Per una società materna

Di Livia Turco Giovedì 19 Marzo 2020 10:03 Stampa

I dati allarmanti sulla denatalità resi pubblici in questi giorni dovrebbero spingerci a promuovere una svolta politica e culturale. Una svolta nell’agenda del governo: assegno per i figli, buona e piena occupazione femminile, un piano per gli asili nido e per la non autosufficienza, congedi per i padri, investimenti sul Servizio sanitario nazionale, universalistico e solidale, e su una rete integrata dei servizi sociali. Sono priorità assolute. Ma c’è bisogno anche di una svolta culturale che si avvalga di un dibattito ampio, schietto e profondo. Un dibattito in cui le donne devono riprendere la parola sulla potenza creativa della maternità che può realizzare una profonda trasformazione sociale e costruire una società umana a misura di donne e uomini.

Stiamo diventando una società sterile, che non consente alle donne e agli uomini di avere i figli che desiderano. Sterilità dei corpi, perché i tempi sociali condizionano quelli biologici e non rispettano i loro ritmi. Sterilità umana perché il nostro vivere è sempre più incentrato sulla fretta, sulla velocità, sull’ansia della prestazione, sull’apparire, sulla bellezza esteriore. Sterilità culturale, perché dopo l’esaltazione e idealizzazione della maternità dentro lo stereotipo di essa come ruolo e come destino, attorno alla maternità è prevalso il silenzio. La femminilità oggi si esprime attraverso la libertà dei corpi, la bellezza dell’immagine, il talento professionale. Non sono state elaborate nuove parole e nuove immagini per raccontare la maternità vissuta negli ultimi trent’anni, la maternità che non distrugge la carriera lavorativa ma può accompagnarsi ad essa, non limita la libertà femminile ma l’arricchisce, non limita l’accesso alla polis ma porta in essa nuova linfa e nuovi pensieri.

L’esperienza materna è stata confinata in un cono d’ombra, perché costa molta fatica alle donne, perché la parola a essa associata è prevalentemente “costo”: per le aziende, per le famiglie, per il welfare. Ma il cono d’ombra ha ragioni più profonde. Attiene al piano simbolico e alla narrazione culturale.
La mia generazione, quella che ha vissuto la maternità senza accettare rinunce sul piano professionale e della libertà individuale, che ha vissuto il figlio come gioia intima e profonda ma non sempre si è data e ha avuto il tempo per goderne la vicinanza, non ha percepito l’importanza di scrivere una nuova narrazione della maternità, di rappresentarla sul piano simbolico, di raccontarla con parole nuove, le parole della nostra esperienza. Avremmo potuto raccontare la maternità condivisa con i papà; la maternità che entra nei luoghi pubblici e li trasforma nei loro tempi, nei loro riti, nel loro funzionamento; avremmo potuto raccontare l’inventiva con cui abbiamo cercato di conciliare il tempo dell’impegno pubblico e professionale con la presenza alla recita scolastica o al colloquio con i professori. È stata solo mancanza di tempo o non anche il retaggio culturale, la remora a esplicitare la potenza e la bellezza del materno, la remora a mostrare, anche con orgoglio, questa parte di noi?

È stato talmente duro liberarsi dallo stereotipo della maternità imposta, è stato talmente doloroso sentirci definire egoiste perché abbiamo preteso la possibilità di scegliere la maternità e anche assumerci il dramma e il dolore dell’aborto, che non ci siamo rese conto di quanto siamo state brave a vivere la maternità come gioia interiore, nuova cittadinanza sociale, nuova femminilità, nuova relazione con gli uomini.

Ritrovo qui il nesso con la forte riduzione dell’aborto che è avvenuta nel nostro paese: nonostante ci siano tanti ostacoli sociali ed economici per avere un figlio, nonostante la fatica di conciliare questa esperienza con il lavoro e la dimensione pubblica, l’esperienza del figlio intensamente voluto, l’esperienza concreta della responsabilità, ci ha consentito di vivere una nuova umanità della maternità e di percepire ancora più acutamente il dolore e la disumanità dell’aborto. L’autodeterminazione ha reso ai nostri occhi più immorale l’aborto e più umana, bella e femminile la maternità stessa.

Ora è giunto il momento di darci il tempo di elaborare la nuova maternità che abbiamo vissuto. Di scrivere le parole e produrre i simboli della maternità che fonda una nuova cittadinanza sociale e politica. Lo dobbiamo fare per le nostre figlie, alle quali non possiamo consegnare questa società sterile, e non possiamo consentire che siano costrette dagli ostacoli sociali a rinunciare ad avere i figli che desiderano. Bisogna costruire sul piano simbolico il valore della maternità come scelta, gioia, responsabilità di donne e uomini, responsabilità della società. Bisogna rimettere al centro il valore della nascita e il valore dei figli nella vita delle persone e della società. Bisogna restituire “prestigio” alla maternità. Ma bisogna anche promuovere la paternità responsabile e la condivisione della cura, applicare le norme europee sul congedo di paternità rendendolo obbligatorio al momento della nascita del figlio. Prevedere all’interno del congedo parentale un periodo ad uso esclusivo del padre incentivato dal punto di vista economico.

Su questo punto il nostro paese e le sue classi dirigenti sono talmente distratte e arretrate che hanno rinunciato persino ad applicare e far conoscere le norme esistenti che prevedono il diritto alla paternità come diritto soggettivo (legge 53/2000, “Disposizioni per il sostegno della maternità e paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi della città”) e il successivo Testo unico sulla maternità (decreto legge 151/2001), legge importante, frutto di una lunga battaglia iniziata dalle donne del PCI con il documento “Le donne cambiano i tempi”, tradotto prima in una proposta di legge d’iniziativa popolare che raccolse 300.000 firme, diventata poi legge l’8 marzo del 2000 con il governo dell’Ulivo (governo D’Alema) su iniziativa dell’allora ministra della Solidarietà sociale e successivamente nel Testo unico sulla maternità e migliorata con la normativa successiva (legge 92/2012) che istituisce in modo sperimentale il congedo obbligatorio di paternità della durata di due giorni alla nascita del figlio/a.

Oggi molti uomini scoprono e vivono il tempo della paternità, un tempo nuovo e prezioso perché si alimenta di una scoperta: l’esperienza della cura da parte degli uomini. È una scoperta che stupisce gli uomini per la sua intensità umana. Il tempo della cura modifica l’identità maschile perché consente agli uomini di esplorare una nuova dimensione della vita, rompe gli archetipi del patriarcato che persistono nel fondo del loro animo. Li rende padri più autorevoli e capaci di svolgere una funzione educativa più efficace perché stanno accanto ai figli, sono con loro a condividere gli aspetti quotidiani della vita che mette a contatto con tutti i bisogni, i sentimenti, i conflitti. Curare il corpo, procurare il cibo, leggere il pianto e il sorriso, inventarsi il gioco o partecipare a esso, cercare di guardare le cose con gli occhi del bambino per capirlo meglio cessano di essere dei dettagli cui si guarda distrattamente, diventano incombenze impegnative in cui occorre essere attenti, disponibili, imparare a fare le cose per bene, dunque acquisire competenze. L’esperienza della cura arricchisce e modifica l’identità maschile e contribuisce a rendere il tempo della cura un tempo sociale e non solo un tempo femminile. Solo se donne e uomini vivono intensamente e alla pari il tempo della cura sarà possibile arricchire le relazioni umane e praticare quella “mescolanza” dei tempi di vita che costituisce l’ambizione di ciascuna persona. Perché mescolare i tempi della vita significa poterne esplorare tutte le dimensioni. Il tempo della paternità promuove una nuova identità maschile e femminile dove la cura e la dimensione pubblica sono esperienze e ingredienti di vita di entrambi i sessi. Finalmente la cura delle persone, il lavoro e la polis, la dimensione pubblica, cessano di essere tra loro in conflitto. In questo modo sarà possibile rompere in modo definitivo gli stereotipi di genere che sono alla base di tante forme di violenza degli uomini sulle donne.

Bisogna promuovere la cultura del dono e della gratuità e il valore della generazione, riscoprire il valore della funzione educativa anche per scrivere una nuova grammatica dei sentimenti: tra donne e uomini, tra genitori e figli, tra giovani e anziani. Bisognerebbe avere il coraggio di pensare e di parlare di una “società materna e di una politica materna”, che faccia vivere nella società e nella politica come ingrediente prezioso la cura della persona, la presa in carico dell’altro, la capacità di tessere i legami che ci uniscono alle persone, di promuovere l’autonomia, i talenti, le abilità di chi è fragile.

Stiamo diventando una società sterile anche perché le relazioni umane si impoveriscono, perdono forza e calore. L’etica della cura, che si sprigiona in modo particolare nell’esperienza della maternità ma che appartiene al materno che vive in ciascuna donna, può immettere nella società e nella relazione con gli altri energia, fiducia, calore umano, ottimismo. È il rovesciamento della mistica della maternità, è l’idea che la relazione e la cura degli altri – dei bambini, dei vecchi – non sono responsabilità e destino privato e che non c’è specificità femminile nel pensare gli asili nido o nel richiedere i congedi parentali.

La cura delle persone deve diventare un grande obiettivo politico, un orizzonte di vita, un modo di essere delle relazioni pubbliche, un tratto della democrazia. Che recupera in tal modo la sua funzione propria, che è la promozione dei beni comuni e la partecipazione attiva delle persone. Rendendo così concreta la sua capacità inclusiva e realizzando l’ideale democratica dell’uguaglianza non solo di opportunità ma di partecipazione alla vita sociale e pubblica. Non si tratta solo di rivendicare dei diritti; dobbiamo, noi donne e uomini, essere capaci di costruire un progetto di cittadinanza sul riconoscimento dei legami reciproci e sulla capacità di prendersene cura. Bisogna avere l’ambizione di costruire una società umana.

E allora bisogna prendere di petto un’altra questione e porla al centro del dibattito pubblico: i processi di mercificazione dei corpi stanno diventando estremamente invasivi e producono forti diseguaglianze tra donne che non possono essere tollerate in nome di una generica libertà personale. Mi riferisco alla pratica “dell’utero in affitto”, che vede donne ricche ricorrere alle donne povere delle parti più povere del nostro continente per comprare il loro grembo e procreare. Come se il grembo materno fosse un oggetto qualunque, e dimenticando tanti anni di esperienza e di elaborazione femminile e non solo che hanno nitidamente individuato nella relazione madre-figlio che si stabilisce nel grembo materno l’inizio della formazione di una persona e di una relazione che non può essere interrotta o snaturata. Perché quello materno non è solo un grembo fisico ma anche un grembo psichico, in cui nasce e si forma la personalità del bambino attraverso la relazione con la madre. Stiamo dimenticando queste elaborazioni e queste acquisizioni culturali e valoriali in nome di un relativismo etico che trovo sconcertante. Il tutto avviene senza un dibattito pubblico nella sinistra. Almeno si discuta di dove stiamo andando e di dove vogliamo andare.