Dov’è la vittoria? Note sulla guerra in Ucraina

Dov’è la vittoria? Note sulla guerra in Ucraina Foto di GR Stocks su Unsplash

Di Carlo Galli - 4/11/2023

Può forse darsi che la guerra in Ucraina venga sommersa da altre più crudeli, o più nuove; e che divenga una guerra dimenticata fra le molte altre che si combattono, stancamente, pervicacemente, come una maledizione incessante, in tante parti del mondo, dall'Azerbaigian allo Yemen. Contraddizioni irrisolte, ferite senza cicatrice. O può darsi che ri-esploda, alimentata dalla violenza che circola in Medio Oriente, e che con essa si saldi a circondare il Sud e l'Est dell'Europa.

Ma anche se per ora sta perdendo gli onori della prima pagina, quella in corso in Ucraina resta una questione aperta, e che da sola tutt'al più si incancrenisce o si cronicizza ma che certo non si risolve; una questione che merita di essere affrontata non nella chiave della tifoseria o dello schieramento, ma con l'intento di individuare le cause della guerra per potere organizzare la pace e di comprendere le intenzioni dei nemici per avere un'idea degli effetti presenti e futuri della guerra. Insomma, piuttosto che porsi soltanto la domanda "chi ha ragione?", "di chi è la colpa?", ci si deve anche chiedere "perché è nata?", "che effetti sta avendo sulla forma del mondo?", "quali sono i fini che a questa guerra vengono attribuiti dai contendenti?"; anzi, "chi sono i contendenti?". E dov’è la vittoria, per gli uni e per gli altri? Coincide con la pace? O questa passa per altre vie?

Ovviamente, vittoria e pace coincidono in caso di debellatio di uno dei belligeranti: una resa incondizionata per collasso militare o politico o economico risolve la questione alla radice - o meglio, ne cambia la fisionomia: a quel punto si tratterebbe di organizzare una pace stabile -. Ma il "cambio di regime" sembra piuttosto improbabile, e le sanzioni non stanno (ancora?) piegando la Russia, mentre perseguire la vittoria militare decisiva è una prospettiva insidiosissima: secondo logica contiene infatti la propria contraddizione, ovvero, quella che Clausewitz definiva "ascesa agli estremi". Implica insomma una escalation, una pressione crescente di uomini e mezzi, che si estenderebbe anche alla forma della guerra, trascinandola progressivamente dallo scontro di media intensità, qual è oggi, alla guerra ad alta intensità e poi alla "guerra assoluta". Lo scenario di una escalation che sembra essere controllabile dalla politica, se dà vita a una guerra orientata solo al prevalere materiale di un combattente sull'altro, apre insomma la prospettiva della trasformazione della guerra razionale - rivolta all'obiettivo della sconfitta militare o politica dell'avversario - in guerra totale, o esistenziale: e ciò significa che prima di sparire dalla carta geografica chi sta per essere sconfitto userà ogni arma a propria disposizione. E ciò, secondo la sua dottrina d'impiego, implica per Russia il ricorso all'atomica.

Il rovesciamento della pretesa razionalità in distruzione totale non può evidentemente essere previsto come un possibile prezzo della pace attraverso la vittoria, che è vanificata da uno scenario di pura meccanicità spinta all'estremo. La politica proprio per questo deve intervenire alla ricerca di una pace concreta, che nasca da un'analisi realistica e radicale delle cause prossime e remote della guerra, e delle finalità che le vengono attribuite.

 

1. La guerra non ha solo una dimensione giuridica internazionale, né solo una astrattamente morale. Le sue radici affondano nello spazio e nel tempo. La causa prima della guerra - e quindi il suo inizio - è il crollo dello spazio politico sovietico, avvenuto fra il 1989 e il 1991 senza essere seguito da un vero disegno di pace; i tentativi di associare Russia e Nato, fra il 1997 e il 2002, sono stati indeboliti dal bombardamento Nato di Belgrado nel 1999, dall'intervento americano in Iraq (2003) e dalla diffidenza russa verso gli approcci dell'Ucraina verso la Nato (previsti dalla stessa costituzione ucraina), e dalla politica di Putin, che dal 2000 assume una crescente pulsione autocratica all'interno - ma già con Eltsin, nel 1993, la costituzione russa era stata modificata nella direzione di un ultra-presidenzialismo sostanzialmente post-democratico -. L'allontanamento dalla democrazia è stato dovuto anche all'inflazione russa del 1998, e alle due lunghe guerre cecene (1994-6 e 1999-2009), intrecciate con tremende pratiche terroristiche e contro-terroristiche; ma certamente l'avvento al potere di Putin è stato decisivo.

Putin è portatore di una lettura geopolitica della situazione internazionale, che vede nella perdita dei Paesi baltici e dell'Ucraina (indipendente dal 1991, mentre i Paesi baltici lo sono dal 1989) un vulnus radicale per la potenza imperiale russa; viene infatti messa a repentaglio la sua capacità di controllare l'istmo ponto-baltico, da Kaliningrad a Odessa, e di premere così sull'Europa, secondo una linea tradizionale d'intervento. Priva dell'Ucraina, la Russia è una potenza europea dimezzata.

Ma Putin ha accompagnato la dimensione geopolitica europea con discorsi e saggi che precisano il suo pensiero e la sua politica; dal 2012 in poi, egli si fa banditore di una politica debitrice a Ivan Ilin, neo-hegeliano antiliberale e antibolscevico, e a Aleksander Dugin, ultimo interprete dell'eurasiatismo degli "emigrati", che presenta la Russia come uno dei Grandi spazi planetari, come una civiltà originale e autonoma, multiculturale e multietnica, in aperta alternativa all'individualismo liberale occidentale perché centrata sulla dimensione comunitaria dell'esistenza. È a questa visione alternativa agli Usa, alla Ue e alla Cina, che   Putin affianca la spinta panrussa, volta a reintegrare in un'unica potenza politica, la "Nuova Russia" tanto la Grande Russia, quanto la Russia bianca (Bielorussia) quanto la Piccola Russia (Ucraina). Un'unità definita dalla stirpe slava orientale, dalla lingua, dalla religione.

La linea risultante è un neo-imperialismo che si sostanzia dell'annessione (2014) della Crimea, con Sebastopoli, alla Russia - una disannessione, dal punto di vista putiniano, perché la Crimea fu "donata" da Chruscev all'Ucraina nel 1954 -, e dell'appoggio politico e militare alle province russofone del Donbass, apertamente ribelli dal 2014, in vista di un'annessione soft dell'Ucraina alla Russia. Era questo il fine politico massimo della guerra di Putin, mentre il fine minimo è conservare i territori dell'Est ucraina già conquistati fino a ora, il che significa annettere senz'altro - o "proteggere" - le repubbliche indipendenti del Donbass, e creare la continuità territoriale della madrepatria russa con la Crimea - un obiettivo geopolitico spacciato per "lotta al nazismo" (con qualche esagerazione si fa così riferimento alla presenza nelle forze ucraine di truppe semi-regolari legate al ricordo del nazionalista Bandera, che fu sicuramente antisovietico e a tratti anche alleato dei tedeschi).

La piena vittoria russa sarebbe stata la ricostituzione dell'impero russo - non sovietico: le repubbliche centroasiatiche restano fuori -: un sogno di rinascita zarista finito con la ritirata da Kiev nel 2022, poco più di un mese dopo l'inizio della guerra aperta. Che è una delle sconfitte subite da Putin, insieme alla perdita del Baltico (con l'ingresso della Svezia e della Finlandia nella Nato) e con il forzato riavvicinamento della Russia, in posizione subalterna, alla Cina: le sanzioni hanno dato vita a una architettura geoeconomica nuova, che si fonda sul decoupling della Russia dall'Occidente e sul suo sbilanciamento verso l'Est (anche se ci sono segni di riavvicinamento, almeno per la possibilità, di recente nuovamente affermata, che la Ue ricominci a comperare gas dalla Russia). Una sconfitta, per Putin, è la rottura di rapporti con l'Ucraina - la pretesa sorellanza fra le due Russie è spezzata, sanguinosamente, e Putin, quali che siano le sue conquiste territoriali, dovrà accettare di essere circondato da Paesi ostili: anche se l'Ucraina non entrerà formalmente nella Nato, godrà sicuramente di garanzie politico-economico-militari imponenti da parte della Ue e degli Usa, e non sarà certo neutrale. Il confine Est sarà una frontiera, anzi un fronte: gli Stati cuscinetto sono solo un ricordo. Certo, il controllo, diretto o indiretto, del Donbass, sarebbe dopo tutto per la Russia un rilevante successo territoriale geopolitico e geoeconomico: controllo delle rotte del grano, e riannessione (previo referendum) o vigilanza esterna delle zone ucraine più ricche di risorse minerarie, in cui l'Urss ha a suo tempo maggiormente investito per la industrializzazione (oggi bisognosa di una modernizzazione importante). La pressione che la Russia potrebbe dal nuovo assetto esercitare sulla Ue sarebbe inoltre potenziata dalla dimostrazione di impunità, nonostante la violazione del diritto internazionale.

Che recentissimamente Putin si sia dichiarato disposto a discutere il piano di pace cinese degli inizi di quest'anno - fondato sul rispetto delle sovranità statali ma anche sulla seria considerazione dei problemi di sicurezza di tutti (anche russi rispetto alla Nato, oltre che ucraini rispetto alla Russia) e sul ritiro delle sanzioni occidentali - è forse un puro mezzo di propaganda; in ogni caso, sarebbe per la Cina un trionfo (il che rende improbabile l'assenso degli Usa), e per la Russia un compromesso: l'ipotesi di una Ucraina neutralizzata e delle sue province orientali largamente autonome potrebbe essere gradita a Mosca. Che tuttavia si troverebbe ad avere scatenato una guerra terribile per un risultato in fondo modesto, appena in grado di bilanciare la sconfitta sul Baltico. Ma per ottenere di più Putin dovrebbe vincere la guerra sul campo, cosa che finora non gli riesce.

 

2. Da parte ucraina le cose stanno ovviamente in altro modo. Anche qui c'è un'ipotesi di vittoria totale, che assume le forme della "guerra giusta": si risponde alla forza con la forza, al torto subito con una guerra riparatrice, e il vincitore giusto una volta sconfitto il nemico detta le condizioni di pace, esige riparazioni, processa i colpevoli (il modello è quello di Francisco de Vitoria) o li consegna alla giustizia internazionale.

Ma la vittoria realmente possibile è altra: si tratta di salvare il salvabile dalla conquista russa, dando per persa la Crimea e dando per scontata come minimo una grandissima autonomia delle province orientali; si tratterebbe poi dell'ingresso nella Nato (una volta che il Paese sia in pace) e nella Ue (una volta che abbia i requisiti); nel frattempo, assicurazioni e garanzie militari reali, e imponenti aiuti alla ricostruzione. Ma ciò, per quanto non esaltante, implica almeno un "pareggio" militare, ovvero un "cessate il fuoco". Il che può avvenire solo per stanchezza di entrambi, e per una sopraggiunta consapevolezza che oltre a una pace di compromesso non si può andare. La guerra oggi continua per la volontà di entrambi di raggiungere posizioni di vantaggio nella trattativa che definirà i particolari concreti del compromesso.

L'altro grande vantaggio che l'Ucraina può cogliere è l'accelerazione, dovuta alla guerra, del processo di State building. Quella ucraina è un'identità nazionale storicamente debole - che non può esser fatta risalire direttamente al Rus' di Kiev, l'origine, contesa anche da Mosca, della identità religiosa slavo-orientale -, formalizzata molto tardi in un potere politico unitario e indipendente, mai sostanziata di una società civile articolata, prima della fase bolscevica, e modernizzata attraverso la violenza subita nel XX secolo. Durante il quale l'Ucraina fu una sorta di colonia, prima martoriata dall'Holodomor, poi dall'occupazione nazista e poi in parte privilegiata in alcune sue componenti politico-partitiche fortemente russificate (da Chruscev a Breznev), e sempre considerata da Mosca parte integrante, e subalterna, di una super-nazione russa.

Al tempo stesso l'Ucraina - che era stata a lungo oscillante fra l'autonomia relativa del cosaccato, il giogo polacco-lituano, la dedizione allo zar di Mosca nel 1654 e l'annessione della Galizia all'impero asburgico - dopo l'effimera indipendenza del 1918, voluta dalla Germania in chiave anti-russa e riassorbita da Lenin che al tempo stesso la riconobbe formalmente ma inserì il Paese nell'Urss e nel partito comunista pan-sovietico, votò massicciamente per l'indipendenza da Mosca nel 1991; ma rimase divisa fra Est russofono, Ovest (occidentalizzante con capitale Leopoli) e Centro (Kiev), indebolita dalla corruzione, lacerata da prospettive politiche divergenti che hanno dato vita a shock politici (2004 e 2014) in cui la posta in gioco era l'avvicinamento alla Ue o a Mosca, e da una guerra civile che ha contrapposto il potere centrale alle province del Donbass a partire dal 2014 (l'anno di Euromajdan e della Crimea): un pluralismo che contrasta con l'autocrazia russa, certo, ma che è difficile definire democratico per la labilità del processo politico complessivo, benché le elezioni si siano svolte alle scadenze previste. La guerra ha probabilmente accelerato il formarsi di una coscienza nazionale unitaria, almeno in una parte del Paese, ma certo le difficoltà sociali e la questione geopolitica irrisolta - l'Ucraina è schierata con l'Est, con l'Ovest o è neutrale? è un soggetto unitario molto diviso al proprio interno o per la pace regionale deve essere diviso anche formalmente? -, e non chiarita neppure dagli accordi di Minsk (2014 e 2015), di fatto disapplicati, la destinavano a essere sottoposta a pressioni, che alla fine si sono concretizzate nell'invasione e nella concomitante corsa occidentale agli aiuti economico-militari, perché il prezioso spazio geopolitico ucraino non fosse occupato dall'imperialismo russo.

 

3. Gli attori di questa complessa vicenda - di questa frattura scomposta dell'ordine internazionale - non sono soltanto slavi. Nella questione ucraina è coinvolta, ovviamente, anche l'Europa: tanto la porzione orientale a contatto (o quasi) con Mosca (Paesi baltici, Polonia, Romania) quanto la parte centro-occidentale, a partire dalla Germania. Questa aveva fondato il suo eccellente sviluppo economico, nel XXI secolo, sul rifornimento di gas russo a basso prezzo. Il che spiega l'estrema riluttanza con cui la Germania ha acceduto al progressivo irrigidimento della Ue verso la Russia, all'irrogazione di ondate di sanzioni sempre più rigorose, all'invio di armi in Ucraina, e infine all'interruzione delle forniture di gas. Che - insieme al "misterioso" sabotaggio del gasdotto principale fra Russia e Germania - è costata all'economia tedesca l'attuale ristagno. Alla riluttanza tedesca si contrapponeva la durezza baltica e polacca; in generale gli Stati europei hanno seguito fin che hanno potuto i propri differenziati interessi economici nei rapporti con la Russia: è innegabile che l'Europa si sia dimostrata incerta e divisa nell'affrontare l'inizio della crisi - la Ue non può produrre politica estera unitaria ed efficace (meno che mai militare) perché non ha unità strategica e decisionale -. Così l'Europa si è adagiata in una russofobia storica, in cui la tradizionale contrapposizione Occidente-Oriente, civiltà-barbarie, libertà-tirannide, ha preso la forma, semplificata, del confronto fra democrazia e autocrazia - nessuno spazio, ovviamente, all'altra chiave possibile del rapporto Europa-Russia, interpretata la prima come affetta da decadenza individualistica (cattolica e ancor più protestante) e la seconda come modello di sana vita comunitaria (ortodossa) -.

La reazione politico-militare all'invasione russa è stata guidata dagli Usa, direttamente o attraverso la Nato - benché anche l'alleanza non si sia impegnata formalmente in combattimenti: nessuno dei suoi membri è stato aggredito dalla Russia -. Gli Stati Uniti non possono rinunciare a un rapporto forte e strategicamente egemonico con l’Europa: a cui li lega un'unità di civiltà, anche se non necessariamente di interessi, e un'esigenza geopolitica essenziale. Il loro ruolo mondiale esige infatti il controllo di entrambe le sponde tanto dell'Atlantico quanto del Pacifico, il che spiega gran parte della loro politica di alleanze. Ed implica da sempre la percezione della Russia come principale competitor strategico, obbligato dalla propria estensione bicontinentale a cercare l'accesso a quei mari caldi e a quegli oceani a cui gli Usa annettono tanta importanza per la propria posizione di potenza. E ciò vale anche quando la Russia non è più portatrice, come lo era stata l'Urss, di un'ideologia universalistica anti-capitalistica. Dunque, in primo luogo gli Usa non avrebbero mai potuto lasciare a sé stessa l’Europa oscillante e intimidita davanti all'aggressione russa; e in secondo luogo hanno colto l'occasione per infliggere a Mosca un colpo quanto più duro possibile - non però nell'ottica, troppo pericolosa, di un "cambio di regime" -, per logorarne la capacità politica internazionale. La vittoria per gli Usa è insomma una Russia indebolita e screditata che chiede l'armistizio, rinunciando alle conquiste territoriali e accettando l'ingresso dell'Ucraina nella Nato e nella Ue, o in ogni caso il suo ancoraggio solido e permanente all'Occidente, a partire dalla fase della ricostruzione che si profila come un gigantesco volano per investimenti internazionali - e la sconfitta è una Russia vittoriosa su un’Ucraina sfinita, o anche una (improbabile) defezione di un alleato europeo -.

Naturalmente questa strategia ha il suo rovescio: spinge la Russia a inasprire il conflitto, non prefigurandole alcuna via d'uscita dalla trappola in cui si è cacciata; mostra all'Europa la propria impotenza, tratteggiandole un futuro di frizione permanente, anche solo implicita e potenziale, con il vicino dell'Est - un'Europa amputata della propria ala destra, priva di rapporti con lo spazio orientale -; e spinge la Russia tra le braccia economiche politiche e militari della Cina, vanificando l'opera davvero epocale di Kissinger e Nixon che nel 1971-72 avevano diviso politicamente il blocco continentale asiatico. Si determina così una nuova forma del potere globale, e dell'economia che lo nutre: una forma tendenzialmente duale - ma al tempo stesso composita - che vedrebbe fronteggiarsi due macro-soggetti internamente plurali, l'Occidente euro-americano e i Brics russo-indo-cinesi, ancora lontani da un'unità non si dice di civiltà ma almeno di intenti - per il momento, li unisce l'anti-occidentalismo -; in mezzo sta il mondo islamico indeciso e diviso. Gli Usa, insomma, hanno trattato l'evento ucraino come un'occasione per colpire la Russia e "passare oltre", al fine di focalizzare la propria attenzione su quello che reputano il loro vero competitor attuale, la Cina, senza curarsi del fatto che in tal modo modificavano profondamente l'architettura geo-strategica dell'Est del mondo ereditata dal secondo Novecento. In ogni caso, continuano a non riconoscere alla Russia il rango di superpotenza, perno di una forma di civiltà autonoma.

Una strategia, quindi, quella americana, di forte intervento planetario, ribadito da Biden: attuale in Europa, potenziale in Estremo Oriente, dove Taiwan è candidata al ruolo di nuova Danzica, e tendenzialmente indiretto - attraverso Israele e Arabia Saudita - in Medio Oriente: nella visione americana i tre fronti si collegano. In quest'ottica, la guerra in Ucraina è anche un brano della lotta per l’egemonia mondiale, quello che finora è costato di più al governo (con grande vantaggio per il complesso militare-industriale), ma è anche quello più esposto al rischio di un progressivo disinteresse del pubblico americano; il che in un anno elettorale potrebbe significare un affievolirsi del sostegno all'Ucraina, alla quale gli Usa potrebbero prima o poi far presente di non voler firmare a loro un assegno in bianco.

 

4. Non tanto si deve dire che con la guerra in Ucraina la storia si è rimessa in moto, quanto si deve constatare che non aveva mai smesso di muoversi, di reclamare la nostra attenzione. Che non c'è stata, se non superficiale, ideologica, incapace di avvertire il lavoro sotterraneo della “vecchia talpa”. E oggi di quella superficialità, di quella noncuranza, di quella cecità, paghiamo lo scotto.   La complessità di quella guerra - una matrioska, multidimensionale - nasce proprio dal fatto che è ancora indecisa la soluzione di un enigma: quale sarà l’assetto del mondo dopo che la Guerra Fredda del XX secolo è finita senza che sia stato creato un nuovo ordine. In Ucraina (e non solo lì) si combatte per determinare il chiarimento, almeno provvisorio, di quell'enigma. Che può andare dal riassetto strategico ed economico globale (nella forma di un equilibrio di potenze o di una egemonia) alla risistemazione dello spazio euro-orientale fino a un più modesto (ma anch'esso per ora irraggiungibile) armistizio di lunga durata in chiave "coreana". Una guerra che mostra quanto il mondo sia oggi privo di un principio d'ordine, anche minimo, che non sia il conflitto egemonico in atto, ancora aperto e magmatico. E che mostra quanto ne abbia bisogno, perché il disordine non si avviti su sè stesso, e tolga a tutti ogni speranza di vittoria.

 

Bibliografia minima

 

D. Groh, La Russia e l'autocoscienza d'Europa (1961), Torino, Einaudi, 1980

Y. Hrytsak, Storia dell'Ucraina. Dal medioevo a oggi (2021), Bologna, Il Mulino, 2023

S. Plokhy, Il ritorno della storia. Il conflitto russo-ucraino (2023), Milano, Mondadori, 2023