Diario del Sessantotto di periferia

Di Peppino Caldarola Mercoledì 14 Febbraio 2018 11:25 Stampa

Il diario del Sessantotto di una città di periferia del Sud racconta con ironia i Sessantotto minori, che sono stati tanti e hanno cambiato le vite di molti dei protagonisti e delle loro città: centinaia e poi migliaia di giovani che venivano da tutto il Mezzogiorno. Abbondavano calabresi, molisani, lucani oltre ai figli dei nuovi borghesi dei centri agricoli della Puglia che speravano nel salto sociale della prole. Ecco come alcuni ragazzi di periferia entrarono nel mondo.


Sono un sessantottino minore. Non lo dico per bassa autostima. È che il mio Sessantotto è il Sessantotto di una città di periferia del Sud. Già questa definizione solleverà contrasti. Bari si considera una città importante e la sua università ha vantato fior di professori e di uomini pubblici. Non faccio l’elenco per non offendere gli uni e gli altri o i parenti dei defunti dell’una o dell’altra categoria. Però questa affollata università meridionale era fuori dal circuito mediatico.

I giovani che chiedevano l’impossibile sembrava che stessero solo al Nord, tra Trento e Torino, a parte la fiammata romana e la sofisticatezza pisana. Eppure noi in periferia avevamo fatto le cose per benino. Addirittura eravamo partiti prima del Sessantotto. La contestazione iniziò nel 1967 con un sit-in davanti all’università e qualche decina di poliziotti più sorpresi di noi per quel che stava accadendo. Avevo portato da casa molti rotolini con le monetine (mio padre lavorava in Banca d’Italia e quindi erano monetine lucenti) e le avevo distribuite ai compagni e alle compagne che poco alla volta bloccarono il traffico sedendosi lungo la strada di accesso all’ateneo. Il copione era quello di ovunque: urla, slogan forti e poi all’improvviso quel lancio di monetine che preparò e determinò l’intervento della polizia. Fummo denunciati. Ci difese il mitico avvocato Muciaccia, comunista e difensore dell’ex Soccorso Rosso, i cui figli erano bellamente seduti per terra, e un po’ per affermare un principio, un po’ per prendere per i fondelli il magistrato sostenne la tesi che avevamo il “diritto del sedere”. Non fummo assolti ma poi dopo avemmo l’amnistia. Non c’era una gran gioventù di sinistra in quegli anni. L’università era dominata dalla goliardia, i due capi erano l’uno fascista l’altro democristiano, i loro cortei annuali richiamavano tutta la città come fosse il carnevale di Putignano. Noi eravamo nei cineclub a vedere i film di Dziga Vertov oppure “All’armi siam fascisti” di Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Micciché. Alcuni di noi erano iscritti alla FGCI, altri ai giovani del PSIUP, ma cresceva il numero di ragazzi di sinistra senza partito. L’aria era frizzante. Accanto al gruppo teatrale dell’università, diretto da Michele Mirabella che preparava il “Leonzio e Lena” di Büchner con primattore Maurizio Micheli (sì, quello che poi divenne famoso per “Radio Bitonto libera”), nacque un gruppo di avanguardia.

Qualche mese prima dell’esplosione del teatro della Gironda, era questo il nome scelto dai teatranti, si tenne a Bari uno spettacolo del famoso Living Theatre con Julian Beck e Judith Malina con gli attori seminudi che attraversavano la sala sconcertando la borghesia barese nel tripudio dei più giovani. Qualche settimana dopo Renzo Montagnani, allora impegnato nel teatro importante, si arrabbiò a metà spettacolo perché un gruppo di noi, guidati dai ragazzi e dalle ragazze del teatro della Gironda, urlavano dal loggione “Sogno, Bolero, Grand’Hotel”, nomi delle testate dei principali settimanali di fotoromanzi, per deridere una recitazione che ci sembrava molto tradizionale. Infine il famoso teatro della Gironda mise su uno spettacolo dal titolo, tradotto in italiano perché la frase inglese non la ricordo, “Le zampe non rinfrescano” e nessuno capì bene se era una parodia del Living o se si erano presi sul serio. Non lo sapevano neppure loro teatranti vestiti tutti di nero. Sta di fatto che il muro del conformismo si era già rotto mesi prima che decidessimo di sederci sull’asfalto davanti all’ateneo.

Il mio Sessantotto minore era fatto in compagnia di centinaia e poi migliaia di giovani che venivano da tutto il Mezzogiorno. Abbondavano calabresi, molisani, lucani oltre ai figli dei nuovi borghesi dei centri agricoli della Puglia che speravano nel salto sociale della prole. Chi racconta quella rivolta come sentina di tutti i vizi o come ribellione dei privilegiati non sa di cosa parla. I fuori sede erano generalmente poveri in canna. Le sigarette si fumavano in due o tre ma un’aria nuova entrò negli appartamenti in cui erano accampati quelli che venivano da lontano con le provviste di casa. Non era una gioventù sicura del proprio avvenire, molti poi avrebbero fatto i professori di liceo, altri i medici o gli ingegneri, ma tanti erano sul punto di abbandonare e abbandonarono. Chi pensa a quei ragazzi come felici e appagati dimentica che la grande paura del tempo era la guerra con la minaccia atomica e di una guerra scegliemmo tutti di essere soldati d’oltremare, la guerra di Ho Chi Minh. La visione del mondo era scissa tra l’ottimismo rivoluzionario e il terrore di uno scontro tra le grandi potenze.

Quando il clima si accese in tutta Italia, qualcuno prese il treno e andò a vedere che cosa accadeva a Roma, Torino, Milano e alcuni si spinsero persino fino a Trento. Giravano i nomi dei nuovi leader giovanili. Ma tutto sommato noi pensammo a un Sessantotto fai da te. A capo della rivolta c’erano ragazzi e ragazze che erano stati nei partiti di sinistra e molti altri venivano dalle associazioni cattoliche. Ovviamente ci si innamorava. Del sesso neanche a parlarne, erano caduti tutti i freni. Ma era la politica ad affascinare lo studente di Potenza o quello di Roseto Capo Spulico.

Ben presto si accorsero di noi tutti i professori universitari. La maggioranza di loro era iscritta al partito comunista o si aggirava da quelle parti. Altrove i baroni rossi erano al centro di polemiche e contestazioni ma chi volete che aggredisse il raffinatissimo americanista Vito Amoruso, il burbero di straordinaria cultura Franco De Felice, l’italianista Vitilio Masiello, persino il papà di Nanni Moretti? Infine c’era Beppe Vacca, instancabile nel tentare di agganciare questa gioventù ribelle che divenne dopo la base strategica della sua “école barisienne”, enclave ingraiana di cui non facevo parte pur essendo amico di tutti loro ma troppo ferventemente berlingueriano. I giovani assistenti universitari si consideravano “funzionari di partito pagati dallo Stato” ma si muovevano a disagio tra giovani capelluti e sgarbati.

Ricordo che anni dopo, d’estate, quando Ingrao era presidente della Camera, i miei compagni dell’“école” si riunivano nella casa di campagna di Vacca. Io ero altrove come anni dopo ero altrove quando la segretaria provinciale del PCI, di cui facevo parte, organizzava riunioni riservate con Armando Cossutta. Ero notoriamente inaffidabile per gli uni e per gli altri.

Una sera di mezza stagione del 1968 i professori ci invitarono nella sala sotterranea della rosticceria Ippocampo vicino all’ateneo e ci fecero domande difficilissime su quel che volevamo fare. Ovviamente non lo sapevamo. Pochi di noi erano all’altezza di dare risposte. Chi aveva la collezione dei “Quaderni Piacentini” sapeva di cosa si parlava quando raccontava il movimento in giro per il mondo, ma loro, i professori comunisti, ci volevano inchiodare a Gramsci che pochi conoscevano. Andava meglio nelle assemblee che erano affollatissime e finivano sempre con il discorso di uno di noi, un lucano, che parlava una lingua difficile e diceva concetti così complicati che finì per essere considerato uno dei maggiori leader. Poi c’erano i due fratelli che diventeranno uomini di cinema ma allora erano grandi organizzatori di cortei. Poi c’erano le ragazze, belle, tostissime, tra cui la nipote di un futuro presidente della Repubblica. E c’era un ragazzo che alternava silenzi tombali a facondia che era una promessa dell’ispanistica italiana ma fu distolto dall’Accademia dall’amore per la politica.

Quando finì il Sessantotto io tirai un sospiro di sollievo. Non per polemica, anzi, ma per la maledetta abitudine che i capi dei cortei avevano di imitare i cortei delle altre città, cioè la passeggiata iniziale scandita con slogan feroci e poi a un segnale tutti di corsa. Tutti, compresi io e mia sorella, entrambi cardiopatici (lei non c’è più) che correvamo per le vie centrali della città. Noi due senza gridare slogan. O urlavamo o respiravamo. Scegliemmo sempre di respirare.

Il PCI e il PSI si incuriosirono di questi ragazzi confusi che citavano autori sconosciuti ai leader dei partiti di sinistra. Alcuni però fecero di più. Una sera Alfredo Reichlin, segretario regionale del PCI, invitò una decina di noi a casa sua. Chiacchierammo, mangiammo bene, rispondemmo alle domande curiose di questa bella borghesia barese che si stava spostando a sinistra. Ma il giorno dopo, per timore di aver ceduto ai revisionisti, riprendemmo assemblee, marce e cortei come nei giorni precedenti con slogan contro il PCI. Ormai però i professori erano più radicali di noi e ciascuno con i suoi alunni formava un gruppo nel movimento assai ostile al gruppo che ruotava attorno a un altro docente, comunista anche lui. Tutto il resto è come lo hanno raccontato i film, cioè i materassi per terra, le aule talvolta piene di ragazzi e ragazze volenterosi altre volte deserte. La più terribile arma che possedevamo era la chitarra che suonava le note dei canti partigiani, ma la sera sul tardi qualcuno cantava “Azzurro” di Celentano, che in quei giorni del Sessantotto faceva furore.

I figli della città ricca scoprivano la vita in comune con i fuori sede e in qualche caso si celebrarono fidanzamenti clamorosi che durarono poco. Ognuno aveva anche i propri leader studenteschi di riferimento. Io amavo Rudi Dutschke, colpito poi da una pallottola di un giovane di destra una settimana dopo l’assassinio di Martin Luther King e pochi mesi prima di Bob Kennedy. Dutschke, anarchico ambientalista e rosso, parlava della lunga marcia nelle istituzioni che gli studenti avrebbero dovuto fare e per quelli che non si accontentavano degli slogan sembrò una grande svolta. Non era un programma riformista, aveva solo (solo?) l’obiettivo di costruire nelle istituzioni casematte rivoluzionarie. Conobbi poi Mauro Rostagno. Siamo stati nella segreteria dei giovani socialisti del PSIUP e lui aveva deciso che dovevamo fare una commissione meridionale con dentro i giovani socialisti delle aree più a Nord del paese.

I Sessantotto minori sono stati tanti e hanno rivoluzionato le nostre vite e le nostre città. Molta ideologia si fece strada, si accesero numerosi dibattiti ereditati dal vecchio movimento operaio. Io ero più preoccupato della rottura tra Celentano e Don Backy. Pochi di questi leader locali sono finiti male o hanno accettato le lusinghe del potere. Il dato di fondo è che quell’elemento anarchico che soffiò sulla rivolta in tutto il mondo da noi, e altrove nel Sud, incontrò il partito comunista. Ci cercò, lo cercammo. Il movimento lo incontrò a fatica dopo qualche anno di proliferazione di gruppi extraparlamentari dominati dagli ammiratori di Stalin nei quali io stavo a disagio visto che tra i 16 e i 17 anni ero incerto tra Leone Trockij e Rosa Luxemburg. I Sessantotto maggiori sono quelli che leggerete in questi mesi. Storie vere e meno vere, storie in prima persona o inventate, racconti di Parigi, Berkeley, Berlino, Nanterre (ma dove cazzo sta, ci chiedevamo?). Molti di noi, sessantottini minori, non si sono mossi da casa ma hanno fatto lo stesso un casino. A un certo punto ci trasferimmo nella zona industriale per fare lavoro operaio e per anni non ci siamo più mossi da lì. Devo confessare che col passare del tempo quella rivoluzione mi appare sempre più bella come erano stati belli gli anni che l’avevano preceduta. Accadde così che noi, gente di periferia, entrammo nel mondo.