Tutto nasce nella scuola

Di Francesco Sinopoli Mercoledì 14 Febbraio 2018 11:25 Stampa

Sulla scuola e sull’università, negli ultimi cinquanta anni, si è giocata un’enorme partita ideologica, che ha a che fare con le egemonie culturali e gli interessi della formazione dei gruppi dirigenti. Progressivamente, la scuola pubblica è diventata il luogo dove le diseguaglianze sociali non vengono ricomposte ma moltiplicate. In un paese dove aumentano le diseguaglianze, la scuola dovrebbe invece essere uno degli strumenti per limitarle. La sottrazione delle risorse e le politiche adottate che hanno cambiato in peggio la scuola e l’università hanno determinato, nei fatti, una sorta di alfabeto dell’esclusione dei molti, a vantaggio dei pochi. Allora come deve essere costruita l’infrastruttura scuola del XXI secolo?


Non si può dare inizio, dal punto di vista del sindacalista, a una ricognizione storica delle trasformazioni nate dalle grandi lotte dei movimenti degli anni Sessanta senza ricordare alcuni dei giudizi che ne diede Bruno Trentin, protagonista indiscusso di quella stagione. Non a caso Trentin parlò esplicitamente di “secondo biennio rosso”, a cinquanta anni di distanza dal primo. «Fu in quel periodo che le nuove generazioni che non avevano vissuto la tragedia e le costrizioni della seconda guerra mondiale cominciarono ad assumere un ruolo da protagoniste», aveva scritto nel volume sull’Autunno caldo e il biennio rosso pubblicato nel 1999. Trentin colse innanzitutto un mutamento culturale nella coscienza di classe e parlò della emersione della «cultura dei diritti del lavoratore in quanto persona».1 Operai e studenti raggiunsero insieme alcuni risultati concreti. Si erano create commissioni per la riforma della scuola secondaria, dell’università, delle attività artistiche legate al teatro e al cinema e perfino il sistema dell’informazione venne sottoposto a dura critica. Gli operai avevano conquistato forme di autodeterminazione in fabbrica. Ed è proprio in questa carica antiautoritaria che Trentin individuò il collante dei movimenti che segnarono il 1968-69: la contestazione di una cultura ossificatasi in una serie di nozioni e di una organizzazione del lavoro che tendeva a espropriare e centralizzare i saperi, anche attraverso la segmentazione, la parcellizzazione del lavoro così come la contestazione di una rigida e impermeabile divisione dei ruoli tra dirigenti e diretti e, nella scuola, tra docenti e discenti.

Certo, non mancava una riflessione profonda sull’eredità del Maggio francese. Lo spirito antiautoritario dei movimenti francesi si era diffuso ovunque in Europa, da Roma a Praga, da Berlino a Londra. Furono conquiste che contribuirono in parte a trasformare l’Europa e il mondo occidentale, la cultura e i modi di vivere, l’atteggiamento verso gli altri e la conoscenza. E soprattutto, lanciarono quella sfida che evidentemente non è ancora stata vinta: rendere la scuola e l’università centri di propulsione sociale e dell’apprendimento, dove tutti si sentono uguali e a casa. In fondo, era questa anche l’utopia di don Lorenzo Milani. A partire da questa narrazione, quale può essere il giudizio sull’eredità del Sessantotto? Ce lo chiediamo spesso e spesso ce lo chiedono proprio gli studenti del XXI secolo, cinquanta anni dopo. Il fatto è che le interpretazioni di quanto accadde nel Sessantotto non solo hanno diviso gli storici, ma in questi cinquanta anni, almeno alcune di esse, sono state veicolate ideologicamente per attribuire tutti i mali dell’ultima fase del Novecento e degli inizi del XXI secolo proprio a quanto accadde in quell’anno. Soprattutto gli intellettuali della destra, amanti del ripristino dell’antico ordine culturale, ne hanno fatto l’origine di tutti i mali contemporanei. Le ansie di liberazione dalle forme più becere di autoritarismo nelle scuole e negli atenei, da una cultura dominata in Italia dalla ideologia gentiliana e crociana (in realtà già stigmatizzata da Gramsci in molte parti dei “Quaderni del carcere”), da forme di insegnamento e di apprendimento che generavano privilegi e diseguaglianze e scavavano solchi sempre più profondi tra ricchi e poveri, sono la vera eredità che il paradigma e la storia del Sessantotto consegnano all’attualità del XXI secolo. Non farsene carico vuol dire essere miopi, e accettare la vulgata di qualche revisionista storico.

Nei primi due anni di contestazione studentesca, infatti, nel secondo biennio rosso, le conquiste del movimento studentesco sembravano aver contagiato istituzioni politiche e sociali, che cominciavano ad andare in crisi. E prima tra tutte andò in crisi proprio la scuola. Mai come in questo periodo la scuola visse un fermento così diffuso ed enorme proprio sul piano della revisione della pedagogia e dei sistemi di insegnamento e apprendimento, e mai come in questi due anni il movimento degli studenti universitari era riuscito a vincere un paio di battaglie strategiche: la liberalizzazione degli accessi all’università per le scuole di ogni ordine, consentendo a tutti gli studenti di accedere a qualunque facoltà volessero, e la promessa di una riforma democratica delle scuole superiori, che venne varata solo anni dopo con la legge del 1974 sui Decreti delegati. Infine, quello stesso movimento all’alba del 1969 decise che era venuto il momento di trovare un’alleanza sociale forte con il movimento operaio, con le lotte nelle fabbriche.

Come guardare al Sessantotto, dunque, usando gli occhiali che ci fornisce la storia di oggi? Intanto, vorrei sottolineare un punto che mi sembra segnare un legame stretto tra “loro e noi”: la necessità di restituire al sistema dell’istruzione il suo valore costituzionale, dettato dagli articoli 3, 33 e 34. L’Italia era diseguale negli anni Sessanta come lo è oggi, sul piano economico e sociale. Discriminazioni e diseguaglianze forti, insieme con forme disgustose di privilegio, erano presenti allora come sono presenti oggi. Finiti i “trenta gloriosi” anni dell’espansione economica ci ritroviamo più vicini agli anni Cinquanta che agli anni Settanta. E soprattutto, il diritto universale allo studio, sancito dalla Costituzione, era tradito allora come lo è oggi. Com’è possibile che ciò accada? È possibile perché sulla scuola e sull’università, in questi cinquanta anni, si è giocata un’enorme partita ideologica, che ha a che fare con le egemonie culturali e gli interessi della formazione dei gruppi dirigenti. Progressivamente, la scuola pubblica è diventata il luogo dove le diseguaglianze sociali (e su questo don Milani aveva colto perfettamente il nocciolo della questione, come Alex Langer disse più tardi) non vengono ricomposte ma moltiplicate.

Nel procedere dei decenni, la risposta del potere politico alle istanze del Sessantotto e dei primi anni Settanta di liberazione della scuola e dell’università, la risposta ai sogni di tante generazioni di studenti, la risposta alle domande di rinnovamento poste da nuovi docenti, fu di chiusura, fino a raggiungere il livello massimo con l’atteggiamento del governo quando fu varata la legge 107/2015, a coronamento di un processo ideologico continuo. Ricostruire istituzioni autoritarie del sapere: era questa la sfida che il potere politico aveva lanciato per contrastare la fenomenologia del Sessantotto, che richiedeva invece apertura e dialogo. E accanto alle istituzioni autoritarie, rianimare tutte le forme del privilegio. È così che nasce la “mitologia retorica” del primato del merito, o meritocrazia (il termine, coniato nel lontano 1958 da Michael Young, aveva assunto nella sua creazione un’accezione negativa), dell’ideologia “del capitale umano” da formare nelle scuole e da “prestare” all’industria, del “si salvi chi può”, che è la vera religione dell’ideologia individualistica della nuova borghesia pre e post crisi (Bauman ne descrisse i contorni sin dal 2002). Ora, però, dobbiamo fare esattamente l’opposto; restituire alle istituzioni del sapere quel sapore costituzionale che hanno via via perduto in questi anni di egemonia culturale neoliberista. Occorre perciò porsi l’interrogativo giusto: quale scuola vogliamo costruire, mutando sistema e paradigma, per le generazioni del XXI secolo, basandola su quali fondamenti e presupposti teorico-pedagogici e determinando quale senso attribuirle. Riteniamo che oggi si debba ripartire dalla riaffermazione della missione di contrasto alle diseguaglianze e di costruzione di un sapere critico per una cittadinanza consapevole.

Uno dei punti critici certamente è quello delle transizioni. In Italia le transizioni più problematiche sono nel passaggio tra la scuola primaria e la scuola secondaria di I grado e tra quest’ultima e la secondaria di II grado. Nel primo caso è evidente come la generalizzazione degli istituti comprensivi si è risolta fondamentalmente in un’operazione di risparmio con la formazione di megaistituzioni scolastiche da mille e più alunni, mentre sullo sfondo sono rimaste le problematiche connesse alla transizione nell’approccio didattico educativo tra i due segmenti. In sostanza, vanno problematizzati i passaggi critici in cui la scuola dell’apprendimento diventa scuola delle discipline insieme alla complessità nell’affrontare le caratteristiche della pre-adolescenza nella società contemporanea. Nel secondo caso continuiamo a registrare soprattutto nel primo anno della secondaria di II grado un livello di dispersione scolastica (intesa come abbandoni, bocciature e ripetenze) inaccettabile. Dov’è che la scuola inizia a fare fatica nell’assolvere alla sua funzione costituzionale? Dove intervenire affinché nessuno resti indietro? La verità è che non si sono poste queste do mande, ma al contrario le policy degli ultimi anni hanno privilegiato un approccio ben diverso, quello per il quale il miglioramento della scuola passa dall’assunzione del modello di “quasi mercato”.

Il sistema di “quasi mercato” elaborato in particolare in Inghilterra nell’era thatcheriana, poi raffinato negli anni successivi, per i suoi sostenitori – oltre a produrre una competizione tra istituzioni che già in quanto tale sarebbe virtuosa – porterebbe un beneficio ulteriore e immediato per le famiglie (i consumatori nello schema mercatista) che consiste nella possibilità di scegliere la scuola dove mandare i propri figli individuando quella più in sintonia con le proprie attitudini, inclinazioni ecc. Si innescherebbe un processo complessivo di miglioramento a livello di sistema appunto in quanto si potrebbero premiare le scuole “migliori”. Anche nel nostro paese secondo alcuni la competizione tra scuole dovrebbe contribuire a risolvere le criticità emerse dalle indagini nazionali e internazionali sui livelli di apprendimento raggiunti dagli studenti, incentivando il miglioramento delle istituzioni scolastiche in termini di efficacia e di efficienza. Da qui la centralità delle informazioni che le famiglie possono ricevere per effettuare la scelta. In particolare quella sui livelli delle conoscenze e competenze ottenuti dagli studenti che frequentano quelle scuole. Nel modellino tutto funziona. Nella realtà no. Nelle scuole dei quartieri più difficili e nelle zone più disagiate si concentrano i figli di chi per ragioni culturali ed economiche non è nelle condizioni di orientare la scelta. In sostanza nel paese dove il modello della school choice è stato pensato e realizzato nella forma più pura si registra un collasso della mobilità sociale. In Italia, la legge 107/2015 con il suo modello manageriale molto elementare è funzionale a realizzare la scuola della competizione e della concorrenza, l’opposto di quella dell’inclusione e dell’uguaglianza, per questo deve essere cancellata. Oggi dobbiamo tornare a porci una domanda di fondo, la stessa che si poneva ormai cinquanta anni fa la pedagogia democratica. Ossia se sia proprio vero che i figli della povera gente siano più stupidi di quelli dei signori, come i risultati scolastici facevano pensare. In sostanza da quella domanda nacque l’esperienza di Barbiana e di don Milani. Perché oggi come ieri se il sapere è solo quello dei libri, chi ha tanti libri a casa sarà sempre più avanti di chi i libri non li ha mai visti. Anche oggi chi ha tanti libri in casa è quello che potrà sempre scegliere la scuola migliore sulla base delle informazioni che riceve dalla “rendicontazione” dei risultati dei test e delle diverse forme di valutazione. Il punto non è quello di consentire una scelta informata ma come far ripartire anche nel nostro paese quella mobilità sociale che da tempo è in crisi, come si costruiscono le condizioni per far sì che la scuola sia uno strumento di contenimento delle diseguaglianze e non un moltiplicatore. Le presunte ragioni “meritocratiche” che hanno coperto ideologicamente gli interventi sulla scuola degli ultimi anni dai tagli della Gelmini al primitivismo della chiamata diretta, del bonus docenti e di tutto il managerialismo straccione della legge 107, compreso l’assurdo sistema di valutazione dei dirigenti scolastici che funge da strumento di pressione per introdurre una competizione interna alle scuole e tra le scuole producono l’effetto opposto. Alimentano le diseguaglianze costruendo una scuola che specchiandole nei fatti le moltiplica.

Serve quindi un altro tipo di riflessione e bisogna sgombrare il campo da una serie di equivoci. Il primo è che la scuola non può essere più il terreno di confronto e di scontro tra forze politiche, per cui ogni governo si sente in dovere di “scrivere” la propria riforma. Nell’ultimo quarto di secolo, quella infrastruttura è stata modificata più volte, e non sempre, anzi, con risultati positivi. Il secondo è che le policy degli ultimi venti anni hanno letteralmente sbrindellato l’infrastruttura, che è diventata ormai una sorta di autostrada con mille buche, mille pericoli, e regole insensate. Il terzo equivoco è che non c’è alternativa al pensare a forme di investimento, di reclutamento, di intervento sul patrimonio edilizio, stabili, strutturali e notevoli, in coerenza con le grandi democrazie europee. Il primo dovere per un’infrastruttura di qualità è che abbia risorse, sia stabile, e che necessiti di poca o scarsa manutenzione. In un paese dove aumentano le diseguaglianze, la scuola dovrebbe essere uno degli strumenti per limitarle. Oggi avviene il contrario. Nel corso degli ultimi anni il sistema di istruzione è stato trasformato in un amplificatore delle diseguaglianze sociali, all’opposto di quanto prevede l’articolo 3 della Costituzione. La sottrazione delle risorse e le politiche adottate che hanno cambiato in peggio la scuola e l’università, hanno determinato, nei fatti, una sorta di alfabeto dell’esclusione dei molti, a vantaggio dei pochi.

Come deve essere costruita l’infrastruttura scuola del XXI secolo? Abbiamo lanciato una sfida all’opinione pubblica, che qui ribadisco: apriamo un grande dibattito, il più largo e unitario possibile, tra coloro che la scuola la vivono, i pedagogisti nazionali e internazionali, i sindacati, gli intellettuali, le forze politiche, e cerchiamo di giungere a una sorta di Assemblea costituente della scuola. Riscrivere le regole della scuola del XXI secolo non può che essere compito della nazione intera, perché quella infrastruttura è di tutti e interessa tutti (come pensava don Milani), perfino i nonni. Allora, occorre fermarsi e riflettere, evitando scelte estemporanee e decisioni spesso avventate (dagli smartphone al quadriennio, dai vaccini obbligatori alle esperienze negative, ma obbligatorie, in materia di alternanza scuola-lavoro – sfruttamento e ricatti, l’emendamento sull’uscita degli studenti delle medie). Sapendo che nessuno di noi ha la ricetta già pronta. Anzi. Il livello di problematicità è altissimo, la sfida è enorme, ma vale la pena tentarla, per evitare che ogni sisma, ogni piccolo scossone possa turbare il già delicato equilibrio della scuola e delle scuole. Altri spunti, per titoli: a) la centralità dell’intelligenza e del futuro degli studenti, abbinata al valore socialmente indiscutibile dell’insegnante; b) aumentare e rendere strutturali le risorse per l’infrastruttura scuola: arrivare ad esempio al 7 o all’8% del PIL, rispetto all’attuale 5% scarso (circa 100 miliardi l’anno), raggiungendo le democrazie occidentali più avanzate; c) dobbiamo mettere in discussione un sistema di valutazione che nei fatti sta legittimando la deriva verso il sistema di “quasi mercato” a cui abbiamo fatto riferimento prima; d) investire nella formazione continua di docenti e lavoratori della scuola; e) il ripensamento della didattica, rendendo ad esempio coerenti i programmi disciplinari; f ) trasformare l’alternanza in “istruzione integrata”, nella quale si rende meno complicato il rapporto tra mondo del lavoro e mondo della scuola, evitando il rischio di sfruttamento, ma inserendo l’esperienza (Dewey) della disciplina del lavoro nel sistema dell’educazione; g) realizzare un vero investimento sulla scuola dell’infanzia e sulla primaria. In che modo pensiamo la scuola come infrastruttura? Cominciamo a costruirla sapendo che le sue fondamenta sono ben radicate nella Costituzione, nel diritto al sapere e alla conoscenza, nel diritto delle nuove generazioni a essere accompagnate nelle loro complesse esperienze esistenziali. Intanto, è ciò che abbiamo tentato di fare redigendo un Manifesto per “tutti e tutte” e come bene comune in una società democratica. Nel Manifesto è segnalato in particolare e tra le altre cose che «la scuola è un bene comune che appartiene al paese e non può essere oggetto di riforme non condivise e calate dall’alto (…) è funzionale alla rimozione delle diseguaglianze, enormemente accresciute in questi anni (…) non è un luogo di addestramento al lavoro, ma è una comunità educativa (…). La scuola dimostra ogni giorno che l’arte, la scienza, la cultura non sono riducibili a processi burocratici, a parametri economici, a logiche classificatorie e meritocratiche». C’è un nesso stretto e inscindibile tra il Manifesto per la scuola inclusiva e costituzionale, firmato tra l’altro dai quattro segretari nazionali dei nostri sindacati, e l’opera pedagogica e sociale di don Lorenzo Milani. Una scuola moderna o è aperta al mondo oppure non è, e una scuola aperta significa anche che nessuno resta indietro, dove tutti conoscono i diritti e i doveri che la Costituzione assegna ai cittadini, e dove nessuno, crescendo, può essere sfruttato. La scuola non può che essere la palestra della democrazia, ma anche della liberazione attraverso la conoscenza critica e la consapevolezza del mondo. Solo così riusciremo a trasformarla da elemento e fattore delle diseguaglianze sociali, a elemento dinamico della giustizia sociale e della democrazia, nella quale l’alfabeto dell’esclusione farà spazio alla società aperta e inclusiva. Un’infrastruttura scolastica non può che essere nazionale, e deve legare tutte le parti del paese, soprattutto le più disagiate.

Oggi purtroppo così non è. Se partiamo dalle università, si scopre non solo che in dieci anni sono migrati dal Sud verso il Nord (e l’Europa) circa 200.000 laureati, un esercito per il quale il Mezzogiorno paga un conto salatissimo e amarissimo, sia dal punto di vista esistenziale (giovani strappati alle famiglie), che da quello del mancato sviluppo per effetto dell’evidente impoverimento delle energie intellettuali (valutato in circa 30 miliardi l’anno), ma soprattutto che più della metà dei giovani che ogni anno si maturano nelle scuole secondarie del Mezzogiorno non possono iscriversi all’università per ragioni economiche e a causa dei costi diventati ormai proibitivi per famiglie per lo più monoreddito e con un’occupazione povera. Si tratta di una delle ingiustizie più gravi e drammatiche che un paese sviluppato possa tollerare: l’accesso allo studio, il diritto al sapere e a una vita migliore sacrificati per effetto di una condizione di povertà diffusa. Una beffa. In breve: se infrastruttura dev’essere, la scuola non può limitarsi a educare il capitale umano; non può sottrarsi alla missione di costruire esperienze di apprendimento per la vita conoscitiva e per la libera intelligenza degli studenti; non può che ottenere risorse finanziarie pari a quelle delle grandi democrazie occidentali; deve impegnarsi a superare le diseguaglianze e non a moltiplicarle; come accade tra Sud e Nord, dove la sperequazione è aumentata nel corso dell’ultimo decennio. Infrastruttura sì, ma con molto giudizio. La verità è che i cambiamenti della scuola andrebbero approvati con maggioranze costituzionali, in grado di garantirne la continuità nel tempo. Cambiamenti che vanno attentamente valutati e monitorati. Dopo le presunte riforme degli ultimi anni, un intervento riformatore avrebbe bisogno di una vera e propria Costituente della scuola, tra le forze politiche e quelle sociali, i rappresentanti degli studenti e delle famiglie, il governo centrale e il sistema delle autonomie locali, per delineare un progetto condiviso. Per questo, in mancanza delle condizioni per realizzarla, a fronte di un quadro politico dove prevalgono spinte conservatrici e regressive, bisognerà promuoverne una dal basso, mettendo a disposizione tutte le nostre energie a servizio di una grande mobilitazione del mondo della scuola nella quale un ruolo chiave dovrà avere il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro, perché la riconquista di diritti, salario e dignità si deve necessariamente coniugare a una idea di scuola radicata nella Costituzione, capace di guardare al presente e al futuro.

 


[1] B. Trentin, Autunno Caldo. Il secondo biennio rosso 1968-1969, Editori Riuniti, Roma 1999, pag. 11.