Si può curare l’emergenza demografica della civiltà occidentale?

Di Vera Zamagni Giovedì 19 Marzo 2020 09:55 Stampa

Il coro a cui siamo abituati, che inneggia all’onnipotenza della nostra tecnologia, ci ha resi ottusi di fronte ad alcune verità di fondo che stanno oscurando il nostro futuro: le gravi modifiche climatiche che minacciano l’intero pianeta; le epidemie, come il coronavirus Covid-19 o l’ebola, che pensavamo ormai un residuo del passato; le armi sempre più distruttive, che tengono in piedi dittatori senza scrupoli. Ma per le aree avanzate del mondo, un’altra emergenza è quella demografica: i bambini che nascono sono assai meno di quelli necessari per mantenere almeno stabili i livelli di popolazione esistenti. Questa è un’emergenza meno delle altre sotto gli occhi delle persone, perché non impatta così violentemente sul presente, ma ci sta rubando il futuro in un modo forse ancora più drammatico. Infatti, se i cambiamenti climatici e i conflitti producono distruzioni fisiche, il crollo demografico intacca la società alle sue radici, proprio in quanto società. Le città sono sempre più popolate di anziani soli, perché non hanno mariti, mogli o compagni, né figli, né nipoti, al massimo una badante. I paesi vengono spopolati dai pochi giovani che vi nascono, perché non c’è più la “massa critica” per sostenere qualche attività economica e spesso prendono la strada dell’estero. Persino il concetto di famiglia fa fatica a continuare a vivere, essendo il mondo sempre più popolato di single con convivenze temporanee. Non ci sono più nonni perché non ci sono più nipoti, non ci sono più genitori perché non ci sono più figli. Scompaiono fratelli, zii e cugini. La desolazione penetra nell’animo solo a cercare di figurarsi come si possa vivere in una società così.

Va da sé che, oltre all’impatto sociale e spirituale, una società di vecchi sempre più vecchi sarà impossibilitata nel sostenere le attività economiche e il welfare al livello attuale. È ben noto, infatti, che le innovazioni vengono prevalentemente dai giovani, che hanno la capacità di interpretare i bisogni correnti e possiedono la base tecnologica da cui partire per trovare delle risposte. Si pensi che le grandi corporation, che pure hanno enormi laboratori di ricerca propri, spesso acquistano le start-up fatte dai giovani perché le trovano ricche di grandi potenzialità. Non solo, ma l’energia e la passione per realizzare progetti impegnativi di lungo corso appartengono ai giovani, che sanno di avere tempo davanti a sé e desiderano dare un loro contributo distintivo alla società. La voglia di cambiare, quando una situazione corrente si rivela ormai inaccettabile e obsoleta, è sempre soprattutto dei giovani, mentre gli anziani tendono naturalmente al conservatorismo (pur con eccezioni). Per quanto riguarda il welfare, i sistemi pensionistici e sanitari sostengono spese molto elevate e crescenti per mantenere in vita persone che, nella stragrande maggioranza, non sono produttive. Questo è il motivo per cui da un lato si tende ad allungare la vita lavorativa e dall’altro si cerca di indurre stili di vita più sani e sostenibili, in modo da arrivare alla vecchiaia in migliore forma fisica e far spendere meno ai sistemi sanitari nazionali. Ambedue gli approcci migliorano le condizioni di vita delle persone, perché le mantengono attive e in salute. È anche vero, tuttavia, che gli anni di pensione stanno diventando comunque così lunghi da porre un problema nuovo: quello di far sì che i pensionati continui-no a sentirsi parte della società, con attività per lo più diverse da quelle che facevano nella loro vita lavorativa. L’inutilità di una quotidianità senza stimoli, senza obiettivi e senza soddisfazioni spirituali contribuisce infatti a rendere la vita dei pensionati più triste.

Per fronteggiare la carenza di giovani si può certo pensare di ricorrere agli immigrati, cosa che si sta già ampiamente facendo. È sotto gli occhi di tutti, tuttavia, che questa soluzione funziona fino a quando un tessuto sociale sta in piedi, ma quando esso perde la sua capacità inclusiva perché non ha più una sua identità culturale e istituzionale, e cade a pezzi, quella società cesserà di esistere. La sua eredità materiale potrà essere tramandata ad altri, ma non la sua identità culturale. Qualcuno è arrivato a parlare di “suicidio demografico”. Purtroppo ci stiamo avviando verso questa deriva giorno dopo giorno, senza il coraggio di intervenire con decisione. Ma sarebbe possibile bloccare o addirittura rovesciare questi esiti infausti? Ai danni naturali talora non c’è rimedio, ma a quelli “man-made”, prodotti dagli uomini, i rimedi ci sono, basta cercarli. Ci sono tre ordini di interventi che ritengo prioritari, che coinvolgono tutti i pilastri della società: lo Stato, le imprese e la società civile.

Il primo intervento deve essere volto a rendere meno difficile la realizzazione del desiderio di generazione esistente fra i giovani e richiede l’intervento dello Stato. La messa in esistenza della futura generazione va riconosciuta come una funzione sociale di primaria importanza, degna di ricevere facilitazioni fiscali almeno pari a quelle che si danno alla produzione di nuova tecnologia. È provato che i paesi avanzati che stanno aiutando le famiglie generative, sia quando i figli vivono ancora con i genitori, sia quando se ne distaccano per completare il loro iter formativo all’università, sono anche i paesi che hanno i tassi di fertilità più alti. Deve essere chiaro che non bisogna agire con interventi temporanei come bonus di vario genere, ma con un accompagnamento stabile dei figli fino a che questi non sono diventati economicamente autonomi. Naturalmente si potrà modulare questo intervento a seconda delle condizioni economiche delle famiglie, ma l’azione a favore di quelle generative non è da pensare come un intervento contro la povertà, ma come un riconoscimento della funzione sociale della generazione ed educazione dei figli, a cui tutta la società deve contribuire. Quei paesi, come la Francia, che hanno incardinato da tempo le loro politiche fiscali su questo approccio amico delle famiglie generative si trovano oggi in una condizione indubbiamente migliore di un paese come l’Italia che, invece, ha curvato la propria spesa pubblica prevalentemente verso le pensioni e si trova oggi a dover impostare ex novo una politica a sostegno delle famiglie, con scarse risorse da dedicarvi. Ritengo che si potrebbe almeno iniziare a dare un segnale ben impostato in questa direzione, per rafforzarlo in seguito, quando la situazione economica migliorerà.

Il secondo intervento riguarda il mercato del lavoro, un tema sul quale ho scritto un libro con mio marito.1 Per secoli la donna ha partecipato al lavoro che si effettuava in laboratori e fattorie, a fianco del marito e dei figli, pur se in posizione subordinata. Quando con le rivoluzioni industriali il lavoro si è spostato nelle fabbriche distanti dalla casa, le donne sono state marginalizzate dal “mercato del lavoro”, che si è strutturato sulla disponibilità di un lavoratore maschio a spendere lunghe ore fuori casa perché poteva lasciare la famiglia nelle mani della moglie. Questa “specializzazione” interna alla famiglia, che vedeva l’uomo come bread winner e la donna come “angelo della casa”, è durata finché non ci si è resi conto che la donna veniva tagliata fuori dalla società e si sono impostate politiche di acculturazione delle donne che hanno permesso loro di rientrare nel mercato del lavoro e politiche di parificazione dei diritti. A questo punto, però, il sistema lavorativo costruito sul modello di una persona senza impegni di famiglia applicato anche alle donne ha generato una grave sofferenza delle famiglie, che si sono trovate sempre più in difficoltà a presidiare la cura dei figli. Il risultato è stato tanto “eroismo” da parte delle donne per tenere in piedi lavoro e famiglia contemporaneamente, con risultati spesso meno che accettabili, e tanto ricorso ai nonni, ai parenti, a baby sitter improvvisate. Occorre dunque che le imprese imparino a rimodulare l’attività lavorativa in modi che rispettino gli impegni familiari di tutta la forza lavoro, non solo delle donne. Flessibilità negli orari di lavoro, smart working, part time temporaneo, congedi parentali, sanità integrativa, palestre e nidi aziendali, disponibilità di babysitteraggio, maggiordomo d’impresa sono strumenti che oggi si definiscono di “secondo welfare”, che le imprese stanno mettendo in campo, ma con una certa lentezza, soprattutto da parte delle piccole imprese. Laddove vengono praticati, l’occupazione femminile cresce e il benessere dei lavoratori è più alto.

Va detto a questo proposito che tale modifica organizzativa delle imprese non può non accompagnarsi a una modifica anche nel funzionamento delle famiglie, che devono uscire dalla mentalità della “specializzazione” funzionale e abbracciare il multitasking: gli impegni di famiglia diventino condivisi così come condivisi risultano gli impegni di lavoro, secondo un’assunzione di responsabilità declinata con molta libertà. Non è necessariamente la donna che deve preparare da mangiare (non è forse vero che i migliori chef sono uomini?), come non è necessariamente l’uomo che deve occuparsi di dichiarazioni dei redditi e problemi finanziari. La donna sarà protagonista dell’allattamento al seno, ma quando si passa alle pappe, il padre può essere assai efficace. La gita in bicicletta, l’arrampicata sui monti, lo sci, il nuoto, la maratona, la raccolta dei rifiuti di plastica e tante altre attività solidali e civili si possono fare insieme. Quel lunghissimo processo di educazione dei figli perché diventino responsabili e autonomi riesce bene se c’è una comunità di vita.

C’è poi un terzo intervento che è proprio della società civile, delle famiglie come delle scuole e delle associazioni: rendere questa società un luogo accogliente e capace di generare gioia. Come ha scritto Teilhard de Chardin: «Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità non è una catastrofe che venga dal di fuori […]; è invece quella malattia spirituale […] che è la perdita del gusto di vivere».2 Questo “gusto del vivere” oggi si perde perché ci si chiude in se stessi, si usano i media come sostituti delle relazioni umane, si lavora a ritmi insani per aumentare i propri consumi di beni materiali che mai saranno capaci di colmare il desiderio umano, si affronta con le droghe lo stress da lavoro, si cerca lo sballo per dimenticare l’infelicità, ci si illude di risolvere tutto con il gioco d’azzardo. È più che evidente che in questo contesto i figli danno fastidio, perché richiedono sacrificio di sé, perché impongono con la loro presenza comportamenti responsabili che non si vogliono adottare, perché assorbono un tempo che si preferisce dedicare ai viaggi o agli hobby, perché non si ha nessuna visione positiva né del presente né del futuro da trasmettere. Quando poi qualcuno si rende conto che è proprio senza figli che non c’è futuro, allora si pretende a tutti i costi di avere figli in età avanzata, creando più danni che benefici. Se non avere figli è una scelta voluta, gli interventi di sostegno alle famiglie generative di cui ho detto sopra non faranno alcuna differenza, perché, appunto, sono le persone a non voler essere generative, non le condizioni sociali a disincentivarle.

Siamo dunque sull’orlo di un precipizio da cui ci possiamo ancora ritrarre, purché ne prendiamo atto in tempo. Se così non fosse, sarebbe davvero un esito ben infelice per una società che si ritiene “avanzata” come la nostra quello di sostituire l’umanità con le macchine.


[1] S. Zamagni, V. Zamagni, Famiglia e lavoro. Opposizione o armonia?, San Paolo, Milano 2012.

[2] P. Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, Editrice Queriniana, Brescia 2010.