Cose da fare, e da non fare, per l’economia italiana

Di Pierluigi Ciocca Mercoledì 14 Febbraio 2018 10:39 Stampa

Per tornare a far crescere l’economia italiana occorre intervenire su: riequilibrio del bilancio, investimenti pubblici, nuovo diritto dell’economia, profitto da produttività, perequazione distributiva, una strategia per il Sud, una diversa politica europea. Si tratta di interventi la cui realizzazione è affidata sia all’azione di politica economica sia alla risposta autonoma dei produttori; entrambe, finora, sono mancate. Solo così il paese ritroverebbe un sentiero di crescita del PIL nel lungo periodo dell’ordine del 2,5/3% l’anno.


Al di là dell’aumento del PIL nel 2017 – modesto, ciclico, temporaneo – il trend di crescita dell’economia italiana permane mediocre. Cumulate, le perdite di prodotto subìte in ciascun anno nell’ultimo decennio rispetto al livello del 2007 si aggirano sui 1000 miliardi di euro. Il PIL è tuttora del 6% al disotto del 2007. Lo è per carenza tanto di domanda quanto di produttività. Il vuoto di domanda è rispecchiato da un tasso di disoccupazione dal 2012 eccedente l’11% delle forze di lavoro e da un avanzo di bilancia dei pagamenti correnti pari al 3% del prodotto. Quest’ultimo non è dovuto alla competitività ma a un investimento inferiore al risparmio, che limita le importazioni e sospinge le esportazioni. Il vuoto di produttività è rispecchiato da un costo del lavoro per unità di prodotto dell’industria manifatturiera che, nonostante la moderazione salariale, sale in Italia mentre flette nell’area dell’euro.

Il ritorno alla crescita presuppone sette necessarie condizioni: a) riequilibrio del bilancio; b) investimenti pubblici; c) nuovo diritto dell’economia; d) profitto da produttività; e) perequazione distributiva; f ) una strategia per il Sud; g) una diversa politica europea. Sono affidate sia all’azione di politica economica sia alla risposta autonoma dei produttori. L’una e l’altra sono state sinora insufficienti. Se quelle condizioni si dessero, l’economia italiana potrebbe ritrovare un sentiero di crescita di lungo periodo dell’ordine del 2,5/3% l’anno. Sarebbe affidato in una prima fase soprattutto al pieno impiego delle risorse sottoutilizzate (a cominciare da 1,5 milioni di disoccupati in meno, rispetto agli attuali 2,8 milioni), in una seconda fase alla creazione efficiente di ulteriori risorse.

Vale chiedersi se e come quelle stesse condizioni siano realizzabili. Sarebbe utile che i partiti politici impegnati nella futura campagna elettorale ne dibattessero.

Riequilibrio del bilancio L’indebitamento netto della pubblica amministrazione è dal 2013 inferiore al fatidico 3% del PIL. Avvicinerebbe il 2% nel 2018. Il disavanzo strutturale – tenuto cioè conto della debole domanda globale – è minore (–1,3%, programmato per il 2018). Si situa sui livelli più bassi fra i paesi del Gruppo dei 7, esclusa la Germania il cui bilancio è in surplus e il cui debito pubblico discende verso l’altrettanto fatidico 60% del PIL. Il debito della Repubblica (130% del PIL) resta il più elevato d’Europa dopo quello greco (180%). Supera di 40 punti percentuali la media dell’area euro. L’equilibrio strutturale dei conti non è lontano. Va raggiunto, non solo per il rispetto della Costituzione. I tassi d’interesse prima o poi risaliranno dai valori nominali storicamente minimi dell’ultimo decennio. L’aumento rinnoverebbe i rischi di accumulo di debito e d’instabilità finanziaria e reale. Deve crearsi nel bilancio lo spazio per accrescere gli investimenti. L’economia, la società italiana ne ha assoluto bisogno. Riequilibrandosi il bilancio, la discesa del rapporto debito/PIL – attualmente programmata al 124% nel 2020 – sarebbe resa più sicura e rapida, anche grazie alla dinamica più sostenuta del PIL che le altre condizioni qui evocate consentirebbero.

Ai risparmi di spesa corrente – costi meno esosi per forniture e appalti, minori trasferimenti a imprese ed enti vari – devono unirsi i frutti di un vero contrasto alla scandalosa evasione-elusione d’imposte e contributi da parte di aziende e professionisti. Maggiori risorse per la PA comprese fra 1 e 2 punti di PIL sono reperibili in tempi ragionevoli.

Investimenti pubblici Gli investimenti fissi lordi della PA sono crollati al 2% del PIL: da 54 miliardi nel 2009 a poco più di 30 nel 2017. Non bastano neppure all’ammortamento, a mantenere l’esistente. Le infrastrutture materiali – comunicazioni, trasporti, utilities, reti – sono quindi drammaticamente scadute. La protezione da alluvioni, terremoti, frane, slavine di un territorio fragilissimo, dei beni e della stessa incolumità delle persone è gravemente manchevole, e così la tutela dell’ambiente e del patrimonio artistico e culturale del paese. Investimenti pubblici scelti secondo priorità ed efficacemente attuati avrebbero effetti moltiplicativi sulla domanda globale almeno doppi di quelli generati da maggiori spese correnti della PA (acquisti di beni e servizi), trasferimenti a famiglie (quali il bonus da 80 euro) e sgravi a imprese (quali quelli per una sussidiata, improduttiva occupazione). Il mero mutamento di composizione della spesa pubblica avrebbe forti effetti espansivi della domanda. Al tempo stesso, la produttività delle imprese sarebbe accresciuta e i loro costi ridotti da infrastrutture utili alle attività economiche. Gli investimenti pubblici inducono investimenti privati, pur essi crollati tanto che financo lo stock di capitale è sceso, del 9% dal 2009 al 2017. L’economia ne trarrebbe enorme beneficio sia dal lato della domanda sia dal lato dell’offerta. Va sottolineato che, dato il loro effetto positivo sul PIL e di riflesso sul bilancio (minori uscite, maggiori entrate), redditizi investimenti pubblici, al di là del breve periodo, si autofinanzierebbero.

Nuovo diritto dell’economia Nonostante parziali correzioni, l’ordinamento giuridico dell’economia è obsoleto. Tanto il livello quanto il tasso di crescita del prodotto verrebbero innalzati se il diritto rilevante per le imprese venisse riconsiderato e riformato. Occorre farlo movendo da una visione integrata delle finalità economiche assegnate a ciascuna branca dell’ordinamento e della potenziale complementarità fra di esse: societario (exit, più che voice, per gli azionisti, e valorizzazione della funzione imprenditoriale); fallimentare (incentivi all’allarme precoce, riallocazione delle risorse, minore ingerenza del giudice); processo civile (tempi brevi e prevedibilità dell’esito); amministrativo (sburocratizzazione, codice degli appalti, TAR più veloci); della concorrenza (dinamica e da innovazioni, non solo statica e da prezzi); del risparmio (meglio tutelato quando non speculativo, a cominciare dalle macchinose regole europee). Questi segmenti della cornice giuridica entro cui operano i produttori vanno deliberatamente posti al servizio dell’economia, nel rispetto dell’articolo 41 della Costituzione.

Profitto da produttività Dal crollo della lira nel 1992 e nel 1995 i profitti si sono realizzati anche quando la produttività scemava. Le imprese hanno atteso il profitto dal cambio deprezzato, dal salario moderato (accordo Ciampi del 1993, sino al Jobs Act recente), dalla spesa pubblica sempre abbondante, dai margini di evasione fiscale, dagli aiuti di Stato in varia guisa celati. La prospettiva delle vie facili al profitto è stata la determinante di fondo della deludente performance della produttività – perché cercarla? – presso le imprese italiane, anche manifatturiere, in primo luogo le più piccole e le maggiori. Nell’ultimo decennio, in particolare, è addirittura diminuita la produttività congiunta di lavoro e capitale: con le stesse risorse si è prodotto di meno. Non vi è stata innovazione. Le eccezioni sono divenute sempre più rare. Il motore della crescita economica di lungo periodo – accumulazione di capitale e progresso tecnico – è spento da anni. Va riacceso, stimolando le imprese a ricercare il profitto per questa via, la via maestra, di cui le imprese sono da ultimo responsabili. Esse devono convincersene, per sostenere la concorrenza, per la loro stessa sopravvivenza.

Perequazione distributiva La distribuzione delle risorse tra i cittadini italiani è iniqua. Il 30% delle famiglie è “a rischio di povertà”. L’indice di Gini, che misura la sperequazione nella distribuzione dei redditi, è alto (0,33), superiore alla media europea (0,31). È specialmente elevato nel Mezzogiorno (0,35). Ancor più diseguale di quella dei redditi è la ripartizione dei patrimoni. La mobilità sociale è bassa. Al di là del profilo equitativo, morale, ciò è di ostacolo alla crescita dell’economia. Riduce la possibilità della fascia meno abbiente della popolazione di attrezzarsi per contribuire al meglio alle attività produttive. Abbatte il capitale umano del paese. Alla maggiore progressività che il bilancio pubblico può esprimere deve unirsi un accentuato sforzo per offrire opportunità di studio e di lavoro qualificato a chi ne è privo, giovani e meno giovani, maschi e femmine.

Una strategia per il Sud La “questione meridionale” va concretamente di nuovo affrontata. È, da sempre, la principale, la più complessa. Va reimpostata come problema di crescita dell’intera Italia, particolarmente urgente nel Mezzogiorno. In alcune aree del Sud la disoccupazione supera il 20%. La questione non va più proposta come impossibile rincorsa del reddito pro capite del Sud rispetto a quello di un irraggiungibile Settentrione. Quanto auspicato nei cinque punti precedenti – e segnatamente l’investimento in infrastrutture, materiali e immateriali, la creazione di un contesto favorevole alla crescita – vale per l’intera Italia, ma va rivolto prioritariamente al Meridione. Deve connettersi a una pubblica amministrazione e servizi da paese civile e a una lotta senza quartiere, con ogni mezzo, alla criminalità e al malaffare.

Una diversa politica europea In Europa il problema non è l’euro. La moneta è ottima, perché stabile, domandata anche internazionalmente quale valuta di riserva, resistente persino all’irrituale tentativo della Banca centrale europea di ricercarne la svalutazione competitiva. Uscire dall’euro non converrebbe a nessun paese dell’eurozona. Significherebbe inflazione, distruzione di valori patrimoniali e impoverimento per gli italiani, attraverso il deprezzamento della lira (che non ha mai assicurato competitività alle merci made in Italy, se scadenti e costose). Ma significherebbe deflazione, disoccupazione e impoverimento dei cittadini nella stessa Germania, attraverso una smodata rivalutazione del marco. Il problema economico europeo è problema di governo intelligente, coordinato fra paesi, della domanda globale. Bisogna passare da un rigore di bilancio alla Hayek a un rigore di bilancio alla Keynes. L’investimento pubblico è, anche a livello europeo, la chiave di volta. La golden rule va ammessa, e praticata. Al di là del breve periodo non implica debito. Come Keynes ha chiarito, gli investimenti che generano reddito si autofinanziano. È solo questione di tempo. Contrariamente a quanto pensa chi non l’ha letto o capito, Keynes aborriva lo “scavar buche”, i disavanzi di bilancio, il debito pubblico. Proponeva cospicui investimenti pubblici, nel tendenziale pareggio del bilancio. Solo una composizione della spesa pubblica orientata alle uscite in conto capitale, non a quelle in conto corrente, può stabilizzare l’economia e favorirne lo sviluppo.

La stessa Germania ha invece volto dal 2013 in surplus un bilancio in deficit e ha ridotto il rapporto debito/PIL tagliando al 2% del prodotto gli investimenti pubblici, con depauperamento delle infrastrutture. Il ponte di Leverkusen sul Reno presso Colonia è arrugginito da anni, un simbolo negativo. Fino al 2017 l’economia tedesca è quindi cresciuta solo poco più dell’1% l’anno, meno del suo vero potenziale. È stata frenata dal lato della domanda, tanto che l’eccesso del risparmio sull’investimento ha fatto esplodere (sino all’8% del PIL) l’avanzo di parte corrente della bilancia dei pagamenti. Il paese ha così accumulato una posizione creditoria netta verso l’estero crescente, abnorme (2000 miliardi di dollari), lesiva delle regole europee, in stridente contrasto con qualunque nozione di burden sharing. Ne ha di riflesso risentito la domanda effettiva dell’intera area dell’euro. Ma ne ha pagato i costi in primo luogo il popolo tedesco. Questo “rigore keynesiano”, che in Europa interessi geopolitici e l’ortodossia – tedesca, ma non solo – hanno sinora respinto, deve affermarsi. Il rischio, altrimenti, è che con la prosperità dell’Europa naufraghi lo stesso progetto di un’Unione politica tra pari.