Sociale, verde, giusta: l’Europa che vogliamo

Written by Romano Prodi Monday, 26 February 2024 12:05 Print
Sociale, verde, giusta: l’Europa che vogliamo ©iStockphoto/saemilee


Non è presto per riflettere sull’Europa perché l’Europa riguarda tutti noi e tutti i programmi futuri. È la nostra sfida. Completare l’Europa e realizzare un’Europa federale è la sfida di noi riformisti, altrimenti non abbiamo futuro. Soprattutto un’Europa che sia unita, forte, grande e che torni a essere rilevante nel mondo. La tristezza maggiore che ho provato, da quando sono uscito dalla politica e insegnando negli Stati Uniti e in Cina, è stato constatare come il grandissimo interesse mostrato dai ragazzi nei primi tempi verso l’Europa si sia via via affievolito a causa dell’irrilevanza progressiva che l’Europa ha avuto nel mondo di fronte ai giganti Stati Uniti e Cina. A noi spetta quindi il compito di completare un progetto che ci ha portato tanti benefici e vantaggi, ma che, come ho ripetuto più volte, è ancora incompiuto. L’Europa è un ottimo pezzo di pane, ma è un pane ancora mezzo cotto. Il pane è buono, ma se non è ben cotto non piace. Questa è l’Europa di oggi. Non è il caso di ripetere i benefici della bellissima storia dell’Unione europea, dal sogno di Ventotene in poi, i progressi economici, la continua attrazione di nuovi paesi, la strenua difesa dei diritti che l’Europa ha sempre fatto, la battaglia per la tutela dell’ambiente da Kyoto in poi. Il Protocollo di Kyoto non sarebbe mai stato approvato se la Commissione che ho presieduto non avesse fatto di tutto per raggiungere il consenso dato che, non dimentichiamolo, vi era l’opposizione degli Stati Uniti e della Cina.
L’Europa è stata, per alcuni aspetti, uno dei protagonisti nel mondo. Poi una serie di fatti ha condizionato negativamente il processo politico: la crisi finanziaria dello scorso decennio, le tensioni fra Nord e Sud, (ricordiamo la crisi greca e la dura presa di posizione della Germania), la rinazionalizzazione di molte decisioni politiche e, soprattutto, il passaggio progressivo di potere dalla Commissione al Consiglio, cioè dalla struttura sovranazionale alla rappresentanza delle nazioni. Soprattutto questo ultimo aspetto, insieme a quello che è uno dei drammi delle istituzioni europee, ossia il diritto di veto e l’aumento degli estremismi e dei populismi, hanno portato a un cambiamento radicale dell’Unione.
Naturalmente l’Europa ha anche reagito, non dimentichiamo il PNRR e non dimentichiamo che se non ci fosse stata la politica europea durante il COVID avremmo avuto un vero disastro nella lotta a questa epidemia. Ma dopo questa meravigliosa parentesi, l’Europa ha ricominciato a dividersi, sull’immigrazione, sulla politica industriale, sulle politiche fiscali e soprattutto – e questo è avvenuto sempre anche in passato – sulla politica estera. In politica estera noi abbiamo, fortunatamente, solo un’unità sostanziale nel caso ucraino, ma nel resto della politica estera la scomposizione europea è da sempre drammatica. Dalla guerra in Iraq a quella in Libia, non abbiamo mai avuto unità. Ed è questa la ragione per cui abbiamo smesso di avere un ruolo nella politica mondiale e soprattutto non abbiamo più un ruolo nel Mediterraneo. Il caso ucraino ha riportato unità, con la doverosa scelta di essere alleati degli Stati Uniti in difesa dell’Ucraina aggredita, ma senza una capacità propositiva da parte europea, senza nessuna proposta europea concordata e quindi nessuno ruolo, nemmeno per le iniziative di pace. Se pensiamo che la Turchia ha avanzato più iniziative di pace dell’Unione europea è evidente che qualcosa è mancato. Per questo, sia chiaro, il nostro primo grande obiettivo deve essere quello creare una politica estera comune e una difesa comune. Non per assumere un ruolo di superpotenza tra le grandi potenze, ma per avere nel mondo la forza di portare avanti l’azione di equilibrio e di moderazione che è l’indispensabile compito dell’Europa in favore della pace. Non pensate che con questo io intenda un assurdo aumento della spesa militare. Ma ci sono dati sui quali dobbiamo davvero riflettere. In Europa si investono in spese militari 480 miliardi di euro, oltre la metà di quanto spendono gli Stati Uniti e ben oltre i 292 miliardi di dollari che spende la Cina. Una spesa ampia, grande ma con una scarsissima efficacia perché totalmente frammentata. Non affronto qui ora il tema dei 17 o 18 tipi di carri armati, o del numero indefinito degli Stati maggiori! Intendo solo dire che, a causa della sua frammentazione nelle spese militari, l’Europa è stata definita, con un’ironia fuori posto non dei nostri nemici, ma dei nostri amici: «Un gigante economico, un nano politico e un verme militare». Una definizione cruda. Ma questo significa che, restando comunque leali nei confronti dei nostri amici, noi non dobbiamo e non possiamo essere solo un “vassallo” fedele, ma dobbiamo essere un “alleato” fedele, capace di costruire una politica unitaria in difesa dei nostri diritti e anche dei nostri interessi. Sia quindi chiaro che dobbiamo proseguire nella razionalizzazione del rafforzamento militare e dell’esercito europeo. Ripeto dell’esercito europeo. Ma abbiamo anche il compito di una strenua difesa della pace e non possiamo essere classificati come “imbelli pacifisti”. Non possiamo tollerare di dare alla parola pacifismo un significato negativo. L’Europa ha una posizione ideale per essere un punto di equilibrio nel mondo. Ricordiamo che la pace, e non la guerra, deve essere il nostro obiettivo. Tuttavia, non possiamo accettare che la Libia, che è più vicina alla penisola italiana di quanto non lo sia la Sardegna, sia in mano ai russi, il cui PIL è l’80% di quello italiano, e ai turchi che hanno un PIL pari all’80% di quello spagnolo.
Io credo che i nostri futuri parlamentari debbano avere chiarissima questa idea di un’Europa forte, amica degli Stati Uniti, leale a supporto di chi è stato aggredito, ma anche con una grande capacità di esprimere una propria posizione unitaria, senza la quale noi continueremo – perché lo siamo già – a essere schiacciati dagli Stati uniti e dalla Cina, come accade alla noce nello schiaccianoci. Quindi non c’è tempo da perdere, perché la guerra in Ucraina ha cambiato anche i rapporti interni europei. Noi ci siamo dimenticati del riarmo tedesco. In un giorno solo la Germania ha cambiato una politica portata avanti per settant’anni, con gli stessi partiti che prima non avevano voluto nessun aumento della spesa militare e che ora hanno messo sul tavolo un bilancio della difesa che è infinitamente maggiore del bilancio francese e di tutti gli altri paesi europei. E questo porta con sé conseguenze molto importanti. L’Europa si è sempre sviluppata in un equilibrio tra il motore tedesco e il motore francese, l’Italia è sempre stata importante nell’equilibrio e nella determinazione della volontà decisiva. Ora non possiamo permetterci di andare verso un’Europa che abbia un solo paese leader sia nel campo politico che nel campo economico. I nostri amici francesi dicono che questo non accadrà perché la loro superiorità tecnologica è tale da rendere tale scenario irrealistico. Temo però che questa affermazione non abbia alcuna validità quando si tratta di più del doppio della spesa militare e di un sistema politico, economico e di capacità scientifica come quello tedesco. Certo ci sarebbe una soluzione, qualcuno pensa che sia un’utopia ciò che sto dicendo, ma basterebbe pochissimo per cambiare lo scenario. Dopo la Brexit, la Francia è il solo paese europeo membro permanente del Consiglio di Sicurezza. Basterebbe che la Francia mettesse a disposizione dell’Europa il diritto di veto e dal giorno dopo si possono realizzare l’esercito europeo e la difesa comune. Ma qui interviene un’altra riflessione. Gli ex imperi governano come chi guida, guardando lo specchietto retrovisore; può andar bene per un periodo di tempo, ma non per sempre. Così è stato anche per la Brexit, frutto di uno sguardo concentrato sullo specchietto retrovisore. Quando conversavo con i miei colleghi britannici, tutti si dichiaravano coscienti del rischio economico, ma l’espressione che usavano era «Londra non si è mai fatta comandare da nessuno, non si farà comandare da Bruxelles». Per fortuna la Brexit sta dando frutti tali per cui possiamo essere sicuri che nessuno altro paese uscirà mai dalla UE. Abbiamo visto il comportamento di Orban: tutto contro l’Europa, ma mai fuori, con quelle meravigliose contraddizioni che il nostro governo cavalca con grande raffinatezza. Questa, che ho chiamato utopia, potrà essere molto più vicina di quanto non pensiamo, per la situazione africana in evoluzione. Sono bastati 5000 mercenari per conquistare mezza Libia, il Niger, il Burkina Faso, la Repubblica Centrafricana e una parte del Sudan. Ecco, questa è la nuova realtà. Quel vecchio sistema, che richiama il colonialismo anche se non è più tale, non regge più e danneggia tutta l’Europa, Francia compresa. Questi obiettivi possono essere raggiunti con un cambiamento di ruolo delle istituzioni europee. Con la grande guida riformista nell’ambito dell’Europa. Certo gli interessi nazionali non possono essere trascurati, ma la sovranità nazionale non deve e non può trascurare l’obiettivo di arrivare a una sovranità europea sempre più condivisa. Noi non possiamo condividere l’opinione della destra italiana che l’Europa è utile solo quando produce un immediato ed esclusivo interesse nazionale. Questo è stato il grande equivoco della politica europea della destra. Dimenticare cioè che l’interesse nazionale lo si difende con un lavoro collettivo. Su questo grande errore nasce il progressivo indebolimento della Commissione, organismo sovranazionale, di fronte al Consiglio che, in modo del tutto legittimo, rappresenta gli interessi nazionali.
Un ritorno a un rafforzamento sovranazionale è quindi necessario ed è necessario farlo in parallelo o addirittura prima dell’allargamento dell’UE, che pure è indispensabile. Già l’allargamento da quindici a venticinque paesi era stato previsto insieme a una riforma delle istituzioni europee. Il nostro motto era che l’allargamento doveva, ripeto doveva, essere accompagnato dall’adeguamento delle istituzioni. Oggi è ancora più determinante se da venticinque si passerà a trentacinque membri. La Commissione allargata o il Consiglio a trentacinque non può assolutamente funzionare. Due sono le direzioni in cui il riformismo deve spingere. La fine della dell’unanimità, perché con l’unanimità non si governa neanche un condominio, e un’Europa a diversi livelli di integrazione. Certo, preferirei dirvi “riformiamo i Trattati subito”, ma so benissimo che questo non è possibile; però è possibile fare questi due grandi passaggi, su cui dovremo combattere nella prossima legislatura.
La più grande conquista, che per un momento ha fatto sì che l’Europa potesse essere tra i grandi del mondo, è stato l’euro, frutto di una cooperazione rafforzata: la moneta unica fu introdotta subito in soli dodici paesi, che in seguito sono diventati venti. Ogni cooperazione rafforzata ha infatti una sola regola: la porta deve restare aperta verso gli altri. L’euro fu politicamente una grande cosa. Quando penso che viene definito come frutto di una decisione presa fra banchieri… Al vertice con il presidente cinese, al tempo in cui stavamo costruendo l’euro, nessuno era interessato ai grandi dossier che avevamo all’ordine del giorno dell’incontro. L’unica cosa che gli interessava era l’euro; la domanda era: «Davvero non ci sarà più il marco, non ci sarà più il franco (sulla lira non fecero domande!)? E potremo avere l’euro come riserva?». E questo dicevano i leader cinesi: «Allora noi terremo nelle nostre riserve tanti dollari quanti euro, perché se accanto al dollaro ci sta l’euro, ci sarà posto anche per noi». Era la realizzazione dell’idea di un mondo pluralistico in cui l’Europa aveva un peso ed era ancora profondamente presente nella mente dei leader cinesi. Con la crisi finanziaria abbiamo perso questo ruolo. Ma è un ruolo che potenzialmente possiamo ancora riprendere, perché l’Europa unita è la seconda potenza industriale del mondo e il più grande esportatore del mondo. Si tratta di prospettive sciupate dalla mancanza di uno sforzo unitario, quindi la riforma delle istituzioni va accompagnata da una proposta politica. Non è infatti sufficiente riformare solo le istituzioni.
Infine, noi dobbiamo continuare la battaglia per l’ambiente. Siamo stati i primi e siamo tutt’ora leader su questo fronte, anche se non c’è da essere ottimisti se i vertici mondiali sull’ambiente vengono fatti in paesi produttori di petrolio. E noi, che siamo stati all’origine della presa di coscienza di questo fenomeno, dobbiamo esserne orgogliosi. Ed anche orgogliosi della continua difesa dei diritti umani e delle regole di protezione dei cittadini di fronte alle nuove tecnologie, come avvenuto con il caso delle regole sull’IA. Stiamo tuttavia attenti, perché se noi non abbiamo una forza nella politica estera, economica e di difesa a livello europeo, operiamo per costruire regole che saranno poi interpretate e organizzate dalla Cina e dagli Stati Uniti. Non possiamo accontentarci di scrivere uno splendido menù per l’umanità se a tavola si siedono poi solo gli Stati Uniti e la Cina.
Esiste anche il problema dei contenuti della nostra politica economica e sociale. Per lunghi anni i partiti riformisti sono stati spinti ad adottare gli stessi slogan costruiti dal “pensiero unico”, perché, si dice, solo con questi si vincono le elezioni. Non è vero. Non è vero perché l’elettore preferisce sempre l’originale alla copia. Per lunghi anni noi riformisti siamo apparsi procedere senza una bussola. Credo che sia il momento del cambiamento. Se per venticinque o trenta anni il libero mercato assoluto è stato una specie di teologia, da dieci anni a questa parte per il mondo accademico e per la pubblica opinione questo approccio è cambiato. L’iniquità nella distribuzione del reddito è diventata un punto comune di biasimo e di allarme. Un cambiamento nel pensiero c’è stato, ma non ancora nella politica. I prossimi anni debbono essere quelli del cambiamento della politica perché le disparità continuano ad aumentare. L’ascensore sociale non funziona più in nessun paese e meno di tutti funziona nella nostra Italia. È sostituito dal dominio delle paure. La priorità non è più la giustizia sociale, ma la fuga dalle grandi paure, che sono l’immigrazione, la globalizzazione, le tasse. Ed è con questo che vengono vinte le elezioni. E l’Italia è il paese che più sta soffrendo di queste divaricazioni economiche. I nostri salari non stanno tenendo il passo con nessuno degli altri grandi paesi europei. Il succedersi dei governi di coalizione, insieme alle debolezze dei partiti, ha fatto sempre prevalere l’oggi sul domani, il compromesso sul progetto e noi, invece, abbiamo bisogno di un progetto. Io spero che il PD rimetta al centro la costruzione di un progetto politico. Noi dobbiamo riflettere sull’idea di paese che vogliamo costruire, perché altrimenti non possiamo giocare un ruolo attivo in Europa. In questo vuoto, infatti, il populismo ha finito col prendere il sopravvento sia in Italia che altrove. In Italia in anticipo, ma gli altri ci stanno seguendo. Il populismo non è un evento casuale, ma è il rifugio di un popolo che non trova la sua casa nei partiti. E molti non l’hanno più trovato neanche nel PD. Se in quindici anni il PD ha perso la metà dei suoi elettori, quasi 6 milioni, significa che dobbiamo fare molta strada per costruire una via italiana e una via europea e il PD ha la responsabilità nazionale, per la sua storia europeista e per il rapporto ancora forte con la società. Perché con tutte le debolezze, che ho sentito il dovere di mettere in rilievo, resta l’unico partito politico in Italia ancora capace di parlare con i suoi elettori, l’unico che ha sempre avuto forti e coerenti radici a Bruxelles, con uno spartiacque chiaro fra europeisti ed euroscettici; non con gli equilibrismi fra Budapest e Bruxelles che il governo Meloni persegue, ma con un programma europeo elaborato e discusso a livello nazionale, anche per gli interessi del nostro paese, ma con il continuo riferimento all’Europa.
Nonostante la sua profonda crisi l’Italia non produce soltanto talenti individuali, produce gruppi di persone, associazioni, organizzazioni culturali e scientifiche e think tank che sono pronti ad arricchire la nostra presenza nelle istituzioni italiane ed europee e la maggior parte di queste realtà vuole soprattutto dialogare con il PD, perché ne riconosce la capacità di attrazione e la coerenza nell’essere fedele ad alcuni obiettivi di dialogo con l’Europa e vede nel PD l’interlocutore più credibile e autorevole, anche se ancora frammentato e incerto.
Ho già suggerito in altre occasioni come poter impostare questo necessario dialogo con le centinaia di migliaia di persone con le quali si è dialogato in passato. Democrazia vuol dire dialogare con il popolo. Gli strumenti dovranno essere strumenti moderni, dovrà essere la rete. Mi ha fatto impressione nei giorni scorsi riflettere sul fatto che in Argentina Milei ha vinto grazie alla rete contro tutti i giornali, tutte le TV e tutto l’establishment. E naturalmente anche col contributo del governo uscente, un governo talmente cattivo che tutti gli studenti ai quali ho chiesto perché avessero votato Milei mi dicevano che peggio di così non poteva andare. Ma trovo interessante che tutto lo schieramento di un governo uscente, coi sussidi, appoggiato dalla stampa e dalla TV, abbia avuto una clamorosa sconfitta. Questo denota il cambiamento della società e la necessità di avere un dialogo non con decine o migliaia, ma con centinaia di migliaia o milioni di persone. Su queste idee noi dobbiamo procedere con il necessario equilibrio tra riformismo e radicalismo. Se facciamo questo, possiamo ritornare a essere il punto di riferimento nel nostro paese per le elezioni europee, perché se vogliamo avere un ruolo a Bruxelles dobbiamo impostare un grande investimento nella ricerca, nell’innovazione, nella indicazione anche del cammino per la crescita.
Si sta verificando in questi giorni (metà dicembre 2023) un fatto abbastanza singolare: molta parte dei media italiani riportano una certa soddisfazione per un progresso dello zero virgola. A me lo zero virgola non è mai piaciuto, anche perché poi si accompagna a un aumento del debito, e l’aumento del debito è vicino al segno meno. Questo è quello su cui noi dobbiamo riflettere. Certamente a Bruxelles noi possiamo avere un grande ruolo per la difesa e l’armonizzazione dei nuovi diritti sociali e da Bruxelles prendere anche stimoli, come quello per la battaglia del salario minimo. Ho trovato incredibile che sia stata persa una battaglia come questa. Un paese in cui viene discussa l’idea, scomodando centinaia di giuristi, per negare un salario reale, concreto di 6 euro all’ora, appartiene al postmoderno. Appartiene a qualcosa di assolutamente indicibile. Su cose di questo genere non c’è ragione giuridica o desiderio di sopravvivenza sindacale che possa tenere perché già così siamo al di sotto del livello minimo per non morire di fame. Noi dobbiamo fare queste battaglie, e Bruxelles ci avrebbe aiutato, perché ormai in quasi tutti paesi europei abbiamo il salario minimo, e dove non c’è è perché viene assolutamente garantita la tutela da tutta una serie di altre condizioni.
Dobbiamo anche prepararci a una politica ambientale efficace e applicabile in cui i nostri parlamentari conoscono attentamente la situazione italiana e le proposte che vengono fatte e la sintesi che si devono avere. Dobbiamo essere molto attenti agli eventuali vincoli normativi che ostacolano la necessaria riorganizzazione dei processi produttivi e creano le premesse e il presupposto per una politica antiambientale.
Poi bisogna lavorare per una politica industriale che renda accettabile la politica ambientale. Questo è un capitolo fondamentale. L’Europa si riorganizza attraendo investimenti nei settori più avanzati, pensiamo alle batterie o ai chip. Noi siamo il secondo paese industriale europeo e in Italia non c’è un solo grande investimento nei nuovi settori. Da economista industriale, che è il mio mestiere, mi sconcerta l’idea che la produzione di batterie e chip vada a Dresda, dove la produttività è certamente più bassa che a Torino, a Ivrea, a Catania e in tante altre parti di Italia e dove ci sono salari esattamente il doppio dei nostri. Questo dimostra l’incapacità del nostro paese di inserirsi in un dibattito internazionale per il cosiddetto reshoring, per la riorganizzazione del mondo. Una riorganizzazione talmente grande che avrà conseguenze per decenni.
Intorno a un progetto forte si può creare una coalizione capace di vincere nel nostro paese e di avere la necessaria autorità in Europa. Ricordo una frase di Chirac che diceva che non c’è Europa senza l’Italia. Perché questo continui a essere un punto fermo anche in futuro noi dobbiamo inviare a Bruxelles una squadra forte, coesa e competente, che si prepari a ricoprire nel futuro ruoli ancora più grandi, dai quali l’Italia quest’anno è stata esclusa, ed è stata esclusa proprio perché nessuno ha fatto squadra. Una squadra di donne e di uomini tra i quali potremo esprimere i vertici di domani perché noi vogliamo una Europa federale proiettata nel futuro.