Fenomenologia del caos tra politica e geopolitica

Di Giuseppe De Ruvo Martedì 30 Gennaio 2024 13:46
Fenomenologia del caos tra politica e geopolitica Foto di: istock/LewisTsePuiLung

 

1. La fase storica che ci troviamo a vivere è caratterizzata da un’immanente tendenza disgregante. Le magnifiche e progressive sorti dell’umanità, che si sarebbero dovute dispiegare a seguito del crollo dell’Unione Sovietica, sono ironicamente virate in un susseguirsi di crisi, guerre e terrore[1]. Lo spaesamento regna sovrano. Il caos pare configurarsi come autentico egemone globale, sicché in molti – a seguito della crisi finanziaria del 2008, di quella dei debiti sovrani (2011-2012), della pandemia (2020) e della guerra d’Ucraina (2023) – hanno riesumato il concetto schmittiano (ma non solo) di stato d’eccezione[2]. Una rapida ricerca su Google Trends mostra infatti come gli utenti abbiano interrogato il motore di ricerca circa questa nozione soprattutto a cavallo tra l’aprile del 2020 e il marzo del 2022, segno di come – durante la pandemia e a seguito dello scoppio della guerra d’Ucraina – i media abbiano fatto più volte riferimento a questo dispositivo. Come spesso accade, però, l’inflazione di un termine segnala un’incomprensione di fondo. Il fatto che, tra guerra e pandemia, abbiamo vissuto (e stiamo vivendo) una fase eccezionale della nostra vita, non ci autorizza infatti a parlare di stato d’eccezione. Quest’ultimo, infatti, si configura come momento rivoluzionario par excellance, come rottura della linea del tempo. Lo Stato d’eccezione è il luogo in cui ogni norma è letteralmente sfondata – privata, cioè, di ogni fondamento – dalla potenza dell’evento e dell’imponderabile. Nello Stato d’eccezione tutto appare informe, platonica chora che attende un demiurgo che la plasmi, de-cidendone la forma. All’eccezione segue dunque un potere costituente che, anche violentemente, dà luogo a un ordine nuovo, incommensurabile con quello precedente. L’eccezione, innescata dall’evento, produce differenza rispetto al passato. Non ripetizione. Rivoluzione, non necessariamente progressiva, e non ricostruzione. Nella felice metafora benjaminiana, nello stato d’eccezione si spara sugli orologi[3]. Non si riportano le lancette indietro.

È questa la congiuntura che ci troviamo a vivere? Evidentemente no. Alla luce dell’orizzonte non si intravede – forse fortunatamente – alcun demiurgo. Nessuno sembra interessato a sparare sugli orologi. In molti, invece, anelano, comprensibilmente, a spostare le lancette del tempo indietro. Altro che rivoluzione. L’obiettivo è «tornare alla normalità».

Da questo punto di vista, dunque, a farla da padrone è un’altra categoria: quella di emergenza[4]. Incapsulato negli strumenti dello Stato sin dalla modernità, questo dispositivo giuridico prende atto di un’inevitabile sospensione delle norme vigenti (si pensi, ad esempio, allo stato d’assedio o di guerra) al fine di risolvere in un tempo determinato un problema particolare. A differenza dell’eccezione, che sfonda la norma, l’emergenza è dunque regolata normativamente. Anzi, lo stato d’emergenza ha proprio l’obiettivo di ristabilire la norma e la normalità. È conservatrice per definizione: l’obiettivo è salvaguardare lo Stato e la popolazione.

Il problema, però, è che l’emergenza viene dall’esterno. È la potenza della realtà, dell’ambiente, a obbligare il sistema a riorganizzarsi[5]. Lo Stato può cercare di controllare l’emergenza solo ex post, ma non può controllare – e spesso neppure prevedere – la sua insorgenza. Il sistema può (provare a) gestire l’emergenza per ristabilire la norma, ma non può controllare l’emergenza dell’emergenza. E, quando le emergenze si susseguono una dopo l’altra, il tentativo dello Stato di gestirle si configura come un hegeliano cattivo infinito[6]. Si cerca di rincorrere i problemi, di assorbirli ad infinitum senza mai giungere a un momento risolutivo, mettendo in campo strategie securitarie le quali, tuttavia, tendono a sovrapporsi e a stratificarsi a volte anche in maniera contraddittoria[7].

La securitarizzazione e la burocratizzazione della vita pubblica, dunque, non derivano da qualche oscuro disegno o da fantomatiche agende cripto-totalitarie. Al contrario, esse sono sintomi dell’incapacità strutturale degli Stati di fare i conti con il proliferare delle emergenze. Non è solo la quantità degli “imprevisti” a rendere difficile il superamento delle emergenze, ma anche la qualità delle strutture politiche preposte a farlo. Ciò, ovviamente, dovrebbe portare leader e decisori politici a porsi la questione di come “aggiornare” le strutture dello Stato, rendendole capaci di assorbire gli input dell’ambiente senza ricorrere continuamente a strategie securitarie. Non si tratta di dichiarare lo stato d’eccezione e di aprire un processo costituente. Piuttosto, ci troviamo in una situazione in cui – a dover essere messe in campo – sono quelle necessarie riforme, quegli argini che, già secondo il Machiavelli, erano necessari per governare la fortuna, per evitare l’emergenza continua, ovvero quella congiuntura in cui «non si può mai cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro» [8].

Ciò, tuttavia, implicherebbe un atteggiamento orientato verso il futuro, verso il ripensamento, anche radicale, delle strutture dello Stato. Ma l’atteggiamento emergenzialista – così concentrato sul ritorno alla normalità del passato – non è in grado di porsi questo problema. L’esigenza del “ritorno alla normalità” cozza dunque con la necessità di promuovere riforme strutturali. Riforme effettivamente in grado non di “gestire” l’emergenza, ma di far sì che essa non sia più considerata tale.

2. E tuttavia, come se non bastasse, le emergenze che ci troviamo ad affrontare non riguardano solo la vita interna degli Stati, ma anche le relazioni tra di essi. Il caos non si innesta esclusivamente all’interno dei corpi politici a seguito di pandemie e crisi economiche, ma colonizza anche la sfera delle relazioni internazionali. Detta nella maniera più semplice, se il susseguirsi di emergenze a livello politico non implica la scomparsa dei soggetti preposti ad affrontarle – ovvero gli Stati – ma solo una loro, per quanto complessa, riorganizzazione strutturale, a livello geopolitico assistiamo a una fase emergenziale dovuta proprio all’assenza de facto di una potenza in grado di svolgere una funzione ordinatrice e catecontica.

Seguendo la fortunata formula di Giovanni Arrighi, infatti, quella che ci troviamo a vivere è una fase di transizione egemonica[9]. Ciò non significa che è giunto il tempo di un secolo russo, cinese o iraniano, ma semplicemente che, nella loro condizione attuale, gli Stati Uniti non hanno né la forza né la voglia di continuare a esercitare un’egemonia globale paragonabile a quella che, invece, hanno esercitato nel cosiddetto momento unipolare[10].

Le ragioni sono soprattutto interne e riguardano esattamente gli aspetti politici che abbiamo messo in luce in precedenza: gli Usa, come testimoniato dal rapporto intitolato Making geopolitics work better for the middle class[11]ecurato dall’attuale consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan, intendono dedicarsi in primis alle loro emergenze domestiche – poco importa se reali o solo percepite – e, dunque, ragionano in maniera isolazionista. La conseguenza è che i principali sfidanti – Cina, Russia e Iran – colgono la palla al balzo. Se gli statunitensi vogliono rinchiudersi nella Fortezza nordamericana – ragionano le potenze revisioniste –, allora è il momento di far saltare il banco. Perfettamente consapevoli delle debolezze strutturali degli Usa da un punto di vista industriale, culturale ed economico – peraltro inspiegabilmente sbandierate in primis dagli americani – russi, cinesi e iraniani mettono Washington davanti a un’alternativa: affrontare le emergenze domestiche o quelle internazionali, nella consapevolezza che esse sono in contraddizione reciproca. L’emergenza, in questo caso, viene sfruttata come arma.

Assistiamo, dunque, a una congiuntura particolare. L’Occidente, inteso in senso ampio, si trova a dover fare i conti con il rapido susseguirsi di crisi, che lo portano o ad assumere posture isolazioniste (Usa) o a impostare politiche securitarie e conservatrici (Europa). Contestualmente, attori come la Cina e la Russia – che di certo non sono privi di problemi – gettano benzina sul fuoco; consapevoli della loro inferiorità militare ed economica, le potenze revisioniste tentano infatti di indebolire l’Occidente acuendone le contraddizioni interne, obbligandolo a fare i conti con dilemmi irrisolvibili o a modificare sostanzialmente la sua struttura politica[12].

Si comprende, dunque, come la partita tra democrazie e autocrazie si giochi, in realtà, a un livello di profondità maggiore rispetto a quello ideologico e valoriale. La questione ha infatti anche un risvolto sostanziale: sono le democrazie in grado di gestire la complessità emergenziale che sta caratterizzando la nostra epoca? O sono destinate, quasi dialetticamente, a rovesciarsi nel loro opposto? Dalla risposta a queste domande non dipende l’esito della competizione geopolitica tra Cina, Russia e Stati Uniti. Infatti, è assolutamente possibile che l’Occidente mantenga il suo dominio senza mantenere la sua struttura politica. Nulla, in linea di principio, lo vieta. La questione, piuttosto, è più simile a quella posta da Eisenhower nel 1953: l’Occidente è in grado di mantenere il primato senza trasformarsi nel nemico che dice di voler combattere?[13]

3. Beninteso, le autocrazie cinesi, russe o di altra bandiera non sono prive di problemi. Il punto è che il loro sistema politico, il loro controllo sull’opinione pubblica e, in linea di massima, il minor allenamento alla democrazia delle popolazioni sono fattori che permettono a questi paesi di nascondere la polvere sotto al tappeto. L’Occidente non può farlo. Chi ha conosciuto l’illuminismo, la divisione dei poteri e le lotte sociali non può negare la sua storia.

Fatta questa promessa, come evitare il collasso? Consapevoli che non sarà questo articolo a farlo, cerchiamo quantomeno di offrire delle coordinate, limitandoci – per economia del discorso – alle questioni di casa nostra.

Il primo problema è di carattere politico-culturale. In una fase caratterizzata dalla crescita incontrastata della complessità, è semplice cercare di farsi luce attraverso semplificazioni manichee: buoni/cattivi, colpevoli/innocenti, eccetera. Nessuno ha, da solo, le capacità di avere uno sguardo sinottico, in grado di cogliere le contraddizione dell’epoca che ci troviamo a vivere. La conseguenza è che, oggi più che mai, è necessario trovare il modo di potenziare il dialeghestai che caratterizza la democrazia. Spesso, infatti, è proprio chi è più in basso nella scala sociale a rendersi conto per primo dei problemi, come gli uccelli che avvertono in anticipo l’arrivo dei terremoti. La democrazia, dunque, se vuole essere davvero rappresentativa – senza scadere negli estremi della tecnocrazia e della democrazia diretta – deve ristabilire una cinghia di trasmissione con la società civile. La crisi dei partiti occidentali è, da questo punto di vista, profondissima. Il loro essersi trasformati in strutture spesso autoreferenziali o in comitati elettorali li priva infatti di un ruolo fondamentale, necessario proprio per prevenire l’emergenza: ovvero quello di essere gli occhi e le orecchie delle istituzioni sul territorio, quello di essere quei corpi intermedi in grado di portare all’attenzione del legislatore le problematiche della società civile prima che esse esplodano. Stessa funzione dovrebbero svolgere gli enti locali e regionali: essi dovrebbero unire il cittadino allo Stato, non pretendere di sostituirsi a esso avocando a sé funzioni sovrane.

In secondo luogo, vi è una questione decisamente più complessa che riguarda il rapporto tra emergenza e sicurezza. Si è detto che, troppo spesso, necessari meccanismi securitari tendono a sclerotizzarsi, specie in una fase caratterizzata dall’instabilità costante. Da un lato, questo problema può essere mitigato attraverso i partiti e gli enti locali, come abbiamo appena suggerito. Dall’altro, tuttavia, è del tutto evidente che serva qualcosa di più. Innanzitutto, è necessario – data la pletore di emergenze – usare con maggiore cautela il lemma. Non è corretto reagire con un decreto legge a qualsiasi evento. La promulgazione – per rimanere al caso italiano – dei cosiddetti Decreti Sicurezza[14], Rave[15], Influencer[16]et similia manifesta una forte insofferenza nei confronti del dibattito parlamentare, i cui tempi (giustamente) lunghi vengono considerati un intralcio alla risoluzione della (presunta) emergenza. Ovviamente, nei casi succitati non è stato dichiarato lo stato d’emergenza (ci mancherebbe), ma l’atteggiamento, la comunicazione della classe politica e, sotto certi aspetti, anche la concreta giurisdizione sono stati caratterizzati da un approccio emergenziale e securitario, poco interessato al merito e alla dialettica politica. In alcuni casi, dunque, sarebbe più intelligente e corretto lasciare spazio al confronto parlamentare e alla discussione pubblica, piuttosto che procedere con pratiche di criminalizzazione e di decisionismo spicciolo su tematiche fondamentalmente di costume. Ciò, infatti, permetterebbe una maggiore dialettica parlamentare e garantirebbe un dibattito pubblico meno istintivo e svilente. Per quanto le soluzioni deliberative abbiano molto spesso dei limiti, quel che va notato è come – in tutta Europa – vi sia oramai un’assenza pressoché totale di deliberazione pubblica, anche su questioni che potrebbero tranquillamente essere dibattute in Parlamento. Tutto viene trattato da emergenza. Non stupiamoci, poi, se quest’ultima diventa la norma.

Infine, vi sono le questioni strettamente geopolitiche. Da questo punto di vista, è estremamente complesso anche solo tentare di immaginare dei correttivi. Di certo, però, una cosa può essere detta: il 24 febbraio del 2022 il mondo è cambiato e fare finta di niente è inutile, se non dannoso. Stiamo entrando in una fase che sarà caratterizzata dall’aumento dei conflitti, anche armati. Navi italiane incrociano nel Mar Cinese Meridionale, altre tentano di garantire la sicurezza del Mar Rosso. La guerra tra Israele e Hamas è ormai virata in conflitto regionale. Il tutto mentre gli Stati Uniti, nostra coperta di Linus sino a ieri, stanno affrontando una durissima seduta di psicoterapia per decidere cosa debbano essere da grandi. Il primo passo per affrontare l’emergenza – questa sì, reale – è esserne consapevoli, sia sul piano politico sia sul piano diplomatico. Bisogna superare la narrazione spettacolistica e manichea dei conflitti per interrogarsi realisticamente sugli interessi del nostro paese. Che, per pura coincidenza, corrispondono alla stabilità mondiale, dato che dobbiamo la nostra esistenza al nostro essere piattaforma mediterranea, crocevia inaggirabile al centro del Mar Mediterraneo, ovvero di quel Medioceano che – attraverso il Canale di Suez, lo Stretto di Sicilia e quello di Gibilterra – collega Pacifico e Atlantico. Per queste ragioni, il contributo che dobbiamo dare al containment del caos e dell’emergenza non può essere militare (anche per non renderci ridicoli). Al contrario, esso deve necessariamente essere politico e diplomatico. Certo, al momento la politica è merce rara, dal momento che – nei due principali conflitti in atto – gli unici decisori del cosiddetto campo occidentale ad aver indicato personalissime soluzioni alle rispettive guerre sono stati il capo dell’intelligence ucraina Budanov – con tanto di cartografia che prevede lo smembramento della Russia e l’annessione, da parte di Kiev, di quattro Oblast’ russi[17] – e il ministro degli Interni israeliano Bezalel Smotrich – che ha proposto di allontanare, con le buone o con le cattive, tutti gli arabi dallo Stato ebraico[18] (auguri). Insomma, data l’assenza di giganti attorno a sé, Roma potrebbe mettersi alla guida di una cordata di paesi europei (Francia e Germania in primis)interessati al raggiungimento di una qualche forma di stabilità. La nostra diplomazia è, ancora oggi, tra le più ascoltate al mondo e pare non essere stata contagiata da quella diffidenza reciproca che caratterizza l’arena internazionale.

Forse è pura utopia. O wishful thinking. Eppure, davanti al caos che caratterizza il mondo, è difficile intravedere soluzioni alternative a quelle politiche. Si tratta, insomma, di cercare di pensare strategicamente e diplomaticamente. Tentando, per una volta, di anticipare gli eventi. L’obiettivo, per concludere, è smentire Mackinder, il quale sosteneva, con una certa ironia, che le democrazie sono assolutamente in grado di pensare strategicamente, ma «solo quando sono costrette a farlo»[19], ovvero quando vengono messe con le spalle al muro. Cerchiamo, allora, di pensare davvero politicamente. Prima che qualcuno ci costringa a farlo.



[1] A. Colombo, Il governo mondiale dell’incertezza, Cortina, Milano 2022.

[2] C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna 2020.

[3] W. Benjamin, Sul concetto di storia (1940), in Id., Opere complete VII. Scritti 1938-1940, Einaudi, Torino 2006, Tesi XV, p. 491.

[4] Sulla distinzione tra eccezione ed emergenza, cfr. C. Galli, Democrazia, ultimo atto?, Einaudi, Torino 2023, pp. 113-120.

[5] Proprio nel senso funzionalistico di N. Luhmann, Introduzione alla teoria dei sistemi, Pensa, Lecce 2013.

[6] Su come questa questione sia anche legata alla difficoltà strutturale di gestire la distruzione creatrice del capitalismo, mi permetto di rimandare a G. De Ruvo, La scienza impossibile: Adam Smith e la non totalizzabilità del mercato, in Syzethesis, 1/2023.

[7] Anche questa, effettivamente, può essere intesa come una tendenza strutturale della modernità. Si pensi all’analisi dei meccanismi di sicurezza di Foucault o al rapporto tra politica, Demokratisierung e burocrazia in Max Weber.

[8] N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio in Id., Opere Complete, Bompiani, Milano 2022, p. 328.

[9] G. Arrighi, B.J. Silver, Caos e governo del mondo, Mondadori, Milano 2006; cfr., anche, «L’importanza di non essere globali», editoriale di Limes, 4/2023.

[10] F. Petroni, Disincanto Americano, in Limes, 4/2023.

[11] J. Sullivan et alia, «Making geopolitics work better for the middle class», Carnegie Center, 23/9/2020.

[12] Strategia, almeno per quanto riguarda la Cina, formalizzata dall’influente Colonnello Qiao Liang, e oggi disponibile in versione italiana nel volume L’Arco dell’Impero, con Cina e Stati Uniti alle estremità, Leg, Gorizia 2023.

[13] Per una discussione approfondita di questo dilemma da un punto di vista geopolitico, si veda «C’era una volta il fronte occidentale», editoriale di Limes, 6/2021.

[14] Per quanto riguarda la questione migratoria, tutti i principali esperti riconoscono che – nonostante i trend demografici – non abbia senso parlare di emergenza, cfr., su questo, S. Allevi, G. Dalla Zuanna, Laterza, Roma 2018. Ciononostante, lo scorso aprile, il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza.

[15] «Misure più efficaci contro i rave party: il Cdm introduce una nuova fattispecie di reato», Ministero dell’Interno, 31/10/2022.

[16] G. Sepio, «Beneficenza, con il Ddl Ferragni doppi adempimenti per gli enti eroganti», Il Sole 24 Ore, 25/1/2024.

[17] Cfr., M. De Bonis, Per farla finita con la Russia, in Limes, 5/2023.

[18] «Smotrich calls for settlers to enforce mass expulsion of Gazans», Al Mayadeen, 1/1/2024.

[19] H.J. Mackinder, Ideali Democratici e Realtà, Leg, Gorizia 2022, p. 34.