Un affresco italiano

Di Paolo Corsini Giovedì 19 Marzo 2020 16:47 Stampa

Con questo suo lavoro Miguel Gotor, storico modernista dell’Università di Torino, ma con alle spalle lavori di grande impegno dedicati a taluni passaggi cruciali della storia italiana contemporanea – indubbiamente il più autorevole studioso del “caso Moro”, senza contare che la sua edizione delle lettere dal carcere dello statista democristiano è un capolavoro di acribia filologica e di finezza interpretativa –, si cimenta con il “secolo lungo” che va dal 1896 al 2017, vale a dire dalla sconfitta di Adua e dall’uscita di scena di Francesco Crispi – il fallimento del sogno colonialistico di fine Ottocento accompagnato da pulsioni nazionalistiche – sino alla caduta del governo Renzi in seguito all’esito del referendum costituzionale e all’ascesa di quello Gentiloni. Già di per sé la scelta dell’arco cronologico che rifugge dalla retorica del “secolo breve” – la penetrante definizione di Erich H. Hobsbawm è stata progressivamente declassata a banale luogo comune – dice di una ricostruzione in grado di misurarsi sia con processi di lungo periodo, con problemi di lontana ascendenza che connotano le vicende del paese, sia con gli sviluppi contemporanei indagati sotto una lente di ingrandimento che osserva il presente come storia.

Ebbene, ancor prima di una considerazione degli assunti più significativi del libro, dei guadagni che esso arreca a una più approfondita e meditata conoscenza dell’Italia novecentesca e dei primi anni del XXI secolo, va sottolineato il respiro di un impianto che spazia dall’ambito più propriamente etico-politico alle evoluzioni della società nazionale, agli sviluppi economici, alla vita di costume, ai dibattiti ideologici, alle correnti culturali, insomma al complesso della vita degli italiani. In secondo luogo va rimarcata tanto la vastità delle fonti cui l’autore ricorre maneggiandole con grande perizia – fonti letterarie e documentarie, ma pure testi di musica leggera e produzione cinematografica – quanto l’utilizzazione di una amplissima saggistica di cui si rende conto nell’apparato critico che accompagna il testo e la cui assidua frequentazione nettamente traspare, seppure di rado discussa ed evocata nel corso dell’esposizione. Essa, peraltro sorretta da una scrittura avvincente e suggestiva, lascia intravedere una indubbia dimestichezza con gli esiti più significativi della nostra storiografia, e non solo, ma senza che Gotor si addentri in una disamina delle diverse interpretazioni, disamina che affaticherebbe il testo. Tranne che nel caso del dibattito sulla “morte della patria”, l’8 settembre 1943, innescato dalle note tesi di Ernesto Galli della Loggia, e sulla Resistenza quale esperienza costituente, “civile”, della nuova Italia postfascista o della più complessiva rappresentazione del secondo dopoguerra. Una scelta non casuale: da un lato non affatica la ricostruzione effettuata col taglio proprio dell’alta divulgazione rivolta a un pubblico ampio e non solo agli specialisti che possono sentirsi rassicurati da un metodo, nonché da un’impostazione rigorosamente scientifica, dall’altro lato perché quegli snodi, forse più di altri, sono densi di rilevanza politica quanto al giudizio che si può esprimere circa la successione delle Repubbliche dei decenni postbellici e sui loro reciproci rapporti di continuità e rottura. Infine, un’ultima osservazione preliminare: Miguel Gotor non è soltanto uno storico di professione, con un curriculum di tutto rispetto, è stato un parlamentare – senatore nella XVII legislatura – ed è tutt’ora politicamente impegnato nell’area della Sinistra democratica e progressista. Un dato questo che può sollevare dubbi – come peraltro qualcuno non ha mancato di fare – circa la sua obiettività di studioso e l’equilibrio delle sue valutazioni. In realtà, la sua appartenenza a un ben preciso campo politico non frappone veli alla sua indagine, anzi costituisce uno stimolo a porsi problemi, a interrogarsi senza precomprensioni, a esplicitare particolari sensibilità scaturite e maturate proprio alla luce di una diretta partecipazione alla dialettica politica. Al di là di ogni pretesa o presunta neutralità rispetto a ciò che è reazione, conservazione o progresso, involuzione, regressione, conquista sociale e civile.

Per venire agli assunti del volume va sottolineato che, superando una consuetudine ormai invalsa nella pubblicistica che vede storie d’Italia dall’Unità sino alla seconda guerra mondiale e storie dell’Italia repubblicana – i recenti lavori di Massimo Luigi Salvadori e Luciano Marrocu costituiscono una felice eccezione –, Gotor può appuntare la propria attenzione su tratti originali e caratterizzanti, su fenomeni ricorrenti, ma pure su fattori di discontinuità e innovazione, su ritardi e accelerazioni che fanno del caso italiano un’anomalia, mettendo in luce specificità e questioni largamente irrisolte sino, per citare Mario Isnenghi, a “ritorni di fiamma” che periodicamente disegnano la biografia della nazione: il destino quasi ineluttabile di un paese a riscrivere un’autobiografia che si riproduce pur con tratti riconducibili a situazioni e momenti diversi. Basti pensare allo iato fra consenso popolare e classi dirigenti, allo sviluppo duale, alla divaricazione economica, sociale, di costume tra Nord e Sud, tra modernizzazione competitiva e modernizzazione assistita con quanto di arretratezza essa ha comportato e ancor oggi determina, alla presenza di una conflittualità politica e sociale che in determinati frangenti fatica a trovare forme di mediazione e meccanismi di contenimento, alla cessione sovranitaria da parte dello Stato che perde il controllo di interi territori e non riesce a garantire il primato della legalità a vantaggio di poteri criminali e mafiosi, all’esplosione di una violenza organizzata volta a condizionare gli esiti di processi di cambiamento della direzione politica e di mutamento dei rapporti sociali, alla presenza di settori degli apparati dello Stato che si rendono protagonisti e complici di attività anticostituzionali.

La raffigurazione che Gotor propone è sin dalle prime pagine insieme descrittiva e problematica: la svolta liberale di inizio secolo promossa da Giuseppe Zanardelli costituisce un’indubbia cesura rispetto ai decenni postunitari, ponendo fine a disegni di restaurazione autoritaria e definendo una gerarchia dei problemi del paese, nella prospettiva di ampliare le basi democratiche dello Stato, di rinnovare gli assetti sociali. Non senza, tuttavia, che le forze di opposizione – nel caso cattolici, nazionalisti e socialisti – in età giolittiana vengano considerati rispetto al governo “anticostituzionali e antisistema”: un dato questo destinato a riprodursi nella successione dei tipi di Stato e di regime politico alla guida del paese. Naturalmente con specificità di volta in volta variabili: per il “sarto di Dronero” governare “significava allargare di continuo il tasso di rappresentanza dell’esecutivo” attraverso abili manovre a fisarmonica tese ora a incorporare ora a escludere contendenti e avversari. Una formula all’origine di un deficit di legittimità dell’intero sistema istituzionale mai compiutamente superato. È la “grande guerra” con i sui drammi a determinare uno stato di instabilità politica ed economica e sconvolgimenti sociali nel cuore dell’Europa, con la stipula di un trattato di pace che di fatto si configura – l’osservazione è del generale francese Ferdinand Foch – come una sorta di “armistizio” destinato a rimanere “lungo vent’anni”.

E sarà l’offensiva squadrista delle camicie nere a porre termine alla “guerra civile” tra “opposti estremismi” sino all’eutanasia del regime liberale culminata nel “colpo di Stato anomalo” costituito dalla marcia su Roma che consente a Mussolini di accedere al potere grazie a Vittorio Emanuele III, contrario a firmare lo stato di assedio propostogli dal capo del governo Luigi Facta. Lo stesso re che vent’anni dopo imporrà l’estromissione del Duce. Insomma, la vicenda del fascismo che si dipana tra due “colpi di Stato”. Sul regime mussoliniano Gotor scrive pagine assai persuasive, rette sugli esiti di una storiografia ormai classica, nonché sulle acquisizioni di quella di ultima generazione: il trapasso dal monopolio d’autorità a quello politico, dal liberismo al protezionismo, sino allo Stato corporativo, la scelta dell’autarchia, la fabbrica del consenso e il culto del Duce tra propaganda e censura, sino al “totalitarismo imperfetto” che connota la via italiana alla realizzazione, con peculiarità moderne e innovative, di una dittatura carismatica di tipo cesaristico. Essa, attraverso il braccio armato del “partito di milizia”, annienta la democrazia e irreggimenta le masse, sacralizza la politica come religione con propri riti, miti e simboli tesi alla creazione di un “uomo nuovo”, elaborando una concezione etica dello Stato e una mistica organica della nazione. Dottrina della razza e legislazione razziale, una politica estera aggressiva, con obiettivi di espansione colonialistica e imperiale, l’ingresso in guerra non sono, dunque, incidenti di percorso, ma esiti inevitabili di una costruzione dallo sbocco per molti versi necessitato sino alla catastrofe e agli immani orrori della Seconda guerra mondiale. Senza tralasciare pagine dolorose ed episodi di aspro conflitto interno alla stessa Resistenza, nonché ponendo il proprio sguardo sulla zona grigia dell’attendismo, assai numerosa per indifferenza politica e ideologica, per calcolo utilitaristico o per semplice paura, Gotor, di contro a una pubblicistica di stampo revisionistico, se non addirittura diffamatorio, ribadisce con forza che «l’intrinseca moralità» della lotta di liberazione, della stessa «guerra civile», deriva dal fatto che «quei giovani combatterono non soltanto per la propria libertà, ma anche per quella di chi era contro di loro e di quanti, la maggioranza, decisero di non schierarsi». Una svolta, dunque, nel segno di una discontinuità morale, politica, istituzionale suggellata da un rito di espiazione – piazzale Loreto «feroce nel suo simbolismo (…) giusto nella sua impietà, empio nella sua giustizia» –, ma poi infrenata in età repubblicana da fattori di continuità: il mantenimento di un robusto centralismo statuale – persino dopo l’istituzione delle Regioni – e l’arroccamento in blocchi di potere da parte delle classi politiche di governo e dei ceti in più alto grado nella gerarchia sociale.

Nella delineazione dei percorsi della “Repubblica dei partiti” e della “Repubblica dell’antipolitica” Gotor espone valutazioni di grande originalità sulla base di affondi portati sullo sviluppo del paese e la sua modernizzazione economica e civile che si prolunga oltre il “trentennio glorioso”, sulle stagioni dello stragismo e del terrorismo, sulla evoluzione del sistema politico e sul ruolo dei suoi principali protagonisti, leader e soggetti collettivi. In effetti tra il 1945 e il 1985 si assiste a una crescita straordinaria, senza precedenti nella storia del paese, allorché, grazie all’integrazione occidentale, al ruolo assunto dallo Stato imprenditore, al dinamismo industriale, all’ampia disponibilità di forza lavoro a basso salario, si viene definendo un modello di economia mista, sociale e di mercato che pure tra irrisolte contraddizioni territoriali – lo squilibrio tra Nord e Sud, tra città e campagna – e sociali – il conflitto tra capitale e lavoro – è in grado di fronteggiare la crisi della metà anni Settanta e la stagnazione del triennio 1980-83, nonché di adeguarsi agli impegni imposti dai vincoli esterni sino al declino dovuto, soprattutto dalla metà degli anni Ottanta, al deficit spending dell’“Italia da bere” e alla persistente anomalia nazionale costituita da un abnorme tasso di evasione ed elusione fiscale, oltre che all’incapacità di reggere la concorrenza globale nell’ambito dei settori più avanzati della ricerca scientifica e tecnologica.

Se molteplici sono le pagine in cui l’autore passa in rassegna le fasi di sviluppo attraversate, le conquiste democratiche ottenute, le lotte condotte di civiltà e di progresso – sotto questo profilo ci restituisce una raffigurazione adeguata degli anni Settanta non solo come “anni di piombo” –, parimenti un quadro puntuale e dettagliato propone dei fattori di ostacolo, di resistenza al cambiamento nella direzione di una democrazia matura e finalmente compiuta. Stragismo nero e terrorismo rosso, ruolo dei poteri occulti, criminalità politico-mafiosa, trame e scorribande “esterne”, disegni eversivi e mitologie rivoluzionarie: Gotor ricompone il tutto in una visione unitaria ben al di là della dicotomia tra chi studia i “neri”, i “golpisti” o chi i “rossi”. Al di là di una visitazione meticolosa di passaggi e vicende – esemplare l’analisi dell’“immunità pattuita” da Aldo Moro con i palestinesi –, di una disamina delle componenti ideologiche e delle azioni armate compiute, Gotor riconduce il tutto all’essenziale di un disegno dovuto a molteplici protagonisti, volto ora a scardinare l’ordinamento democratico ora a destabilizzare l’ordine pubblico al fine di stabilizzare l’ordine politico. Insomma più che un “doppio Stato” con tutto quel che comporta questa categoria, un duplice progetto il cui obiettivo strategico è la democrazia, la libera dialettica tra forze diverse, nonché l’impianto costituzionale come codice di principi e valori, di regolazione della vita associata. Ebbene, se l’implosione della “Repubblica dei partiti” è riconducibile all’esaurimento della loro funzione nazionale e internazionale, oltre Tangentopoli, punto d’approdo di una deriva da tempo intrapresa – dalla sconfitta manu militari della “terza fase” morotea alla sempre rinviata Bad Godesberg comunista, al mancato disegno mitterandiano di Craxi fino al “preambolo” e al CAF –, la nascita della “Repubblica dell’antipolitica” sotto il segno di sentimenti solo all’apparenza contrastanti – l’indignazione e il rancore – è il prodotto della «forma assunta dalla politica in conseguenza dell’attuale crisi della democrazia rappresentativa».

Nella delineazione di un fenomeno polisemico dalle diverse maschere – da Bossi a Berlusconi a Beppe Grillo, dai molti volti del populismo mediatico e digitale sino a quello “da contagio” e di governo di Matteo Renzi, per giungere a Matteo Salvini –, Gotor supera se stesso e descrive una fenomenologia di base che connette l’antipolitica, prima e oltre la politica, a una dimensione antropologica, ad un sentiment diffuso. E così ci descrive con un puntiglio degno di una giusta causa il disilluso, l’egoista, l’impolitico, il semplicista, l’opportunista, il qualunquista, l’attivista militante, il decisionista, il benaltrista, l’elitista, il populista, il tecnocrate, insomma le molte figure che, da prospettive diverse e dalle contrastanti ambizioni, cooperano alla diffusione e affermazione dell’antipolitica come cifra distintiva della seconda Repubblica, di una tradizione che, lungi da risolvere nodi storici, finisce con l’amplificarli in una sequenza senza fine. Essa trova i propri assi portanti nella personificazione carismatica, nella disintermediazione, nella ricerca del potere senza un progetto e senza respiro. Con una novità: il passaggio dal multipartitismo centripeto della “Repubblica dei partiti” – una sorta di bipolarismo imperfetto – prima a una democrazia dell’alternanza (1994-2011), poi a una democrazia delle “larghe-medie intese” retta su alleanze post voto stabilite tra forze presentatesi come avversarie alle elezioni, nonché su un sistema politico sottoposto a molteplici fattori di instabilità, vocato come è a processi di frammentazione delle singole forze e degli schieramenti. Tali processi investono tanto la destra quanto la sinistra, accentuati oggi dalla crisi del berlusconismo e da quella che appare come una irresistibile vocazione al frazionamento delle formazioni democratico-progressiste che, non essendo autosufficienti, riescono a governare solo a patto di essere inclusive e coalizionali, di dividere il campo avversario sottraendo le componenti moderante ai conservatori, nonché attraendo quelle radicali ed estreme sulla base di programmi pattuiti. Purché siano rispettati e possano durare.

Per concludere, un affascinante affresco, costruito in modo impeccabile, che può essere letto anche come un manuale di educazione: lo stigma di una storiografia civilmente motivata e moralmente risentita attraverso il cui magistero possiamo riconoscere virtù e vizi dell’“eterna Italia”, soprattutto, confortati dalla consapevolezza delle virtù, attrezzarci a contrastare i vizi politici e morali: uno spirito fazionario e la vocazione a una militanza politica integrale che fanno pendant con disimpegno, cinismo, disincanto; un familismo amorale, clanico, di cordata e consorteria; sovversivismo dall’alto e trasformismo molecolare, un panorama di “felpati gattopardi e velocissimi camaleonti”; mobilitazione giustizialista segnata da riposizionamento e abiure; ceti intellettuali propensi a correre in soccorso ai vincitori, tranne poche, per quanto significative, eccezioni; classi dirigenti sensibili a prospettive di chiusure reazionarie per quanto sotto le sembianze di rotture rivoluzionarie; un diffuso antiparlamentarismo e il distacco tra cittadinanza, partecipazione e potere; un mix di antipolitica e iperpolitica alimentato da un qualunquismo anarchico e individualista; la commistione tra ambienti di partito, settori di apparati istituzionali e di informazione renitenti a riconoscere il principio democratico e il patto costituzionale; un diffuso discredito della rappresentanza politica e modalità di governo tendenzialmente consociative, a discapito di possibili alternative rette sulla pratica dell’alternanza come aurea igiene democratica.

M. Gotor, L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon, Einaudi, Torino 2019.