Francesco. Per un’agiografia politica

Di Eugenio Mazzarella Lunedì 11 Dicembre 2023 10:33
Francesco. Per un’agiografia politica Foto di Nacho Arteaga su Unsplash

 

Quanto dia fastidio il pontificato di Francesco e la sua pastorale urbe et orbi che non accetta il confinamento alla “città di Dio”, ma vuole un po’ troppo parlare alla “città degli uomini”, lo si può cogliere da non poche stizzite reazioni alla recente esortazione apostolica Laudate Deum. Troppo impegnata per qualche suo critico a lodare Dio nella sua opera, la natura, piuttosto che nell’alto dei cieli, rivendicando per essa, se non un’intangibile sacralità, un reverente riguardo, quasi fosse un Deus sive natura. Esemplificativa la fatuità irridente, corredata in altra meno prestigiosa sede da un più lungo articolo, di un Post su X, già Twitter, dell’ambientalista pentito Chicco Testa il 05/10/23: «“Laudate Deum” il nuovo documento di Papà Francesco. Praticamente un riassuntino delle più scontate tesi ambientaliste. Con gli indigeni che loro sì vivono in armonia con la natura. Ps in qualche capoverso di parla anche di Dio”». Nella difesa dell’ambiente che maltrattiamo da un paio di secoli, Francesco sarebbe un Papa che ne sovrastima i danni collaterali della rivoluzione industriale e oggi della tecnica, che ci hanno regalato i vantaggi della modernità, con messaggi regressivi sulle capacità dell’uomo di risolvere i suoi problemi, anche quelli che si crea da sé, e che comunque portano avanti il progresso. Un po’ troppo, questo insistere con Laudato si’, e la sua istanza ecologica integrale che mette insieme scompensi ambientali e scompensi sociali, politici, economici. Dopo aver provato già ad insegnarci con Fratelli tutti quale geopolitica ispirata all’etica del samaritano dovremmo proporci, mentre maiora premunt – e cioè sostanzialmente come competere noi Occidente nel modo più efficace, per restare gli amministratori delegati del mercato globale. Fine cui è essenziale mantenere la supremazia tecnologica, e la sua derivata militare, mentre gli altri, a cui lo abbiamo insegnato, Economia&Tecnica fanno mostra di aver imparato a gestirle al pari di noi, con l’ovvia conseguenza di voler ridiscutere il patto di sindacato che fin qui ha governato la globalizzazione. Detto in volgare, questo Papa fa presente la necessità per tutti gli imperialismi vecchi e nuovi, incerti di sé stessi, emergenti o risorgenti, di aderire con lungimiranza, o almeno di rassegnarvisi per realismo, al multilateralismo come unica chance di una governance sostenibile per l’umanità, per le ‘multitudini’ e i popoli, della globalizzazione. Una globalizzazione tragicamente segnata da una modernizzazione con tratti aberranti per i singoli e per i popoli, che erano già il focus della necessità, per affrontarli, di un’alleanza privilegiata tra fede e ragione del dialogo di Ratzinger e Habermas a Monaco nel 2004. Insomma, questo Papa sarebbe affetto su tecnica&geopolitica da un fastidioso “antimodernismo”, almeno della modernizzazione a guida anglosassone, per giunta, il che aggiunge per gli allineati e coperti diffidenza a diffidenza. A ridosso delle posizioni espresse da Francesco sulla crisi ucraina e oggi sul conflitto in Palestina, è l’assodato punto di vista in Italia della stampa mainstream: Francesco non è sufficientemente filoccidentale, rectius filatlantico, come dovrebbe.

Prima però di soffermarci su come Francesco ci inquieti se non il sonno, i sogni della nostra ragione, c’è un punto – e qui hanno ragione i suoi critici “modernisti” su ambiente ed universalismo geopolitico – su cui Francesco è risolutamente antimoderno nella sua concezione della Chiesa. Ma lo è in un senso tutt’affatto diverso dalla postura “regressiva” che gli imputano i suoi critici. Francesco è antimoderno radicitus, perché richiama la Chiesa a non inchinarsi al modus hodiernus di pensare in cui pure è coinvolta la sua storicità, l’effettività storica del suo cammino nel mondo. E en passant a non farsi chierici servizievoli del Trono di turno, come incidentalmente ha ricordato al confratello Kirill di Mosca riscoprendo vecchie non evangeliche “alleanze”. In definitiva Francesco resta, per così dire, in obbedienza al suo ufficio, un funzionario della Trascendenza, ancorché di una Trascendenza che non ha fatto “tesoro geloso” di sé stessa, ma si è calata nella storia camminando accanto agli uomini. Che poi è banalmente il mistero dell’Incarnazione, pietra d’angolo che regge tutto l’edificio cristiano nella storia. Un commitment – la Trascendenza – che è il “motore di riserva” che impedisce alla Chiesa di consegnarsi al temporalismo o le consente di andarvisi a riprendere quando vi cada. Inutile osservare per i ciechi che questa movenza antimoderna di Francesco è il senso in cui era antimoderno, cioè trascendente i suoi tempi e i suoi spazi (la Palestina ai tempi di Augusto e Tiberio), il suo dante causa nella trasmissione del primato petrino, Gesù di Nazareth. Tanto trascendente che l’elevazione dai propri tempi che predicava a chi lo ascoltava la patì sulla Croce, salendoci, se non volentieri, in obbedienza per una economia della salvezza che riguardava noi, non certo lui – almeno nell’autorappresentazione che doveva aver di sé come Figlio di Dio. Siamo, con Francesco, nell’antimodernismo di principio della profezia. Già nel nome assunto salendo al soglio di Pietro. Niente di nuovo sotto il sole.

Detto alla buona, Francesco insiste a prendersi addosso la croce dei tempi – benissimo intesi – per evitarla a noi; per evitare a noi di salire sulla croce che ci stiamo costruendo con le nostre stesse mani. Ma questo implica tornare a fare il profeta per strada: oggi la Chiesa in uscita di Francesco. Anche questo un tratto antimoderno della profezia, (ri)portata nel mondo, di Francesco, se parametro del Moderno è, come è stato, il confinamento del vissuto religioso nello spazio privato della vita. “Privatizzazione” dell’esperienza religiosa nell’Erlebnis personale nata dalle ceneri dei conflitti religiosi che avevano insanguinato l’Europa nei secoli XVI e XVII, ma che era del tutto coerente al nuovo mondo degli “individui”, e dei loro diritti incoercibili, a partire dal diritto all’iniziativa privata dell’homo oeconomicus, cui il divino poteva pure essere fornito, ma come “esperienza vissuta religiosa”, come sottoprodotto politicamente atossico – se assunto in forma privata; e quest’assunzione sarebbe stata “privata” anche nella forma pubblica garantita dalla separazione tra Stato e Chiesa. Insomma, un effetto della “sdivinizzazione” del mondo richiesta dalla naturalizzazione della coscienza moderna, dalla sua chiusura alla trascendenza nello spazio pubblico “liberale” della cittadinanza politica.

La Chiesa in uscita di Francesco è questo doppio movimento antimoderno: valenza profetica del punto di vista della Trascendenza sui tempi, quali che siano nella loro congiuntura storica; rifiuto di tenere la fiaccola della profezia nella sinecura, nella comfort zone di una Chiesa istituzione, sostanzialmente in difensiva a custodirla nella sua purezza non sporcandosi le mani più di tanto con un mondo in cui, dopo Porta Pia, si vive, si percepisce ai margini; al più in attesa fidente che alla sua fiaccola si vengano a chiedere, al bisogno, lumi devoti. Ma fare la Chiesa in uscita, fuori dal Sinedrio a disturbare più di tanto il mondo dei propri tempi, è sempre stato un po’ costoso; e si può anche capire che un personale ecclesiastico abituato all’identità dei paramenti sacri sia preoccupato di prendersi troppi rischi, di infangarli con la polvere del mondo, o peggio di vederseli strappati. Ma quel Falegname di Galilea resta purtroppo quello che è: al “mondo” e ai suoi pensieri una spina nel fianco, e per qualcuno, magari anche in buona fede come seppe vedere Dostoevskij nella leggenda del Grande Inquisitore, il rompiscatole delle fondazioni. Ora che l’edificio è stato messo su, va fatto lavorare come si deve perché il mondo come va trattato è il suo mestiere – questa la tesi dell’Inquisitore, una variazione sul tema della storia dello “spirito” cristiano. Questo spiega il fastidio che dà anche al suo interno la Chiesa in uscita; e le opposizioni che vi trova in inquisitori che sanno bene per altro dal mondo di essere stati disarmati, che da tempo non hanno “divisioni”.

Opposizioni aggravate dal fatto che Francesco, prescindendo da conclusive definizioni dottrinali, che potrebbero venire solo da un Concilio, alla luce del “sacerdozio universale” che riguarda tutti i battezzati come popolo di Dio in cammino nella storia introdotto dalla Lumen Gentium (1964), ha messo concretamente mano ad una ridefinizione significativa nell’esercizio interno del potere nella Chiesa, tradizionale “privativa” del “sacerdozio ministeriale”, affiancandovi in posizioni eminenti il “sacerdozio battesimale”. Una “verifica dei poteri” che molto ha inquietato ad esempio la Chiesa tedesca. Trovare laici, e donne consacrate e non, ai vertici nell’istituzione ecclesiale, è obiettivamente spiazzante, nonostante, a parte i tempi nuovi, il pur urgente bisogno di “personale” in presenza di una forte crisi delle vocazioni. Anche se questa apertura laicale e di genere in posizione non riduttivamente ancillare era un mandato di “apertura” ai ruoli del “clero” nella comunità dei battezzati nato con il Vaticano II. Illuminante in questo senso l’autorevole intervista del cardinale Jean-Claude Hollerich, presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea, Una Chiesa povera una chiesa viva a “L’Osservatore Romano del 24.10.2022.

Il disagio dell’ex prefetto della Casa Pontificia, già segretario di Benedetto XVI, l’arcivescovo Georg Gänswein, del già Nunzio apostolico a New York, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, sulla rottura con la tradizione liturgica, sulla crisi della “privativa” del potere nella Chiesa affidata al sacerdozio ministeriale, e su un’interpretazione troppo estensiva, “liberale”, della misericordia verso pratiche di vita e condizioni esistenziali finora escluse o tenute ai margini della comunione ecclesiale (i gay, i divorziati, i risposati), sui “valori” ammissibili all’abbraccio della Chiesa, inusuali esternazioni anti magistero che hanno raggiunto il clamore della pubblica opinione, nascono in questo contesto in movimento nella definizione della missione della Chiesa in un mondo dove non c’è più “l’uomo di prima”, e il credente che vi si conformava, e c’è bisogno qui, su questo punto, di “ammodernare” nel senso sollecitato dai tempi l’istituzione e le sue prassi. Anche, specularmente contro, nel progressismo libertario dei tempi questo ammodernamento non basta, e si finisce per esigere la resa della “natura” umana creaturale del depositum fidei cristiano alla nuova “natura” biologica ed esistenziale allestita dall’artificio tecnico e biopolitico. Un terreno di critica del tutto alieno, come è evidente, dall’esperienza cristiana della vita – per quel che rileva, un altro punto di vista sull’uomo e sulla storia.

Se vi si aggiunge, nella stessa prospettiva, un’attenzione a un assetto ai vertici (il collegio cardinalizio) più attento ai numeri della constituency del popolo di Dio, oggi in maggioranza, e ben più praticante di un’Europa da rievangelizzare, fuori dall’Europa cristiana romano-centrica, si comprende lo spaesamento di una Chiesa ancorata ad un primato petrino che deve fare i conti con un popolo di Dio sempre più estraneo al suo insediamento europeo; dove un fedele su due, braccato dal bisogno, dalla povertà, dalla violenza del potere, dalla guerra, pone domande esistenziali urgenti sulla sua “salvezza” per intanto su questa terra in attesa di quella, se non alla fine dei tempi, alla fine del proprio tempo qui e ora.  

Una situazione, quella della constituency oggi del popolo di Cristo affidato al suo Vicario, che spiega in modo additivo alle ragioni “profetiche” su espresse, un tratto caratteristico e dominante, con il tema della pace tra gli uomini e degli uomini con l’ambiente, della pastorale urbe et orbi di Francesco: il pauperismo. E che ci porta sul terreno delle resistenze “esterne” al suo Papato in un mondo che vede una spaventosa concentrazione della ricchezza in poche mani e il ritorno nella marginalità economica ed esistenziale di ceti e classi sociali che nella lunga stagione del welfare del mondo “sviluppato” erano usciti dalle periferie del mondo, tradizionale attribuzione del mondo sottosviluppato. Una saldatura delle povertà storiche e di povertà rivenienti, che fa del pauperismo di Francesco un’istanza globale, effettivamente cattolico-universale che guarda e riguarda nel mondo anche i non credenti nella Chiesa di Cristo, e che di fatto individua una “lotta di classe” in atto, largamente belligerante, tra ricchi e poveri nel mondo globale cui guardare dalla parte meno favorita del pianeta dentro e fuori il perimetro della cristianità. Una sorta di estensione universale della dottrina sociale della Chiesa nata nelle tensioni di classe dell’Europa cristiana nel 1891 con la Rerum Novarum di Leone XIII, le “cose nuove” che oggi hanno raggiunto tutto il mondo.

Il motivo per cui non colgono nel segno le critiche, all’interno e fuori della Chiesa, da più parti avanzate, che la Chiesa di Francesco stia perdendo peso e ruolo geopolitico a motivo del suo proporsi oggi al mondo contemporaneo gravata dall’interiorizzazione di una «crisi religiosa, intaccata dalla secolarizzazione e da una stagione di mea culpa». Perché avrebbe abbandonato al suo destino la cultura politica cristiano-cattolica, sotto il peso dei sensi di colpa (dalle Crociate alla conquista delle Americhe, al colonialismo, all’antisemitismo), volgendosi «a mettere sotto accusa l’etnocentrismo sopraffattore, la peculiare distruttività e disumanità che avrebbe caratterizzato il ruolo dell’Occidente euro-americano nei secoli: al proprio interno e ancor più al proprio esterno». Favorendo per altro con la concomitante crisi della socialdemocrazia i populismi che oggi affannano l’Occidente come risposta bruta alla crisi del comunitarismo nell’egemonia individualistico-libertaria delle società occidentali. Processo in cui sarebbe accaduto che «alla perdita d’interesse per un orizzonte cristiano, capace di misurarsi con l’intera complessità del reale, e quindi per quell’intervento a tutto campo nel mondo che è proprio della politica […] proseguendo sulla strada iniziata con le chiese protestanti europee, [anche] il Cristianesimo-Cattolicesimo si sia ritirato dalla Grande Storia».

Per Galli della Loggia, l’autore di queste critiche («L’eclissi dei partiti cristiano-cattolici», in Corriere della Sera, 26.10.2016), si tratta di un’infausta diserzione dal temporalismo che nella storia ha fatto grande la Chiesa e l’Occidente. In un contesto di crisi interna (crisi dei propri valori) e di pressioni esterne (confronto di civiltà) che proprio in quel temporalismo, nella Chiesa come istituzione politica, avrebbe dovuto (e dovrebbe) avere la sua trincea di resistenza, piuttosto che nel puro e semplice tornare alla pur straordinarie parole dell’annuncio: “Il mio regno non è di questa Terra”. Approccio da cui per Galli della Loggia è conseguito che, quando più serviva quella trincea, nella civilizzazione euro-americana a base cristiana «piuttosto che l’azione storico-politica hanno occupato spazi sempre più grandi una religiosità, e nel caso della Chiesa cattolica una pastorale, orientate prevalentemente all’azione caritativa da un lato e al rinnovamento etico-spirituale dall’altro».

Un’analisi cui sfugge proprio l’orizzonte oggi della Grande Storia, perché è proprio questo ritorno all’annuncio, all’evangelo, che vuole porre rimedio alla prima debolezza interna di quella trincea, per altro da Galli della Loggia benissimo individuata. La crisi cioè nello spazio, da essa perimetrato, del comunitarismo fondativo dell’ecclesia cristiana (e della sua versione laico-socialista e non solo cattolico-democratica); da un lato venuto meno a sé stesso e dall’altro, in ragione di questo venir meno, vieppiù disarmato sul piano valoriale nella crisi del welfare. E venuto meno non dal di fuori, ma dal di dentro della civilizzazione dell’annuncio che vi aveva dato una storia, la Grande Storia cristiana di cui parla Galli della Loggia; dall’estenuarsi nelle società affermatesi in questa civilizzazione – l’Occidente cristiano – dello “spirito” della persona per la “lettera” dell’individuo, che è il vero vulnus del processo di individualizzazione così come costruitosi nella secolarizzazione moderna della civitas christiana; e dei diritti della persona storicamente promossi dalla civilizzazione cristiana. Sotto la spinta di un laicismo e di un illuminismo che si sono sempre più consegnati al primato economico del liberismo piuttosto che restare fedeli all’istanza liberale della dignità dell’individuo da cui erano nati, anche certo come autoaffermazione della “libertà” dell’impresa economica. Una dignità dell’individuo che per essere sostantiva per tutti non può però fare a meno – è questa la verità fondante del pauperismo di Francesco – del temperamento della comunità nell’istanza della “persona” come espressione di una comunità dell’individuo accogliente, ma anche di un individuo che nella comunità resti moralmente istanziato. Che non può fare a meno di una profezia della comunità.

Se questo è lo scenario, nella scelta “religiosa” dell’annuncio promossa non da un Francesco esterno, ma da un Francesco insediato nella Chiesa istituzione, non c’è nessun puro e semplice “ritiro cristiano-cattolico” dalla Grande Storia; piuttosto proprio l’individuazione dell’unico modo per tornare a giocarvi un ruolo da protagonisti. Un ritorno in campo all’altezza dei tempi, in cui da decenni la Chiesa cattolica sta provando a coinvolgere per altro ortodossi e protestanti. Niente di più “politico” in senso globale quindi di questo approccio, il cui manifesto è nelle due grandi encicliche di Francesco Laudato si’ e Fratelli tutti. Documenti politici globali, che hanno pochi eguali, e forse francamente nessuno, nel contrasto a una mondializzazione mercatoria agita dal capitalismo “individuale” occidentale o da quello su esso modellato dei fondi sovrani arabi o della superpotenza economica cinese. Encicliche che sono ad oggi l’unico punto di vista globale alternativo al mainstream dei processi in atto della globalizzazione agita dallo sviluppo tecnico, e dalla finanziarizzazione – diseguagliante dei rapporti sociali – dell’economia. Un’alternativa che individua la vera sfida valoriale e politica del futuro, e l’orizzonte geopolitico non domestico-occidentale in relazione al quale va misurato il pauperismo della Chiesa “in uscita” di Francesco. In uscita in un mondo in cui le periferie del disagio sono ormai insediate dappertutto parlare ai “poveri” è parlare ad una possibilità spirituale o materiale, a una condizione umana, che può riguardare tutti. Chi ha occhio storico non può non vedere che è il seme dei poveri, i “poveri in cerne e in ispirito”, che ha fatto crescere la Chiesa istituzione, e la sua stessa imponenza storico-epocale. Ed è ancora a quel seme che oggi è chiamata a rivolgersi se vuole avere un ruolo globale, che assicuri storia ed epoca ai valori su cui è nata, perché è globale la sofferenza di quel seme. Una profezia che è il terreno in cui si radica l’anima “politica” della pastorale urbe et orbi di Francesco sulla scena dell’ecumene umana quale è oggi, negli assetti geopolitici della globalizzazione. Della “grande politica”, anche da parte della Chiesa di Roma, di cui il mondo globale ha bisogno.

Una pastorale in “uscita” dalle mura della Chiesa istituzione per capire e per andare incontro all’uomo lì dove sta oggi, nelle inquietudini di una globalizzazione, dove ‘tecnica ed economia’ la fanno da padroni, in un mondo che non sappiamo più abitare e che nondimeno è l’unico che abbiamo, capire la pastorale urbi et orbi di Francesco è capire il repentaglio cui oggi è esposto l’uomo. Mentre tra le ‘magnifiche sorti e progressive’ della tecnica e della globalizzazione non viene meno, non cessa di farsi avanti lo scempio del male, lo scempio del singolo uomo, di diseredati, di popoli, di nazioni, e della casa di tutti, del pianeta. Uno scempio il cui contrasto non può ridursi alla pietà privata soccorrevole del prossimo e dei propri “nemici”, di una pacificazione “privata” da avere nel cuore prima di avvicinarsi agli altari, ma deve farsi profezia interreligiosa, interculturale, interumana per la totalità dell’ecumene umana ‘ravvicinata’ nel bene e nel male, sul pianeta, dalla globalizzazione. Profezia all’altezza dei tempi della globalizzazione come incontro da sperare, e costruire, e scontro da evitare dei conflitti di civiltà, di culture, di religioni, di interessi politici e geografici. Una profezia per altro che tolga di mezzo l’alibi religioso al mistero del male, dell’uomo contro l’uomo. Sul punto profezia di una cosa semplice, eppure grandissima: che gli uomini per credere in Dio — e anche per essere lasciati a non credere, per restare una possibilità per Lui — devono essere “vivi”. Semplicemente lasciati vivi. A questo magistero di pace – di pace tra le creature e di pace con il creato sulle “ali della speranza” nel Signore – è ispirata la pastorale di Francesco, il suo pauperismo e la sua pastorale della pace.

Come si vede c’è ampia materia perché questo Papato dia fastidio, a un mondo e ad una postura mentale che rifiutano di vedere il paradosso della rana bollita cui siamo esposti che in modo sapido ci ha illustrato Noam Chomsky – in Media e potere, una raccolta di saggi del 2014 – richiamando un’osservazione sperimentale fatta già nel 1882 da alcuni ricercatori americani alla “John Hopkins University”. Un paradosso che è un apologo riflessivo sull’acclimatamento delle nostre società, mediato dalla manipolazione del potere, a situazioni insostenibili e senza futuro: «Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°C avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone».

Ecco, Francesco, per tornare all’esortazione apostolica Laudate Deum, ci fa “fastidiosamente” presente, in un bilancio dolente della cecità del potere ai segni dei tempi, anche ai suoi massimi livelli sovranazionali con il reiterato fallimento delle conferenze internazionali sul clima e sull’ambiente, che noi siamo nella situazione della rana – a rischio di non poter più saltare fuori dalla pentola in ebollizione che con il riscaldamento globale è diventato il pianeta. Una pentola che non bolle solo nei cieli per il climate change, ma anche sulla terra accesa dei conflitti di una terza guerra mondiale combattuta a pezzi e bocconi sempre più grandi. Credo sia ben consapevole che anche nella mitologia del contemporaneo il ruolo di Cassandra non fa simpatia, inquieta. Ma cos’altro potrebbe fare una Chiesa che nei segni dei tempi coglie l’evidenza di una crisi epocale, di un mondo in bilico, sul crinale di un equilibrio frattale che rischia di collassare, che sta letteralmente, come un mucchio di sabbia che non tiene più, franando? Una situazione in cui il gioco che chi scopre il delitto ne sia il capro espiatorio, il primo indiziato non regge più, a meno che non sia la consapevolezza che gli indiziati siamo noi, che non sappiamo custodire in questo passaggio epocale né noi stessi, né la creazione – noi stessi nella creazione.

Evitando di fare del cristianesimo e della Chiesa una pratica senza spirito e uno spirito senza pratica, Francesco sta provando a gestire in pensieri parole e opere non omissivi questo passaggio di mondo, a coinvolgerci nella consapevolezza che il mondo ci si è cambiato tra le mani, e non è possibile non guardare in faccia la realtà. Per farlo la sua Chiesa in uscita ha fatto una scelta. Ha scelto di farsi, più che maestra di teologia per i suoi, che pure è e deve essere, maestra di umanità per tutti gli uomini, predicazione della concretissima universalità umana del mondo globale. E chissà che, portando avanti nel mondo l’uomo di Cristo, non si possa magari avere come effetto collaterale di portare nel mondo, e riportare nel proprio mondo, il Dio di Cristo. Ma di una “predicazione” in questa forma, non dovrebbe credo dolersi nessuno.