L'Ungheria e lo stato di diritto

Di Massimo Congiu Venerdì 29 Gennaio 2021 13:52 Stampa
L'Ungheria e lo stato di diritto Emanuele Ragnisco
 

Le più recenti valutazioni della Commissione europea sullo Stato di diritto in Ungheria sono tutt’altro che incoraggianti e sottolineano diverse criticità. Secondo l’istituzione: «L’indipendenza e l’efficacia del consiglio dei media sono a rischio e la trasparenza della proprietà dei media non è pienamente garantita. Inoltre l’importante numero di inserzioni pubblicitarie dello Stato affidata ai mezzi di informazio­ne filogovernativi ha consentito al governo di esercitare un’influenza politica indiretta sui media. La trasparenza e la qualità del processo legislativo sono messe in dubbio poiché è diminuito il ricorso alle consultazioni pubbliche e alle valutazioni d’impatto. L’indebolimen­to delle istituzioni indipendenti e la crescente pressione esercitata sulla società civile influiscono ulteriormente sul bilanciamento dei poteri. La Corte di giustizia ha ritenuto non compatibile con il dirit­to dell’UE la legislazione sulla trasparenza delle organizzazioni della società civile finanziate con fondi stranieri».1

Quelli appena menzionati sono solo alcuni degli aspetti che destano preoccupazione all’interno dell’UE e che sono stati al centro delle denunce contenute nel rapporto presentato al Parlamento europeo dall’eurodeputata olandese verde Judith Sargentini negli ultimi mesi del 2018. Denunce sul mancato rispetto dello Stato di diritto in Un­gheria con accuse precise riguardanti violazioni avvenute in diversi campi: dalle disposizioni esistenti in ambito mediatico a quelle as­sunte in materia di migranti.

Nel settembre di quell’anno, la Commissione Libertà Civili del Parlamento europeo (LIBE) approvò la relazione della Sargentini e con essa la risoluzione che chiedeva agli Stati membri di attivare la procedura sanzionatoria prevista dall’articolo 7 del Trattato UE nei confronti dell’Ungheria in quanto il suo governo era chiaramente ac­ cusato di limitare le libertà e di violare lo Stato di diritto. Essa venne approvata dalla LIBE con 37 voti a favore, 19 quelli contrari.

Per il governo ungherese e per i suoi sostenitori, il passo compiuto in sede istituzionale europea non era altro che «una pressione per far cambiare la politica anti-immigrazione» delle autorità magiare. Il primo ministro Viktor Orban aveva definito il dossier “rapporto Soros” e la Sargentini un agente del magnate statunitense di origine ungherese che viene indicato dal primo ministro danubiano ai suoi connazionali come principale nemico del paese. A lui viene attribuito il piano di riempire l’Un­gheria e il resto dell’Europa di migranti musul­mani in combutta con la “tecnocrazia liberale” di Bruxelles e con i trafficanti di esseri umani. In questo modo verrebbero minacciati anche i pae­si membri più legati alla loro identità nazionale che i soggetti prima menzionati cercherebbero di conquistare alla causa di quel multiculturalismo e cosmopolitismo che Orban denuncia come non valore e che a suo avviso è funzionale a ren­dere i paesi europei colonie del capitale globale e dei suoi speculatori, tra essi soprattutto Soros. Il multiculturalismo è quindi, a parere del governo ungherese e della sua propaganda, un obiettivo illusorio. Illusorio, menzognero e coltivato da un Occidente ormai schiacciato dal peso di diktat liberali, frutto di un orientamento politico che per Orban e per i suoi sostenitori ed emuli è del tutto inadeguato a rappresentare istanze e bisogni di comunità e popoli.

Si tratta di propaganda bella e buona, certo, come quella che all’e­poca ha presentato la decisione presa dalla LIBE sulla base del Rap­porto Sargentini come dettata dalla volontà di punire l’intero popolo ungherese per avere avuto il coraggio delle sue scelte. Va detto, a questo punto, che Orban si riferisce ai suoi connazionali come se le disposizioni prese dal governo rappresentassero un intero popolo. In realtà le cose non stanno così: la società ungherese è profondamente divisa dalla politica, dall’economia, e c’è una parte consistente di paese che non si colloca entro l’orizzonte delineato dall’attuale ese­cutivo. Il problema è che la medesima non ha trovato, finora, ade­ guata e consistente rappresentanza politica. L’opposizione liberale e di centrosinistra ha ben accolto la prospettiva di sanzioni in quanto strumenti tali da indebolire il sistema creato da Orban e convincere i fedeli del Fidesz e gli indifferenti circa i danni provocati in questo decennio dal premier e dai suoi, ma al tempo stesso ha sempre temu­to le conseguenze sociali di penalità economiche. Il paese ha bisogno dei fondi dell’UE, non è un mistero.

Arriviamo a tempi più recenti, alla fine dell’anno scorso, quando il governo ungherese ha posto il veto al bilancio europeo per i prossimi sette anni insieme a quello polacco. Bilancio contenente i 750 miliar­di di euro di Recovery Fund. Né a Orban né al suo omologo polac­co Morawiecki piaceva la condizionalità riguardante il rispetto dello Stato di diritto; entrambi i paesi da loro rappresentati erano sotto il mirino dell’articolo 7 e intendevano spalleggiarsi. Orban respingeva il criterio in questione, affermava di non riconoscere all’UE l’autorità di stabilire se in un paese membro fosse rispettato lo Stato di dirit­to, precisava che in Ungheria non ci sono problemi di questo gene­re e che, casomai, questo giudizio sarebbe stato di sola competenza dei suoi connazionali. A suo avviso la questione posta dall’UE in tal senso non era giuridica ma politica, e come tale inaccettabile. Ne faceva un problema di sovranità nazionale. Morawiecki contribuiva alla protesta definendo lo Stato di diritto uno strumento inventato arbitrariamente dall’UE per colpire la Polonia e tale da minare l’uni­tà europea. C’è da chiedersi quanto le attuali leadership di questi due paesi abbiano finora contribuito alla stessa.

È noto che il problema è stato aggirato da un accordo con la media­zione della presidenza di turno tedesca. D’altra parte era necessario arrivare a un compromesso per evitare un blocco in una situazione critica come quella imposta dalla diffusione del Covid-19. Di fatto, però, il problema è stato solo rinviato per una questione emergenzia­le. Restano infatti divisioni e diffidenze. Il criterio relativo al rispetto dello Stato di diritto è sempre valido, l’impasse verificatasi a causa del veto ungaro-polacco è stata superata grazie all’impegno contenuto nella dichiarazione interpretativa di “non utilizzare arbitrariamente” il meccanismo in questione e grazie alla decisione della Commissio­ne europea di non porre in atto alcuna procedura finché la Corte di giustizia non avrà deliberato sulla legalità del provvedimento. Non è tutto quello che Budapest e Varsavia volevano ma per esse è già qualcosa. L’UE in questo modo ha preso tempo perché il problema del mancato rispetto dello Stato di diritto in entrambi i paesi e degli standard democratici auspicati da Bruxelles è un problema sempre attuale.

Facciamo qualche esempio concreto riguardante l’Ungheria: in par­ticolare dal 2012, anno dell’entrata in vigore della legge sui media, detta “legge bavaglio”, il settore dell’informazione è sottoposto a un controllo governativo aumentato negli anni. Da allora Viktor Orban si è impegnato a silenziare le voci dissenzienti; particolarmente em­blematiche, da questo punto di vista, le vicende di Klubrádió, prati­camente l’ultima emittente radiofonica di opposizione e dello storico quotidiano “Népszabadság”, costretto a chiudere nell’autunno del 2016. Per giustificare la scomparsa di questo giornale dalle edicole e dalla rete furono addotte ragioni di carattere economico, di fatto il “Népszabadság” era molto attivo nella critica al sistema e denuncia­va regolarmente con i suoi articoli casi di corruzione che vedevano coinvolti membri dell’esecutivo. Un’altra conferma di questo clima di controllo mediatico da parte del potere è offerta dal licenziamento di Szabolcs Dull, direttore di “index.hu”, fatto avvenuto negli ultimi mesi del 2020. «La nostra voce indipendente è in pericolo, rischiamo la chiusura», aveva detto Dull. L’allarme era stato lanciato dopo che il 50% delle quote della società editrice del giornale era stato acqui­stato da un imprenditore vicino al primo ministro Viktor Orban. Questo licenziamento ha riproposto la problematica della libertà di stampa in Ungheria e ha avuto come conseguenza le dimissioni vo­lontarie in massa dei redattori di “index.hu”, in segno di protesta, e una manifestazione promossa dal partito Momentum. Secondo l’op­posizione politica e sociale, “index.hu” svolgeva un lavoro di qualità e rappresentava ossigeno per i sostenitori di un cambiamento concre­to, per quanto assai difficile, all’interno del paese.

Le organizzazioni internazionali che si occupano di libertà di stampa esprimono da tempo inquietudine per la situazione esistente in Un­gheria da questo punto di vista. Alla fine del 2019 sei di esse, tra cui l’EFJ (Federazione dei Giornalisti Europei), l’RSF (Reporters Sans Frontières) e l’IPI (International Press Institute), hanno effettuato una visita a Budapest e concluso al termine della loro indagine che il governo Orban ha «sistematicamente demolito l’indipendenza, la libertà e il pluralismo dell’informazione, deteriorato la situazione del mercato editoriale e diviso la comunità dei giornalisti unghere­si realizzando un controllo sui media senza precedenti in un paese dell’UE». Giudizio sostanzialmente confermato l’anno dopo.

Non gode di migliore salute l’ambito accademico e universitario su cui il governo ha messo le mani per gestire fondi dedicati alla ricer­ca, indicare indirizzi e modalità di quest’ultima e controllare la vita universitaria. Con tale approccio l’esecutivo ha ottenuto il trasferi­mento della CEU (Central European Universi­ty), fondata non a caso da George Soros. Questo episodio è stato al centro della sentenza che la Corte di giustizia europea ha pronunciato l’anno scorso dichiarando la legge ungherese del 2017, concepita per colpire la CEU, contraria al dirit­to europeo e alla libertà accademica. Si inserisce in questa problematica la vicenda della SZFE, l’Università di Arti Teatrali e Cinematografiche, occupata dai suoi studenti in segno di protesta contro la riforma governativa che ha imposto all’istituto vertici fedeli al premier. L’esecutivo aveva motivato questa decisione sostenendo la necessità di ridefinire programmi didattici e modalità di finanziamento sulla base di uno “spirito patriottico”. L’episodio rappresenta un nuovo tentativo del sistema di asservire istituzioni che hanno fama di essere indipenden­ti. Sostenuta in patria da scrittori, attori e registi critici verso il go­verno, l’occupazione ha acquisito una connotazione simbolica ai fini dell’impegno della società civile contro le politiche orbaniane e ha avuto ampia eco e supporto anche a livello internazionale.

Quest’opera di controllo fa parte di un progetto che il sistema creato dal leader danubiano ha iniziato a realizzare dal 2010, anno del suo ritorno al potere, e riguarda diversi ambiti. Non mancano certo le accuse di gestione non proprio trasparente e comunque molto ri­stretta dei fondi dell’UE da parte del governo anche attraverso oli­garchie legate al medesimo. Le scuole sono tutt’altro che esenti da intromissioni che hanno visto il potere indicare programmi didatti­ci e imporre libri di testo scritti da autori compiacenti e pubblicati da agenzie facenti parte della stessa cerchia. Ma tornando alla vita accademica che vari soggetti di opposizione, tra i quali il gruppo Stadium 28 – costituito da accademici – ha cercato di difendere, che dire della linea governativa che cerca di scoraggiare le ricerche di genere, specie quelle riguardanti l’omosessualità? Il motivo addotto dal sistema è che il paese non può permettersi di lasciare che certe tendenze vengano incentivate data la sua situazione demografica non proprio florida.

È frutto di questo approccio la mancata ratifica ungherese della Convenzione di Istanbul. Per la maggioranza governativa il trattato promuove “ideologie di genere distruttive” inaccettabili e contrarie alle leggi del paese. Per l’esecutivo il sistema giuridico nazionale è dotato già da tempo di strumenti atti a combattere la violenza con­tro le donne e i minori. A suo avviso la Convenzione di Istanbul sollecita un approccio tale da accelerare l’immigrazione in Europa. Così i governanti ungheresi respingono in particolare gli aspetti del trattato relativi alla concessione dell’asilo ai rifugiati perseguitati per il loro orientamento sessuale o per motivi di genere. A suo tempo le opposizioni hanno cercato di contrastare le ragioni dell’esecutivo sostenendo che con l’isolamento forzato dovuto al Covid-19 – che ha visto il premier acquisire pieni poteri a tempo indeterminato in una prima fase – le violenze domestiche sono aumentate, addirittu­ra raddoppiate secondo Amnesty International Ungheria, ma il loro tentativo è stato vano.

L’Ungheria di Orban non brilla nei rapporti pubblicati periodica­mente dalle organizzazioni attive sul fronte dei diritti umani e civili che stigmatizzano, tra le altre cose, la posizione del governo di Bu­dapest e le decisioni da esso prese in ambito migranti. Idem per ciò che riguarda la pessima propaganda avente per oggetto i suddetti e portata avanti dal potere in modo martellante, specie dal 2015.

Come già precisato esiste senz’altro un’altra Ungheria che contesta questa politica e si attiva con iniziative pubbliche, manifestazioni e sit-in, atti a rendere più coesa l’opposizione sociale che esiste contro il sistema. È quella parte di paese che ha criticato la Costituzione entrata in vigore nel 2012, la legge bavaglio, le politiche anti-immi­grazione e soprattutto la criminalizzazione dei flussi migratori (va detto, a questo proposito, che non pochi ungheresi emigrano verso i paesi europei economicamente più stabili). Protesta per la politica culturale, a favore della libertà accademica e si è espressa di recente contro il veto al bilancio dell’UE. Sono solo alcuni esempi che mo­strano la presenza di un’Ungheria che vuole un cambiamento ma che, come premesso all’inizio dell’articolo, non ha avuto, finora, una rappresentanza politica strutturata e capace di contrastare seriamente questo sistema che modifica la legge elettorale a suo favore, impone al paese un lavaggio del cervello continuo con una propaganda che distoglie l’attenzione della gente dai problemi veri e impoverisce la vita politica nazionale sopprimendo ogni forma di dibattito. Il siste­ma concepito da Orban non ha nessun interesse a stimolare lo spi­rito critico nei suoi connazionali, anzi. Il pensiero critico per questo sistema è un pericolo e un attentato ai valori patri. Tutta retorica e propaganda che fa circolare tesi e sostiene atti politici i cui risultati si traducono in danni duraturi. Le manifestazioni e l’impegno della so­cietà civile che vuole una svolta sono già qualcosa. Ma c’è dell’altro: l’accordo raggiunto lo scorso dicembre da sei partiti dell’opposizione per provare a offrire un’alternativa al paese, il primo a livello naziona­le, è un incoraggiamento per quanti vogliono una svolta. Sono semi per un cambiamento, certo molto difficile, in cui comunque si spera, malgrado tutto.

 


[1] Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al comitato delle Regioni, Relazione sullo Stato di diritto 2020, disponibile su https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52020SC0316&from=IT.