Cosa va e cosa non va nell’Italicum bis

Di Claudio Sardo Giovedì 20 Novembre 2014 16:40 Stampa
Cosa va e cosa non va nell’Italicum bis Disegno: Serena Viola

Archiviate le coalizione preventive, c'è spazio per rilegittimare i partiti. Ma lo si vuole fare davvero? Così le preferenze sono una beffa per gli elettori.


Il “patto del Nazareno” sembra resistere anche se cambia il suo contenuto. Continua a esserci molta più attenzione all’asse politico delle riforme che non al merito. Per diverse ragioni, non ultima il sospetto che Matteo Renzi intenda andare alle elezioni in primavera. Al quale Silvio Berlusconi risponde con una tattica attendista: prorogare il patto ma rallentarne l’esecuzione, con l’obiettivo non tanto di scongiurare il voto anticipato bensì di arrivare all’ormai prossima elezione del presidente della Repubblica con un consistente potere negoziale.

Eppure stiamo parlando delle fondamenta del sistema democratico. Eppure le modifiche ipotizzate dal premier alla legge elettorale, approvata in prima lettura alla Camera, sono tutt’altro che marginali. Eppure le contraddizioni e i difetti di questo Italicum bis pongono questioni di rilievo costituzionale, che da un lato riguardano i diritti dei cittadini e dall’altro gettano ombre sulla funzionalità e gli equilibri dell’intero sistema. Non si può che sperare che il Parlamento – non solo il PD, non solo la maggioranza – riesca a giocare un ruolo nella partita, a cominciare dal confronto nella commissione Affari costituzionali del Senato. Il tema non è il potere governativo da stabilizzare: solo chi sottovaluta la crisi democratica può pensare di cavarsela con scorciatoie istituzionali. Peraltro, è una pericolosa illusione costruire le leggi elettorali immaginando una staticità dei rapporti di forza e del consenso. Sono già cambiate molte convenienze dai tempi del primo Italicum, tanto che certi argomenti usati fino a ieri sono repentinamente scomparsi nella retorica dei laudatores


Rilegittimare il partito o affossarlo?

Quattro sono le modifiche più significative dell’Italicum bis, stando almeno agli annunci di Renzi: il premio di maggioranza viene assegnato al primo partito, e non più alla coalizione; la soglia per la vittoria al primo turno è elevata dal 37 al 40% dei consensi, in modo da rendere più probabile il ballottaggio; vengono inserite le preferenze, tuttavia la scelta dell’elettore vale solo per determinare la graduatoria dal secondo posto in giù perché il capolista resta bloccato e la sua elezione è dunque prioritaria rispetto a qualunque volontà degli elettori; lo sbarramento per accedere alla Camera si abbassa e si unifica al 3%, eliminando così quella giungla di soglie decisamente incompatibili con il principio di uguaglianza e parità del voto. Non è prevista invece alcuna modifica – e anche questo è un punto rilevante – nella struttura dei collegi elettorali, che restano cento e che eleggeranno ciascuno sei-sette deputati su una base media di 500.000 elettori. Per i resti, si ricorrerà al collegio unico nazionale.

Il trasferimento del premio al partito è certamente l’innovazione più significativa, e potenzialmente la più positiva del nuovo impianto. Le coalizioni preventive e infedeli sono state una delle malattie più gravi della cosiddetta seconda Repubblica. Sostenute da chi reclamava maggiore potere ai cittadini, anzi da chi invocava un’elezione diretta della maggioranza e del governo, le coalizioni preventive hanno invece prodotto un bipolarismo coatto e disfunzionale, rafforzando l’anomalia italiana (non è un caso che nessun sistema elettorale al mondo attribuisca premi espliciti o impliciti a soggetti diversi dai partiti) e, infine, riducendo il potere degli stessi cittadini. Lo scettro del sovrano non si è spostato verso gli elettori, ma verso leader di partiti personali. Le pseudo alleanze con premio sono diventate il surrogato di un presidenzialismo altrimenti incompatibile con la nostra Costituzione e le liste bloccate del Porcellum, con l’intero Parlamento “nominato” dai capipartito, hanno completato il furto di democrazia ai danni dei cittadini, senza peraltro portare alcun vantaggio sul piano dell’efficacia delle decisioni e della forza delle istituzioni.

Rimettere il partito al centro della competizione elettorale è dunque un’opportunità per chiudere davvero la seconda Repubblica. Finalmente l’Italicum bis marca una prima differenza di sostanza dal Porcellum (per favore, non si dica che la differenza sta nella certezza del vincitore, perché il premio di maggioranza c’era anche prima e semmai la certezza verrà rafforzata dalla riforma del bicameralismo, non dalla legge elettorale). Ma perché il partito sia rilegittimato come strumento di mediazione istituzionale e sociale, come spazio a disposizione dei cittadini «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», occorrono altre condizioni che la legge elettorale ancora non assicura e ulteriori norme che le riforme costituzionali attualmente non prevedono. Dare un premio – peraltro assai consistente – a un partito solo in modo da attribuirgli per intero la responsabilità di governo in un sistema che resta multipolare (e anzi lo sbarramento al 3% potrebbe allargare ancora il numero dei competitori e il pluralismo delle opposizioni) richiede una cura molto attenta degli equilibri democratici e dei meccanismi di garanzia, sia formali che sostanziali. Non si tratta di reiterare allarmi per le sorti della democrazia, il cui abuso li rende inevitabilmente più flebili: non va tuttavia dimenticato che l’Italia ha già avuto nella sua storia una legge elettorale che ha trasformato in maggioranza assoluta di seggi una maggioranza relativa di voti ottenuta da un singolo partito. Stiamo parlando della legge Acerbo. E, anche se non c’è alcun regime autoritario alle porte, non si può non trarre qualche utile riflessione da quell’esperienza e, ancor più, dalla successiva vicenda democratica. Sarebbe un errore, ad esempio, rivalutare i partiti solo in quanto corte, o derivazione di un capo. Sarebbe un errore accentuare il carattere leaderistico della competizione politica ed elettorale, fino a trasformare le stesse rappresentanze nelle istituzioni in compagini tendenzialmente monolitiche ed eterodirette. Un investimento così forte sui partiti, come prevede l’Italicum bis, richiede invece che finalmente si dia attuazione all’articolo 49 della Costituzione e che la trasparenza della vita interna, oltre che quella dei bilanci, venga assicurata da norme e garanzie pubbliche (tema colpevolmente assente nelle riforme costituzionali votate in Senato). Se il prezzo per rafforzare formalmente il partito e la sua responsabilità di governo fosse un ulteriore indebolimento della democrazia interna e una deregulation nella competizione elettorale si rischierebbe di compiere altri passi indietro. E di restare delusi anche stavolta sul piano della capacità decisionale: la fuga del potere dalle istituzioni democratiche non è un fenomeno che dipende in prevalenza da fattori endogeni ma, assai di più, dal dominio dei mercati finanziari sull’economia e delle oligarchie che governano le tecno-strutture globali. I partiti personali non sono un valido antidoto: potrebbe esserlo invece un circuito democratico funzionante, capace di tenere aperte le porte delle istituzioni alla società.

Il premio al partito richiederebbe insomma un ritorno, serio e misurato, del finanziamento pubblico, ovviamente accompagnato da severi controlli pubblici e sanzioni. Il premio al partito in un sistema non più bipolare impone inoltre seri contrappesi e garanzie istituzionali. Il governo monocolore che guiderà il paese sarà di norma espressione di una minoranza: perciò è necessario, anzi vitale, che le più alte figure di garanzia, a partire dal Capo dello Stato, non siano espressione meccanica dalla maggioranza parlamentare (gonfiata dal premio). Il compromesso raggiunto in Senato sulla platea dei grandi elettori è insufficiente: il peso dei deputati (e dunque del premio) tra i grandi elettori va decisamente ridotto.


Il paradosso delle preferenze

In questo contesto mostra tutte le sue criticità anche la soluzione delineata sulle preferenze. Con i capilista bloccati, la metà dei deputati sarà di fatto nominata dai capipartito. Peraltro si determinerebbe una singolare anomalia: le preferenze varrebbero quasi soltanto per il partito vincitore, il cui gruppo parlamentare sarebbe composto per cento unità dai capilista designati e per oltre duecentoquaranta unità dai candidati scelti dai cittadini. Per i partiti destinati all’opposizione, invece, le preferenze scatterebbero solo nel caso si superi la soglia dei cento eletti, oppure in seguito alle opzioni dei capilista candidati in più collegi (tra le storture dell’Italicum bis c’è anche l’estensione della candidatura multipla, criticata dalla Corte costituzionale, ma resa possibile addirittura fino a dieci collegi). Gli effetti distorsivi di questa asimmetria nella rappresentanza tra maggioranza e opposizioni potrebbero essere molteplici, compreso un rallentamento del ricambio politico nei partiti sconfitti alle elezioni. In ogni caso, non ha molto senso ripristinare le preferenze stabilendo già in premessa che per la maggioranza degli elettori la loro scelta sarà del tutto inutile. Si potrebbe consigliare ai parlamentari una rilettura della sentenza, con la quale la Consulta ha dichiarato illegittimo il Porcellum proprio nella parte in cui impediva «una scelta più chiara e consapevole anche in riferimento ai candidati». Ma la questione cruciale non può sfuggire a nessuno: affidare ai cittadini la scelta dei parlamentari, rafforzare dunque il legame eletto-elettore, è in sé un contrappeso allo strapotere dei capipartito. Se un singolo partito viene destinato a gestire da solo il governo del paese, l’equilibrio democratico va trovato non solo nei poteri di controllo delle opposizioni, non solo nelle procedure per l’elezione degli organi di garanzia, ma anche in una relativa autonomia del Parlamento, fondata sull’autorevolezza dei suoi componenti, che appartengano alla maggioranza o alle minoranze.


Il cortocircuito dei troppi collegi

Sarebbe questo un freno all’azione del governo e alla rapidità delle decisioni? Solo chi non conosce gli ordinamenti degli altri Stati democratici può sostenerlo. Peraltro, nella riforma del bicameralismo, sono inseriti validi strumenti per potenziare l’iniziativa del governo nelle Camere. Sull’Italicum bis si è già detto che l’unificazione delle soglie di accesso era assolutamente necessaria, pena una deformazione del tutto irrazionale della rappresentanza (un sacrificio al criterio proporzionale può essere richiesto in nome della governabilità, oppure per evitare la frammentazione più estrema, ma non ha senso penalizzare oltre misura chi è destinato all’opposizione). E anche l’innalzamento della soglia per il ballottaggio risponde a un criterio razionale, per quanto sia sempre discutibile il ricorso al doppio turno in un sistema sempre più multipolare. Ciò che invece appare poco comprensibile è la forzata coesistenza tra collegi medio-piccoli e il recupero nazionale dei resti. Tutte le simulazioni, comprese quelle realizzate dagli uffici di Montecitorio, dimostrano che gli esiti per i partiti intermedi sono casuali e assai lesivi per i loro elettori. Cosa accade? Che, mentre la distribuzione dei seggi per i partiti maggiori è generalmente ordinata e rispettosa dei consensi ottenuti nei diversi territori, alle liste più piccole vengono assegnati i seggi residui, spesso nei collegi dove ottengono il minor numero dei voti. Gli elettori sono così doppiamente beffati: la loro preferenza non conta nulla e il loro voto al partito penalizza il destinatario. Non ci vuole un grande matematico per capire che cento collegi non sono compatibili con il collegio unico nazionale per i resti. Il legislatore può intervenire riducendo il numero dei collegi. Oppure affrontando in modo diverso sia il capitolo delle preferenze che quello dei collegi: si potrebbero prevedere, come nel Mattarellum, piccole liste bloccate per una quota limitata di parlamentari (allora era il 25% dei seggi), e lasciare invece che siano i cittadini a scegliere liberamente la maggioranza degli eletti. Nel partito più grande come in quelli più piccoli. Le trattative sulla legge elettorale hanno fin qui dimostrato che Renzi e il PD hanno ampi margini di correzione, solo che lo vogliano davvero.

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