Paolo Corsini

Paolo Corsini

Storico.

Cosa resta del Novecento?

Sul Novecento molto si è scritto e discusso, a partire dalla sua periodizzazione, dalla individuazione dei tornanti cronologici entro i quali può essere ricompreso: un “secolo breve” secondo la fortunata (e spesso abusata) espressione di Eric Hobsbawm, un “secolo lungo”, “epoca lunga”, addirittura un “secolo sterminato”, e non solo sul piano della distensione nel tempo, secondo taluni storici e pubblicisti, da Charles Maier a Giovanni Arrighi, da Massimo Luigi Salvadori a Marcello Veneziani. E pure la sua eredità è oggetto di controversie così come divisa continua a essere la sua memoria a motivo di interpretazioni tra loro contrastanti, e non riconducibili a un’unica cifra come, quanto alle più significative ricerche prodotte sino agli inizi del nuovo millennio, documenta il bilancio tracciato anni fa da Mariuccia Salvati.

Gli ingredienti del populismo berlusconiano

Anche all’indomani della morte Silvio Berlusconi ha continuato a suscitare controversie quanto al significato del suo ruolo nella vita pubblica del paese. Su di un solo aspetto della sua personalità tutti hanno convenuto e cioè che è stato un combattente mai domo. Giuste o sbagliate che siano state le sue battaglie. Divisivo anche sul piano di come si possono interpretare i valori della vita, l’etica personale, i criteri di misura del proprio successo. Sarà comunque la storia a offrirci un’interpretazione plausibile delle scelte da lui compiute, grazie a quel distacco dalle passioni cui i contemporanei non riescono a sottrarsi. Nel frattempo, su tutte, una cifra distintiva va sottolineata: quella di un Berlusconi leader populista, espressione di un populismo più evoluto a paragone di quello di altri, di un Umberto Bossi ad esempio.

Le parole e le idee di David Sassoli

Non si è ancora spenta l’eco delle emozioni suscitate dalla prematura scomparsa di David Sassoli, un evento doloroso, vissuto con corale partecipazione non solo presso il ceto politico-istituzionale, ma dalla più larga opinione pubblica che ha voluto attribuirgli un tributo di riconoscenza e di apprezzamento per i tratti di spontanea empatia espressi dalla sua persona, per lo stile di misura e compostezza con cui ha rivestito il suo ruolo di presidente del Parlamento europeo in un tempo – tra il luglio del 2019 e il gennaio del 2022 – segnato da crisi profonde, da emergenze inedite e sfide impervie.

Gli anni Settanta: il decennio più lungo sotto la lente più attenta

Dopo il grande affresco delineato ne “L’Italia nel Novecento” del 2019, Miguel Gotor, già storico di santi, inquisitori ed eresie in età moderna, noto per essere il massimo studioso del delitto Moro, si cimenta ora in “Generazione Settanta” con la “Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982”, come recita il sottotitolo di questa ultima sua fatica che avvicina la lente d’ingrandimento a un periodo dell’Italia repubblicana tra i più tormentati e discussi.

Gli ultimi giorni di Berlinguer. Un racconto

Nell’ambito della pubblicistica che ha visto la luce nella ricorrenza centenaria della fondazione del PCI e della nascita di Enrico Berlinguer, avvenuta a Sassari il 25 maggio del 1922, un posto particolare occupa il saggio-memoria dovuto a Piero Ruzzante in collaborazione con Antonio Martini. Da sempre appassionato cultore di studi storici – si è laureato a Venezia con una tesi su “L’identità comunista tra la morte di Enrico Berlinguer e la nascita dell’Ulivo” –, già militante e dirigente della FGCI, poi con curriculum amministrativo e parlamentare di tutto rispetto – consigliere comunale e regionale, deputato per due legislature nelle file dei DS –, Ruzzante assomma alla competenza dello studioso la sensibilità del politico, che gli consentono, insieme all’esperienza direttamente vissuta, di ricostruire gli ultimi cinque giorni della vita di Berlinguer, come noto caduto sul campo a Padova l’11 giugno del 1984.

 

Fede (e passione politica)

Fede è espressione indubbiamente polisemica, dalle diverse valenze a seconda dei contesti in cui viene utilizzata. Deriva dal latino fides, che potremmo tradurre con fiducia, riconoscimento di affidabilità (“mantenere fede”), ma indica pure impegno alla lealtà (“promessa di fede”), attestazione, testimonianza su base etica o giuridica (“fare fede”), aspettativa (“avere fede”, “prestare fede”), osservanza di un principio, adesione a un progetto sulla base di una credenza, di una scelta dovuta al riconoscimento di una autorità, all’ottemperanza a un valore, a un principio, a un’idea dalla quale si trae conforto e rassicurazione, ma pure stimolo all’agire. Esito di una credenza preriflessiva1 che esula dalla sfera della razionalità, la fede dice pure della passione e determinazione con cui si persegue un obiettivo, un fine: passione e determinazione poste al servizio di cause diverse.

 

Il cammino possibile di Roma verso il futuro

C’è una chiave di lettura che Walter Tocci propone a quanti vogliano raccogliere le molteplici suggestioni contenute in quest’ultimo suo lavoro dedicato alla città di Roma; anzi, come recita il sottotitolo, alla ricerca di un futuro per la capitale, dopo i precedenti contributi, rispettivamente del 2008 (“Avanti c’è posto. Storie e progetti del trasporto pubblico a Roma”, scritto a più mani con Italo Insolera e Domitilla Morandi) e del 2015 (“Non si piange su una città coloniale”). Da tempo – così l’autore annota – «si è rotto il rapporto tra politica e cultura: la prima ha sostituito la curiosità conoscitiva con le certezze mediatiche; la seconda si è piegata nei confini disciplinari oppure si è smarrita nelle scorciatoie spettacolari». Con la conseguenza che, dopo la pubblicazione di opere sistematiche in grado di incidere sul dibattito politico – quelle dovute ad Alberto Caracciolo per la storia, a Italo Insolera per l’urbanistica, a Franco Ferrarotti per la sociologia –, oggi «per la ricerca urbana è diventato più arduo influire sulla rappresentazione dei problemi e delle soluzioni».

Democrazia e politica nella bolla

Damiano Palano, studioso della crisi del liberalismo, delle promesse non mantenute della teoria democratica, della “democrazia senza partiti”, nonché del populismo, oltre che curatore di un volume di saggi su Carl Schmitt dovuti a Gianfranco Miglio, si cimenta con questo lavoro su un fenomeno tipico della contemporaneità: quella sorta di emigrazione interiore per cui il soggetto si rinchiude in una bolla autoreferenziale costruita su misura, sui suoi gusti e preferenze, che lo illude di percepire la totalità dell’universo, inducendolo ad accreditare solo le informazioni che si adattano ai suoi convincimenti. A prescindere che siano vere o false. Una suggestione che all’autore deriva, tra gli altri, da un passaggio dell’ultimo discorso di Barack Obama tenuto a Chicago il 20 gennaio 2017, in cui, prima di passare le consegne a Trump, il presidente americano sentì la necessità di mettere in guardia i suoi concittadini da quelle “bolle” rassicuranti in cui si trovavano.

La città come bene comune

A lettura finita delle quasi 800 pagine di questo volume si resta senza fiato. E non tanto per la mole del lavoro, quanto per l’impegno profuso man mano che ci si addentra in una summa della “scienza della città” retta su di un processo di unificazione delle “due culture” – il titolo di un vecchio libro del 1963 dovuto a Charles Percy Snow – in cui, come concludono gli autori, l’approccio umanistico e quello tecnico-scientifico sono complementari l’uno all’altro sino a un rapporto di vicendevole contaminazione.

Un affresco italiano

Con questo suo lavoro Miguel Gotor, storico modernista dell’Università di Torino, ma con alle spalle lavori di grande impegno dedicati a taluni passaggi cruciali della storia italiana contemporanea – indubbiamente il più autorevole studioso del “caso Moro”, senza contare che la sua edizione delle lettere dal carcere dello statista democristiano è un capolavoro di acribia filologica e di finezza interpretativa –, si cimenta con il “secolo lungo” che va dal 1896 al 2017, vale a dire dalla sconfitta di Adua e dall’uscita di scena di Francesco Crispi – il fallimento del sogno colonialistico di fine Ottocento accompagnato da pulsioni nazionalistiche – sino alla caduta del governo Renzi in seguito all’esito del referendum costituzionale e all’ascesa di quello Gentiloni.