Testimone o protagonista. Qual è il posto dell’Italia nel mondo?

Di Italianieuropei intervista Massimo D'Alema Mercoledì 14 Febbraio 2018 10:39 Stampa

Dall’Iran, paese verso cui Federica Mogherini ha fatto una politica giusta, non “concessiva”, alla politica estera americana fortemente destabilizzante che richiede una risposta europea unitaria; dalla Russia di Putin che ha guadagnato parecchio spazio al focolaio di tensione rappresentato dall’Estremo Oriente, con le minacce nucleari del regime nordcoreano. Su questo e molto altro si sofferma Massimo D’Alema, tracciando un quadro complesso di quale sia il ruolo dell’Europa e del nostro paese nel mondo.


Italianieuropei
Sei appena tornato dall’Iran, dove ti sei trovato a pochi giorni dalle proteste di inizio gennaio. Che situazione hai trovato? Che idea ti sei fatto in merito alle istanze dei manifestanti e alla reazione delle autorità?

Massimo D’Alema La sensazione che ho avuto, condivisa anche dagli altri osservatori stranieri che erano presenti, è che si sia trattato non di una rivolta contro il regime ma di una protesta sociale. La situazione economica dell’Iran è infatti difficile. Su di essa pesano gli effetti di un lungo periodo di bassi prezzi del petrolio e del danno economico prodotto dall’embargo e dalle sanzioni. Non c’è dubbio che Teheran si attendesse dall’accordo sul nucleare dei benefici che, anche per il persistere dell’ostilità statunitense, sono venuti solo in parte molto limitata. Non solo vi sono grandi società che esitano a investire in Iran per il timore di ritorsioni americane, ma in particolare il sistema di boicottaggio statunitense delle banche iraniane crea notevoli difficoltà per il finanziamento degli investimenti. Il risultato di tutto ciò è che nel paese c’è un grande malessere sociale, sul quale soffiano le forze più conservatrici.

Per comprendere ciò che sta accadendo non bisogna dimenticare quanto complessa e delicata sia la realtà dell’Iran, un paese in cui convivono due poteri: quello laico, del governo e del presidente, che viene conteso democraticamente; quello religioso, che secondo la tradizione sciita esercita una grande influenza sulla società, controlla una forza armata, i pasdaran, che può anche partecipare al mantenimento dell’ordine pubblico, e soprattutto controlla il potere giudiziario. Alcune forme di repressione e la durezza del sistema giudiziario iraniano vanno letti alla luce di questo elemento.

Occorre inoltre riflettere sul fatto che la capacità di controllo del potere religioso può anche essere utilizzata a danno del potere laico, nel senso che un’ala più dura delle forze conservatrici presenti nel paese può compiere delle scelte molto intransigenti che hanno, tra gli altri, anche l’obiettivo di mettere in difficoltà il governo riformista. Se guardiamo con attenzione e senza animo propagandistico a quanto accaduto in quei giorni vediamo il dispiegarsi della dialettica tra questi poteri: il discorso sulla legittimità della critica e della protesta popolare fatto dal presidente Rouhani contrapposto alle affermazioni di quanti auspicavano interventi repressivi assai duri.

Naturalmente ciò non significa che l’Europa debba rinunciare ad avere una posizione di fermezza in materia di difesa dei diritti umani. Io stesso non ho mancato di ricordare, unico tra i relatori del convegno a cui ho partecipato a Teheran in quei giorni, che il rispetto dei diritti umani è per l’Europa un criterio fondamentale nella definizione della sua politica estera e che il diritto a manifestare rientra pienamente nel novero dei diritti umani. È anzi uno dei diritti fondamentali. Ma bisogna capire, anche alla luce della complessità del paese, quali interessi abbiamo e agire di conseguenza. Ed è indubbio che l’Europa abbia interesse a rafforzare le componenti riformiste presenti in Iran, quelle che hanno attuato una politica di apertura, che hanno avuto il coraggio di fare un accordo sul nucleare. In Iran, oltre che una società civile moderna, che vuole mantenere aperto il dialogo con l’Occidente, c’è una classe dirigente che, pur interloquendo su alcune questioni con la Russia e con la Cina, vede nell’Europa un partner fondamentale. È a questi soggetti che dobbiamo guardare.

Ritengo, del resto, che l’atteggiamento dell’Unione europea verso l’Iran sia quello corretto. E penso che Federica Mogherini abbia fatto una politica giusta verso l’Iran, non “concessiva”, come ha sostenuto parte della stampa italiana, perché mira a favorire un processo di apertura e democratizzazione attraverso il sostegno a quelle forze che nel paese vanno in questa direzione. Bisogna quindi agire con la critica ma anche con il senso della misura, cercando di costruire relazioni economiche, coltivando le forze che pensano con favore alla via dell’accordo, alla rinuncia all’arma nucleare, a costruire un rapporto diverso con il mondo. Questo è un punto fondamentale per la sicurezza. La strategia opposta non produce sicurezza.

IE Siamo a un anno esatto dall’insediamento del presidente Trump, il quale, in linea con quanto promesso in campagna elettorale, ha radicalmente mutato le direttrici della politica internazionale statunitense, cancellando molto di quanto fatto dal suo predecessore: dal ritiro dagli Accordi di Parigi sul clima alla denuncia dell’Accordo nucleare con l’Iran, per arrivare, da ultimo, all’annuncio dello spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme. Qual è il tuo giudizio su questi ultimi dodici mesi di politica estera americana?

M. D’A. Penso che il ritorno all’unilateralismo messo in atto dall’amministrazione Trump non sia un fatto positivo. E guardo con interesse ad alcune spinte in senso contrario che cercano di contenere questo nuovo indirizzo. Fortunatamente l’America non è solo Trump, che sta incontrando tante resistenze all’interno del suo paese nel tentativo di realizzare una politica che ritengo dannosa. Per la prima volta nel secondo dopoguerra si è venuta a creare una così grande divaricazione tra le due sponde dell’Atlantico. Divaricazione anche rispetto a quelli che sono i nostri interessi fondamentali. Nell’area del Golfo Persico, ad esempio, dove gli Stati Uniti stanno soffiando sul fuoco del conflitto, armando l’Arabia Saudita, incoraggiando i gruppi più oltranzisti tra le monarchie del Golfo, che non sono, sia detto per inciso, grandi modelli di democrazia e di rispetto dei diritti umani. Noi europei non abbiamo interesse a che questo accada. La sicurezza nel Grande Medio Oriente è una precondizione della sicurezza europea, e la politica americana attuale, minando questa sicurezza, ci porta dei danni. Rispetto al conflitto israelo-palestinese, per fare un altro esempio, l’azione statunitense rilancia le spinte oltranziste all’interno di Israele e rischia di precludere la via alla soluzione basata sulla creazione di due Stati, mettendo in allarme anche una parte del sionismo democratico israeliano. È infatti chiaro che se viene rimesso in discussione il progetto di Stato palestinese, anche quello di creare uno Stato ebraico viene meno. Israele finirebbe per avere al suo interno una minoranza araba che nel giro di pochi anni diventerebbe maggioranza. E poi? Questo finirebbe per diventare l’interrogativo drammatico per Israele. Ritengo quindi che la politica americana sia fortemente destabilizzante e che richieda da una lato una risposta europea unitaria, dall’altro una capacità di dialogo dell’Europa con la parte più avvertita del mondo politico statunitense, anche all’interno del partito repubblicano, nella speranza che il Senato e la Camera dei Rappresentanti possano divenire un contrappeso rispetto alle pulsioni di Trump.

IE Della strategia mediorientale americana e della debolezza dell’azione europea sta approfittando la Russia di Putin, attore fondamentale nella definizione dell’assetto che seguirà alla fine del conflitto siriano. Si può parlare di una pax russa nell’area?

M. D’A. Non c’è dubbio che la Russia di Putin abbia guadagnato parecchio spazio. Però penso che Putin sia sufficientemente realista da comprendere che una pax russa non funzionerebbe e che la guerra in Siria abbia bisogno di una soluzione che sia accettata da tutte le parti. Il conflitto siriano è nato come un moto democratico anti Assad, ma ben presto si è trasformato in una guerra regionale: da una parte i sauditi, le potenze sunnite, soprattutto la Turchia; dall’altra parte uno schieramento che comprende l’Iran, Hezbollah, la Russia. In questo conflitto, Mosca è uno degli attori in gioco, così come lo è l’Occidente, che ha sostenuto inizialmente tutto l’amplissimo fronte anti Assad che andava dalle componenti democratiche fino all’ISIS, salvo poi, a un certo punto, introdurre una discriminante anti Daesh e antifondamentalista. Si tratta quindi di un conflitto che non può risolversi con la vittoria di una sola parte ma che deve necessariamente approdare a un compromesso. Gli iraniani, ad esempio, questo lo sanno benissimo, tanto che non riuscendo a sviluppare un rapporto con i sauditi ne hanno sviluppato uno molto intenso con la Turchia, che in questo momento è la grande potenza sunnita dell’area, dal punto di vista militare la più consistente della regione. Il carattere assai composito della società siriana, inoltre, impone la ricerca di un equilibrio. A meno di non pensare a uno smembramento della Siria, che avrebbe un effetto a catena nella regione, si deve necessariamente costruire un equilibrio all’interno di una società multireligiosa, multietnica, in cui devono convivere la maggioranza sunnita e numerose rilevanti minoranze: alawiti, sciiti, la minoranza cristiana, la comunità ebraica di Damasco. Non può quindi esserci una pax russa, anche se è evidente che la Russia dovrà essere parte di una soluzione, alla luce peraltro della credibilità enorme che ha guadagnato in tutta la regione scegliendo di sostenere Assad ma combattendo contro l’ISIS. Quando a un certo punto Daesh è apparso a tutti i leader dell’area come il nemico principale la Russia era la forza che gli si contrapponeva nel modo più chiaro, mentre la posizione americana tradiva una certa ambiguità. Penso che Putin, che è un uomo realista, sappia che può rivendicare un ruolo nella regione ma anche che non può diventarne il dominus.

IE Oltre alla regione mediorientale, l’altro grande focolaio di tensione è rappresentato dall’Estremo Oriente, con le minacce nucleari del regime nordcoreano. Come credi sia possibile agire per disinnescarlo?

M. D’A. La via per disinnescare la questione è esattamente quella che è stata intrapresa: da una parte la pressione politica ed economica che può essere esercitata dalla Cina; dall’altra il dialogo tra le due Coree. Il gioco machista tra il dittatore coreano e Trump non porta da nessuna parte. La via da seguire è quella che cerca di allentare la tensione offrendo la possibilità di fronteggiare le difficoltà sociali interne prodotte proprio dallo sforzo militare intrapreso dalla Corea del Nord: se la Corea del Sud aiuta la popolazione di quella del Nord a soddisfare i suoi bisogni primari, a mangiare ad esempio, credo che ciò si tradurrà in una progressiva distensione nell’area. Dall’altro lato, però, è molto importante l’azione diplomatica che i cinesi, che non hanno alcun interesse a che si crei tensione in quell’area, stanno attuando, pur con molta discrezione e nel rispetto del principio, per loro basilare, della non ingerenza. Con le sue modalità e i suoi riti, che noi dobbiamo cercare di capire, la Cina sta facendo la sua parte.

IE Parliamo della stessa Cina che prende apertamente posizione in favore dell’apertura dei mercati e in difesa della globalizzazione, a fronte di un’amministrazione statunitense impegnata nel perseguire l’obiettivo dell’America First e in provocazioni a colpi di tweet. Siamo entrati nell’epoca di Pechino grande attore della stabilizzazione internazionale?

M. D’A. Oggi la Cina si presenta come un paese portatore di un rilevante tratto nazionalistico, con una forte dose di orgoglio nazionale dovuto anche al salto fuori dall’arretratezza che ha saputo compiere negli ultimi quaranta anni. Poiché gran parte di questi benefici sono venuti dalla globalizzazione e dall’apertura dei mercati, Pechino ha un modo di guardare alla globalizzazione molto diverso da quello che prevale in Europa, dove invece la globalizzazione ha portato alla perdita di una posizione di predominio. In questa grande apertura al mondo c’è chiaramente anche un disegno egemonico. Quando i cinesi lavorano per costruire una nuova grande Via della seta, investendo in Asia centrale ma aggirando l’India, il loro principale antagonista nella regione, e passando per l’Africa, dove hanno fatto importanti investimenti, è chiaro che hanno un disegno egemonico.

L’Unione europea dovrebbe avere un atteggiamento di maggiore apertura nei confronti della Cina. Non ha più senso mantenere ancora oggi, dopo trenta anni dai fatti di piazza Tienanmen, l’embargo sulle alte tecnologie e sul militare. Andrebbe fatta una riflessione seria sui vantaggi che possono venire da una partnership più equilibrata tra l’Europa e la Cina, prima che quest’ultima si prenda i paesi europei uno dopo l’altro, come ha fatto recentemente con gli accodi sottoscritti con sedici paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica o con il rapporto costruito con la Grecia attraverso l’acquisto del porto del Pireo. Proprio perché l’Unione europea pone dei vincoli, si offre ai cinesi la possibilità di agire sul terreno per loro più favorevole, che è quello del negoziato con i singoli paesi europei, con i quali Pechino può far pesare al massimo la sua forza, la sua capacità finanziaria.

La Cina è oggi una realtà importante, un paese che tra le grandi potenze è quello più disponibile a collocarsi nella dimensione multilaterale di cui l’Europa è portatrice, ed è chiaro che i cinesi ci stanno con tutto il loro peso e con un disegno egemonico. È questo lo scenario con cui bisogna confrontarsi, e lo si può fare mostrando una capacità vera di interlocuzione. Prima di consentire ai cinesi di approfittare delle divisioni europee credo che sarebbe meglio per l’Europa cercare di costruire un partenariato che fissi delle regole che possano andare a vantaggio di entrambi. L’Europa, senza rinunciare ai sui principi, dovrebbe cercare di misurarsi con la sfida cinese senza chiudersi in gabbie che hanno ormai largamente perduto di significato.

IE Siamo all’indomani del congresso straordinario dell’SPD che, accettando l’accordo programmatico negoziato da Merkel e Schulz, apre la strada a una riedizione della Grande Coalizione in Germania. In Europa si tira un respiro di sollievo. È un bene per i socialdemocratici tedeschi? E per la Germania e l’Europa?

M. D’A. È evidente che dal punto di vista europeo è un fatto positivo che la Germania abbia un governo e che la SPD sia parte dell’accordo di governo. È però altrettanto evidente che questo sembra condannare la socialdemocrazia tedesca a una subalternità senza via d’uscita. La SPD diventa junior partner delle forze centriste e moderate non nel quadro di un’esperienza transitoria ma su pianta stabile. Ciò pone un enorme dilemma alla sinistra europea. Cosa fare di fronte alla crescita delle forze populiste e antieuropee? Chiudersi nel fortino di un’alleanza che la vede subalterna ai centristi? È questo il destino della sinistra in Europa? Ritengo che tale soluzione determini la crescita dell’area antagonista in tutti i paesi, stringendo la sinistra in una morsa, quella stessa morsa in cui il Partito socialista francese, ad esempio, si è dissolto, e dalla quale penso si debba uscire guardando, senza demonizzarla, all’area di diffidenza crescente verso l’Europa, in cui ci sono sì il nazionalismo e la destra, ma c’è anche una protesta legittima. Se l’Europa unita è nata per garantire la coesione sociale, per tenere insieme sviluppo capitalistico, diritti sociali e democrazia, oggi vediamo invece in atto un processo di erosione della democrazia, che diventa sempre più elitaria, una radicalizzazione impressionante delle diseguaglianze sociali e un’architettura europea che non è in grado di ricostruire un meccanismo virtuoso di redistribuzione e di garanzia dei diritti sociali.

Bisogna rendersi conto che le posizioni antieuropee che stanno crescendo non sono causate da un complotto, orchestrato magari dalla Russia, ma da un sentimento che ha delle ragioni. E di conseguenza avere il coraggio di fare una scelta diversa, difficile ma che può portare dei frutti, come accaduto ad esempio in Portogallo, dove i socialisti hanno formato un governo con le forze di estrema sinistra che sta avendo risultati positivi dal punto di vista economico facendo una politica radicalmente diversa da quelle propugnate da Bruxelles: crescita delle pensioni minime, aumento della pressione fiscale sui redditi più alti. Sfuggire al destino di diventare una forza subalterna dentro un blocco che appare come conservatore dell’esistente è per la socialdemocrazia questione di vita o di morte.

I socialdemocratici tedeschi hanno dovuto compiere una scelta drammatica, rompendo con l’organizzazione giovanile del partito, raccogliendo solo il 56% dei voti favorevoli al congresso e preparandosi ora a un referendum tra gli iscritti che non sarà facile convincere. Capisco bene il loro tormento, la complessità della scelta e il tentativo che hanno fatto di uscire da una stretta di cui sono i primi a essere consapevoli. Vedremo come andrà a finire. Fino a oggi la grande coalizione li ha progressivamente asciugati.

IE In tutti gli scenari citati l’Italia è assente. Quale giudizio dare dell’azione internazionale dell’Italia negli ultimi anni?

M. D’A. Le grandi coordinate della politica estera italiana sono definite: siamo un paese europeista, parte del mondo occidentale, con un profilo di promotore di pace nel Mediterraneo, favorevole al dialogo con il mondo arabo, egualmente vicini all’esigenza che i palestinesi abbiano una patria e a quella di difendere il diritto all’esistenza di Israele. Siamo stati tra quelli che storicamente hanno spinto per un accordo con l’Iran, che corrisponde a interessi vitali del nostro paese. In questi ultimi anni non ci siamo sostanzialmente discostati da queste direttici. Il problema però è che oggi viviamo in un mondo dove non basta avere un buon posizionamento. I paesi contano se hanno iniziativa e se dimostrano di avere capacità di esercitare un ruolo di leadership, almeno in alcune partite. Questo è mancato. La mia sensazione è che in questi anni non si è avuta una percezione forte della presenza e dell’iniziativa italiana. L’impallidirsi della nostra capacità di iniziativa e di proiezione ci fa pagare un prezzo. Una cosa è andare in Libano alla guida di una missione internazionale con un mandato delle Nazioni Unite, altra cosa è andare in Niger sotto il comando francese. Sulla questione palestinese, rispetto alla quale abbiamo sempre avuto una posizione chiara, abbiamo visto i francesi tentare di organizzare una conferenza internazionale di pace, anche con alcuni risultati. In Libia avremmo dovuto pretendere sin dall’inizio una gestione politica del problema perché lì ci sono interessi fondamentali del nostro paese. Su tutti questi fronti mi sembra sia venuta a mancare una incisiva proiezione dell’Italia, quando invece, soprattutto nel Mediterraneo, c’è una fortissima domanda di iniziativa italiana. D’altro canto penso che, pur con tutti i giganteschi problemi legati alla possibilità di un’azione internazionale dell’Unione europea, Federica Mogherini si sia mossa bene e che l’indirizzo della sua azione sia positivo. Di lei c’è una percezione positiva. Questo è indiscutibile.

A cura di F. F. e P. C.