo comporta.

Nel 1940, il settimanale americano “Time Magazine”, recensendo il libro “Through China’s wall” di Graham Peck, uno dei grandi in­viati negli anni di occupazione giapponese e guerra civile in Cina, lo definì: «in parte periodo di storia eccitante, in parte filosofia esotica, ma soprattutto il ritratto di un popolo, che spiega perché i cinesi perdono le battaglie ma in qualche modo vincono le guerre». “Mal di Cina” è questo, ma anche il ritratto di un Occidente entusiasta, cinico, adorante o sprezzante a seconda del periodo storico, ma so­stanzialmente sempre un po’ goffo davanti alla diversità cinese.

R. Orlandi, Mal di Cina, DeriveApprodi, Roma 2020.