L’infeconda insicurezza dei giovani italiani

Di Alessandro Rosina Giovedì 19 Marzo 2020 10:03 Stampa

È bassa la fecondità italiana? Ci sono quattro motivi per rispondere affermativamente. In primo luogo perché è posizionata sotto i due figli per donna. Sotto tale soglia la popolazione non è più in grado di crescere in modo endogeno: ogni nuova generazione parte da un contingente alla nascita più basso rispetto a quella precedente. In secondo luogo perché si trova sotto i livelli medi del continente con più bassa fecondità al mondo, ovvero l’Europa (il numero medio di figli per donna dell’Unione europea è attorno a 1,6, quello italiano attorno a 1,3). Il terzo motivo è dovuto al fatto che il numero di figli che le donne italiane mediamente hanno è sensibilmente inferiore al numero desiderato (pari circa a due). La quarta ragione è legata alla fase nuova in cui è entrato il nostro paese: le generazioni che arrivano oggi al centro della vita riproduttiva sono quelle nate quando è iniziato il crollo della natalità. Ne consegue una riduzione strutturale delle potenziali madri che trascina al ribasso le nascite anche nel caso di fecondità costante. Questo significa che l’effetto depressivo della bassa fecondità risulta ancor più accentuato che in passato.

Mettere, a livello micro, le persone nelle condizioni di realizzare pienamente i propri progetti di vita e consentire, a livello macro, alle nascite di tornare a crescere per contenere gli ampi squilibri demografici sono obiettivi che vanno nella stessa direzione. Ma invece di aumentare, la fecondità complessiva nel nostro paese è scesa da 1,46 del 2010 a 1,29 del 2018 (quella delle donne di cittadinanza italiana da 1,34 a 1,21). Di conseguenza nello stesso periodo le nascite sono crollate da più di 560.000 unità, a meno di 440.000.

Le scelte riproduttive italiane sono bloccate da due principali nodi. Il primo, che incide soprattutto sul tempo di arrivo del primo figlio, è da ricondurre alle difficoltà dei giovani nel conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine e mettere basi solide per formarne una propria. Il secondo nodo critico frena, invece, la progressione oltre il primo figlio. Se con la nascita del primogenito ci si trova in difficoltà ad armonizzare impegno esterno lavorativo e interno alla famiglia (tanto più se si arriva tardi ad averlo), difficilmente si rilancia con la nascita di un secondo. Le economie avanzate con una fecondità superiore alla nostra non hanno un numero desiderato di figli più alto, ma offrono migliori strumenti e servizi per le famiglie. Anche nel confronto tra Regioni italiane si osserva che dove più efficienti sono gli strumenti di conciliazione tra lavoro e famiglia, chi ha lavoro sceglie maggiormente di avere un figlio e chi ha un figlio maggiormente si offre nel mercato del lavoro. Il focus di questa riflessione è soprattutto sul primo nodo, ovvero sui fattori che ritardano e depotenziano, fin dall’avvio, tutto il processo riproduttivo.

UNA SCELTA SEMPRE MENO SCONTATA

Una domanda che spesso viene posta quando si tratta il tema del continuo scivolamento verso il basso delle nascite è perché nei primi decenni di questo secolo si facciano meno figli rispetto ai primi decenni del secondo dopoguerra, quando il benessere materiale delle giovani coppie era certamente inferiore. O, anche, perché nascano in Italia molti meno bambini rispetto ai paesi più poveri dell’Africa o dell’Asia. Domande di questo tipo vengono opposte usualmente per contestare che alla base del crollo della natalità nel nostro paese ci siano motivi oggettivi e, invece, suggerire motivazioni più legate all’individualismo e alla perdita del valore della scelta di avere un figlio. Riflettono una lettura iper semplificata della realtà e una propensione a riversare la colpa sulle stesse nuove generazioni, ma anche una tendenza all’autoassoluzione rassicurante rispetto alla nostra incapacità, come sistema paese, di capire quali fattori depotenziano oggi la realizzazione piena dei progetti di vita.

Un figlio, in particolare, è un’assunzione di impegno a lungo termine. Per mettere in campo politiche efficaci è necessario prima di tutto far chiarezza sui meccanismi che frenano o favoriscono oggi tale scelta e sulla capacità dei vari strumenti di policy di intervenire con successo su tali meccanismi.

Per gran parte della storia dell’umanità (ma vale ancora oggi in molti paesi poveri) avere un figlio non entrava nella sfera delle scelte consapevoli e deliberate, non era l’esito di un processo decisionale. Le donne che si sposavano non avevano in testa un numero di figli desiderato. La condizione tipica era quella di formare una unione di coppia e poi semplicemente i bambini arrivavano. Questa era ancora la situazione al momento dell’Unità d’Italia, quando il tasso di fecondità era pari a cinque figli. Oggi, nel mondo, solo 36 paesi si trovano ancora con una fecondità su quei livelli, 33 dei quali concentrati nell’Africa subsahariana.

La prima fase di riduzione rispetto agli elevati valori del passato è avvenuta per sottrazione: la norma era avere figli e la scelta che veniva esercitata era quella di averne di meno, con un assestamento verso il basso guidato dai ceti più istruiti. La contraccezione entrava in campo per ridurre l’esposizione alla possibilità di avere ulteriori figli o per distanziare le nascite. Molti paesi di diversi continenti – come India, Indonesia, Messico, Egitto – si trovano attualmente in questa fase. Le società della modernità più avanzata sono entrate, invece, in una ulteriore fase, nella quale non solo l’avere figli è una scelta, ma è anche sempre meno scontata. La situazione è ribaltata, con un processo decisionale che non opera più in sottrazione, ma in aggiunta rispetto a una condizione di base che è quella di assenza di figli (la contraccezione non subentra per togliere, ma è la condizione comune di base che viene interrotta per consentire una nascita desiderata). Detto in altre parole, se la non scelta in passato significava rimanere in uno stato di esposizione alla fecondità, oggi la non scelta implica rimanere in condizione infeconda. Si ottiene la rinuncia senza necessità di prendere una vera decisione: non serve un rifiuto, basta solo che l’eventualità di avere un figlio rimanga in sospeso finché, superata una certa età, non si prende semplicemente atto che è troppo tardi. La scelta in aggiunta non è scontata, ha bisogno di essere innescata in modo deliberato e consapevole. È necessario, più che in passato, che sia favorita e sostenuta da attribuzione esplicita di valore nella comunità di riferimento, oltre che da condizioni oggettive che consentono una integrazione positiva con le varie dimensioni della realizzazione personale, in particolare con quella professionale.

In questo passaggio il numero desiderato è rimasto comunque mediamente vicino a due, ma ad avvicinarsi maggiormente alle proprie preferenze al rialzo sono soprattutto le persone che si trovano con maggiori risorse socioculturali, in contesti con migliori servizi e maggior investimento in politiche familiari. Di conseguenza, se un paese vuole ridurre le nascite, non è necessario che disincentivi le persone ad avere figli, è sufficiente non favorire il crearsi e consolidarsi di condizioni adatte. Viceversa, se si considera auspicabile che la maggior parte delle persone non rinunci a realizzare il numero di figli desiderato è necessario mettere in campo azioni a esplicito e solido supporto di tutto il processo decisionale.

Rispetto ai giovani italiani dei primi decenni del secondo dopoguerra, quello che differenzia in negativo i giovani di oggi non è il benessere di partenza ma le prospettive su cui costruire il proprio percorso di vita. Gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso sono stati caratterizzati dal boom economico, da possibilità di entrata stabile nel mondo del lavoro, da aspettative crescenti verso il futuro, da welfare in espansione, da mobilità sociale ascendente.

Rispetto invece ai coetanei degli altri paesi avanzati, ai giovani italiani mancano le nuove condizioni abilitanti, quelle che consentono oggi di costruire con successo il proprio percorso di transizione alla vita adulta, in coerenza con i cambiamenti in atto nella società e nel mondo del lavoro. È un dato di fatto che l’Italia sia entrata in questo secolo con investimenti in formazione terziaria, in politiche attive del lavoro, in ricerca, sviluppo e innovazione, persistentemente più bassi rispetto alla media europea. La conseguenza è una debolezza di tutto il percorso di transizione scuola-lavoro (fragilità nell’offerta di lavoro, inefficienze nell’incontro tra domanda e offerta, bassa valorizzazione del capitale umano nelle aziende), con conseguente aumento del rischio di intrappolamento nella condizione di NEET (gli under 30 che non studiano e non lavorano) o in percorsi di basso profilo professionale. A questo va aggiunta la difficoltà di accesso all’abitazione senza l’aiuto dei genitori (possibilità di ottenere un mutuo o sostenere con continuità i costi dell’affitto senza lavoro stabile).

UN’INSICUREZZA SCESA IN PROFONDITÀ

L’arrivo del primo figlio è rimasta l’ultima scelta irreversibile nel processo di transizione alla vita adulta (mentre sempre più accade di uscire e poi tornare a vivere con i genitori, formare una unione di coppia e poi tornare single, trovare lavoro e poi perderlo o cambiarlo). Come mostrano anche i dati di varie ricerche, i membri delle nuove generazioni desiderano far crescere i figli in un contesto di sicurezza, con adeguate cure e benessere. La situazione di incertezza porta a posticipare la formazione di una propria famiglia, condizionandola all’aver terminato gli studi, all’avere un lavoro che consenta una continuità di reddito, al trovare un’adeguata abitazione. La difficoltà a realizzare tali tappe rende i giovani iper cauti, con il risultato di essere diventati il paese con la più alta età in cui arriva il primo figlio (salita oltre i 31 anni).

La grande recessione è intervenuta peggiorando un quadro già problematico e confermando ulteriormente quanto le condizioni economiche presenti e l’incertezza sul futuro pesino sull’assunzione di scelte di lungo periodo come la nascita di un figlio. I paesi che vedono oggi un andamento più favorevole della natalità sono proprio quelli intervenuti con più forza – in termini di politiche familiari e di autonomia dei giovani – proprio durante la recessione (in Europa è soprattutto il caso della Germania, in Italia quello della Provincia di Bolzano). Dove questo non è avvenuto è cresciuto un diffuso senso di insicurezza verso il futuro che anziché stemperarsi dopo la crisi sembra essere sceso in profondità.

I dati Istat più aggiornati ci dicono che la bassa fecondità italiana è soprattutto dovuta alla caduta delle nascite prima dei 30 anni, che si è ancor più accentuata negli ultimi dieci anni. Ci dicono inoltre che la scelta è rinviata sempre più oltre i 35 anni, risolvendosi spesso in rinuncia definitiva. I dati di un’indagine comparativa internazionale condotta nel 2018 dall’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo sui giovani tra i 20 e i 34 anni mostrano come nonostante la preferenza sul numero di figli rimanga vicina a due, sia progressivamente aumentata, più in Italia che nel resto d’Europa, l’accettazione della possibilità di non averne o averne solo uno. Forte risulta inoltre il legame con le risorse socio-culturali di partenza. Proiettandosi nel futuro, a 45 anni, il 21,9% degli intervistati pensa che non avrà figli, ma si sale a ben il 29,6% per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo. Un presente con basse prospettive porta non solo a ridurre gli obiettivi raggiungibili ma anche il valore assegnato ad essi, minimizzando così il costo psicologico del non raggiungerli. Questi dati suggeriscono come in assenza di politiche adeguate il rischio sia quello di andare verso un futuro in cui la scelta di avere un figlio risulta sempre più limitata a chi ha proprie motivazioni forti e appartiene alle classi sociali più benestanti.

Più in generale, l’Italia non ha alcuna possibilità di arginare gli squilibri demografici e tornare a essere un paese vitale se, in modo concomitante, non ritrova un clima di fiducia e non rimette al centro delle proprie politiche il sostegno alle scelte desiderate e di valore delle nuove generazioni (in modo che non diventino frustrazione e rinuncia, ma successo nell’arricchire progetti di vita che rendono più solido il futuro comune).