Le incognite di una Cina asimmetrica

Written by Alessandro Aresu Thursday, 07 March 2024 10:32
Le incognite di una Cina asimmetrica ©istock/v-graphix

Nel 2018, il New York Times ha pubblicato un reportage con un titolo significativo: “The Land That Failed to Fail”. Rappresenta, ancora oggi, un’utile sintesi sull’illusione occidentale di lungo corso sul sistema economico e politico cinese. Attraverso una descrizione del percorso compiuto dai drammi e dai fallimenti del maoismo fino al ruolo di potenza economica a cavallo tra i due secoli, evidenzia la capacità della Cina di innovare, crescere economicamente ed espandere la propria influenza sulla scena globale, il tutto mantenendo la stretta presa sulla società da parte del Partito Comunista Cinese e resistendo alle riforme democratiche. In questo senso, il “fallimento del fallimento” della Cina si è imposto come un successo in grado di sfidare le aspettative occidentali e di rimodellare le dinamiche globali, soprattutto nel contesto delle relazioni tra Pechino e Washington.

Oggi l’economia della Repubblica Popolare Cinese si trova in una fase di transizione critica, che ancora una volta sembra riportare al centro della discussione internazionale un possibile “fallimento” del modello cinese. Ancora una volta, è bene maneggiare con una certa attenzione questo concetto, evitando facili profezie che potrebbero essere smentite. La Cina è ormai una grande potenza economica. Non a caso un economista come Richard Baldwin ha coniato l’espressione “superpotenza manifatturiera” per indicare la rapidità e la pervasività dello sviluppo industriale cinese nel contesto mondiale. Allo stesso tempo, la Cina è ormai alle prese con un conflitto profondo con gli Stati Uniti, che mina alcuni elementi chiave di un’interconnessione che è stata essenziale per il suo sviluppo e che mostra profonde tensioni nel campo della tecnologia, mentre la crescita cinese non è più stata all’altezza delle aspettative dopo il COVID-19.

Nello scenario attuale, la difficoltà cinese è evidente soprattutto sul piano finanziario e dell’attrazione dei capitali. Basti pensare che, a inizio 2024, la capitalizzazione della borsa di Tokyo ha superato quella di Shanghai, riportandosi al primo posto in Asia. Si tratta di un controsorpasso simbolico ma anche di un passaggio inaspettato, al quale pochi osservatori avrebbero creduto solo cinque anni fa. Invece, a un periodo di rinnovata fiducia sul Giappone, finito in un cono d’ombra dopo la stagnazione iniziata negli anni ’90, e sempre più protagonista sul piano industriale e tecnologico, oltre che nella geografia degli investimenti, come mostra l’insediamento di Taiwan Semiconductor Manufacturing Company a Kumamoto, ha corrisposto un’impressionante distruzione di valore sui mercati finanziari cinesi, che si stima abbiano perso circa 6.000 miliardi di dollari dal 2021 a oggi.

L’aspetto finanziario è legato alle profonde incertezze dell’economia e non solo a un mero aggiustamento delle aspettative. Ovviamente, la Cina non avrebbe potuto mantenere comunque lo stesso ritmo della crescita che l’ha caratterizzata a cavallo tra i due secoli, accelerato anche dall’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001, e superiore al 10% di crescita del PIL all’anno. Le fragilità economiche, tuttavia, si sono accumulate in termini superiori rispetto alle stime del governo cinese e delle istituzioni internazionali, soprattutto per la situazione molto grave in cui versa il settore immobiliare e per l’incapacità dei consumi interni di trainare la crescita.

Inoltre, non c’è dubbio che sui mercati finanziari cinesi abbia avuto e continui ad avere un peso molto consistente la conflittualità con gli Stati Uniti. Molte fantasie sulla de-dollarizzazione, avanzate anche in riferimento a un ipotetico ruolo contro-egemonico della Cina in ambito valutario all’interno della variegata compagine dei BRICS, di cui non vi è riscontro, dimenticano tra l’altro il ruolo essenziale e difficilmente sostituibile che gli stessi capitali statunitensi hanno svolto per la crescita cinese nelle diverse stagioni degli ultimi quarant’anni.

Ciò vale sul piano dello sviluppo dei mercati finanziari, per esempio attraverso l’assistenza delle banche d’affari degli Stati Uniti per la privatizzazione e collocazione in borsa delle imprese pubbliche cinesi. E vale senz’altro per lo sviluppo di alcune aziende tecnologiche che hanno trainato in questo secolo una nuova ondata dello sviluppo cinese, appunto anche grazie ai capitali e alle competenze giunte dagli investimenti degli Stati Uniti. Il contesto politico degli Stati Uniti durante tutta l’amministrazione Biden ha chiaramente confermato che un punto essenziale di convergenza – forse l’unico – tra Democratici e Repubblicani rimane il mantenimento della tensione con la Cina, e questo, oltre al tema dei controlli sulle esportazioni su cui torneremo in seguito, si è riflesso anche in una crescente separazione in materia di investimenti. Da questo punto di vista sta avvenendo una sorta di decoupling, mentre sul piano industriale e commerciale la situazione è molto più complessa. Fa parte di questo processo, sul piano quantitativo, la netta riduzione dell’esposizione dei fondi statunitensi nei mercati di capitali cinesi, così come, anche sul piano qualitativo, la separazione tra le società di venture capital con base negli Stati Uniti (come Sequoia Capital) e i loro uffici in Cina. Allo stesso tempo, alcuni campioni tecnologici cinesi, tra cui il caso più evidente è Alibaba, hanno dovuto affrontare sempre la più pressione politica da parte del governo cinese, nel controllo e nell’organizzazione delle loro attività.

Sul piano dei flussi degli investimenti esteri diretti in Cina, nel 2023 secondo i dati della State Administration of Foreign Exchange sono ammontati a 33 miliardi di dollari. Si tratta del dato più basso dal 1993 e, rispetto al record del 2021, si è registrata una diminuzione del 90%.

In questo contesto, l’aspetto finanziario e la capacità di attrazione di investimenti sono campanelli d’allarme di importanza crescente per la stessa leadership cinese, e per il segretario generale del Partito comunista cinese, Xi Jinping, che ha focalizzato l’attenzione su queste problematiche. Tra l’altro, il presidente della China Securities Regulatory Commission Yi Huiman è stato di recente sostituito da Wu Qing. Più in generale, nelle difficoltà di questa stagione cinese non sembrano essere emerse figure di riferimento nella gestione dell’economia in grado di operare con continuità e stabilità, come è stato in termini diversi per figure come Zhou Xiaochuan, governatore della banca centrale dal 2002 al 2018, o più in là nel tempo per lo stesso Liu He, esperto economista e principale consigliere in materia di Xi Jinping. La Cina dell’ultimo anno ha già visto scandali politici che hanno indebolito l’immagine di stabilità del proprio sistema autoritario che ha voluto spesso proiettare all’esterno, per esempio con l’uscita nel 2023 solo dopo pochi mesi di mandato sia del ministro della difesa, Li Shangfu, che del ministro degli esteri, Qin Gang, per circostanze mai pienamente chiarite. Anche questa è una dimensione dell’incertezza che rende più fragile e instabile la posizione di Pechino, nonostante l’accentramento del potere nelle mani di Xi Jinping e del gruppo a lui più fedele.

Davanti a queste sfide, una chiave di lettura utile per considerare la situazione cinese, e ancora rilevante per le vicende attuali è quella che ho presentato ne Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia (Feltrinelli, 2022). Sul piano del conflitto tecnologico tra Pechino e Washington, e più in generale della capacità cinese nelle industrie avanzate, ci ritroviamo davanti a una situazione di forte asimmetria nella valutazione della Cina.

Consideriamo la posizione cinese nella sfida industriale globale sulla transizione ecologica e sulla transizione digitale.

A tutt’oggi, le industrie della transizione ecologica rappresentano il successo più visibile della politica di Pechino. L’Agenzia Internazionale dell’Energia ha scritto nell’estate 2022: “Il mondo si affiderà quasi completamente alla Cina per la fornitura degli elementi chiave per la produzione di pannelli solari fino al 2025. Sulla base della capacità di produzione in costruzione, la quota cinese della produzione globale di polisilicio, barre e wafer raggiungerà presto quasi il 95%”. Il 2024 si è aperto con la certificazione del sorpasso di BYD (Build Your Dreams) su Tesla nelle vendite globali di auto elettriche. Si tratta della punta di un iceberg ben più ampio, in cui attraverso CATL e altre aziende, tra cui la stessa BYD, la Cina domina nell’industria delle batterie, mentre il primato cinese sui pannelli solari resta solido. Pechino ha saputo scalare la sua posizione, da attore in grado di estrarre alcune materie prime critiche a potenza di riferimento globale per il loro trattamento, attraverso la creazione e il sostegno di campioni nazionali della chimica di varia taglia, a seconda delle esigenze, e con la possibilità di sperimentare e industrializzare su vasta scala le tecnologie nella loro applicazione produttiva. In cima alla filiera si collocano aziende come BYD: un tempo derisa da Elon Musk (che nel frattempo ha modificato il suo giudizio e la tratta con grande rispetto), cresce in maniera consistente nei mercati del Sud-Est asiatico, così come nei Paesi del Golfo, ha avviato la sua penetrazione in Europa, soprattutto attraverso gli investimenti in Ungheria, è attiva anche nell’elettronica per l’automotive e ha presentato un’ambiziosa gamma di auto di lusso attraverso il marchio Yangwang. Le contromosse statunitensi in questa filiera, con le politiche di investimento e riorganizzazione della supply chain avviate dall’Inflation Reduction Act, potranno condurre a un processo di relativa diversificazione, ma non sembrano in grado nel breve periodo di indebolire in modo decisivo la capacità cinese.

La transizione digitale, soprattutto se considerata attraverso la sua industria decisiva, quella dei semiconduttori, presenta tuttora una situazione molto diversa. Nonostante la volontà di lungo periodo della Cina, e resa palese con il Piano Made in China 2025 del 2015, di acquisire un crescente rilievo nella microelettronica a livello globale, anche al fine di servire i suoi mercati di riferimento (come gli smartphone, l’automotive, la robotica, le tecnologie per difesa e sicurezza), il progetto cinese è stato rallentato da due fattori principali: in primo luogo, i documentati casi di sprechi e corruzione dei fondi governativi avviati da Pechino, come Tsinghua Unigroup; in secondo luogo, l’ampiezza dei controlli sulle esportazioni degli Stati Uniti. Secondo l’associazione statunitense Semiconductor Industry Association, se consideriamo la quota di mercato globale complessiva dell’industria dei semiconduttori, gli Stati Uniti sono di gran lunga il leader mondiale, con il 48%, davanti alla Corea del Sud col 19%, il Giappone e l’Europa col 9% ciascuno, Taiwan con l’8%, la Cina col 7%. Non si deve mai sottovalutare l’estrema complessità di questa filiera, divisa in diversi segmenti con aziende specializzate. Per esempio, nell’ambito manifatturiero i leader sono Taiwan e Corea del Sud, mentre il segmento di assemblaggio e test vede una concentrazione nelle varie economie dell’Asia orientale (Taiwan, Cina, Corea del Sud, Giappone). Vi sono però segmenti con un primato decisivo statunitense, come electronic design automation (con aziende come Synopsys e Cadence Systems) o quello dei macchinari (dove alle aziende dei Paesi Bassi, ASML, e del Giappone, come Tokyo Elektron, Canon e Nikon, si affiancano affermate realtà americane come Applied Materials, Lam Research, KLA-Tencor). Proprio per via di queste capacità consolidate, gli Stati Uniti – attraverso i provvedimenti del Dipartimento del Commercio – hanno ridotto i rapporti commerciali con la Cina, condizionando le vendite di alcune aziende statunitensi all’ottenimento di licenze governative, con un’escalation di provvedimenti che ha avuto gli episodi principali nel caso Huawei e nelle restrizioni del 7 ottobre 2022. Ora, come è evidente, proprio queste restrizioni hanno creato un ulteriore e potente incentivo per la Cina per procedere nella strada dell’organizzazione di una filiera interna meno dipendente dagli Stati Uniti. Al contrario di ciò che comunemente si crede, ciò non può essere realizzato solo sulla base della disponibilità di risorse o di talenti. Alcuni segmenti della filiera richiedono capacità ingegneristiche di lunghissimo corso, ed è difficile credere che la Cina possa replicare nel breve periodo le medesime capacità di aziende come ASML o Applied Materials. Tuttavia, questo processo è comunque in corso, anche per l’intatta volontà della leadership cinese di supportare la tecnologia avanzata, e perché la Cina può utilizzare il suo enorme mercato per rafforzare i rapporti tra clienti e fornitori. Una testimonianza di queste attività nel corso del 2023 è venuta dal Mate 60 Pro, uno smartphone avanzato che Huawei è riuscita a riportare sul mercato, nonostante i provvedimenti restrittivi statunitensi a cui è sottoposta dal 2019. Anche se la capacità di sostenere la produzione in modo efficiente deve ancora essere verificata nel medio termine, il successo del Mate 60 Pro è passato soprattutto per una trasformazione e riorganizzazione della filiera, saldando i rapporti con altre aziende cinesi e quindi promuovendo la loro crescita. In parallelo, le aziende tecnologiche cinesi, per esempio quelle attive nei servizi di cloud, sui chip per l’intelligenza artificiale faranno sempre più affidamento a prodotti cinesi, che non potranno realisticamente raggiungere le prestazioni del leader indiscusso del mercato, la statunitense NVIDIA, ma saranno comunque funzionali.

Nel conflitto tra Pechino e Washington, già con la prima fase della “guerra commerciale” del presidente Trump ma ancor più col tentativo di riorganizzare le supply chain tecnologiche, a vincere senz’altro sono alcuni Paesi che connettono i due contendenti, sia come luogo di diversificazione rispetto agli insediamenti produttivi in Cina, sia come sede di investimenti cinesi per componenti che, attraverso un’altra geografia, giungono negli Stati Uniti. Secondo questa tipologia, Vietnam e il Messico sono tra i principali vincitori.

In conclusione, una nuova forma di asimmetria cinese, con la compresenza di punti di forza e di debolezza nella sua capacità industriale, finanziaria e tecnologica, sembra destinata a caratterizzare il prossimo futuro, in cui resterà il fattore strutturale del conflitto con gli Stati Uniti.