Per chi ha conosciuto Enrico Berlinguer e lo ha vissuto come una guida nel corso della sua giovinezza, ricordarlo non è soltanto un dovere ma è anche l’occasione per ripensare a una personalità straordinaria in grado di trasmettere un messaggio anche al mondo di oggi.
Egli è stato uno dei maggiori protagonisti della storia dell’Italia repubblicana e, certamente, nella generazione che venne dopo quella dei padri fondatori è stato, insieme ad Aldo Moro, il protagonista più significativo.
Il libro di Simone Oggionni, “Lucio Magri. Non post-comunista, ma neo-comunista”, pubblicato da Edizioni Efesto, ripropone la discussione sulla radiazione dal PCI del Manifesto (nelle celebrazioni sul centenario di quel partito si dimentica spesso il “caso” del 1969) e sul percorso teorico/politico di Lucio Magri (Ferrara 1932-Bellinzona 2011), che fu uno dei leader di quel gruppo. L’onda lunga del 1968 studentesco e del 1969 operaio apparve ai promotori del mensile “il manifesto” – Magri ne fu direttore con Rossana Rossanda – l’occasione giusta per proporre al Partito comunista l’opportunità di una discussione sul neocapitalismo italiano negli anni del boom economico, sulle esperienze e i limiti evidenti delle società del “socialismo reale” a iniziare dall’URSS (era in corso la crisi cecoslovacca) e sulla “forma partito” in una società che andava mutando socialmente a grande velocità e di cui il PCI faceva fatica a prendere le misure.
Il modo in cui il Partito Comunista Italiano ha vissuto il periodo successivo al crollo del Muro di Berlino costituisce un caso di grande interesse analitico, anche per alcune analogie rintracciabili con quanto avvenuto nei sistemi politici dell’Europa orientale. Un’analisi approfondita mostra tuttavia che una reale comprensione di come il PCI abbia interpretato la svolta del 1989 non sia possibile senza considerare l’originalità dell’esperienza storico-politica italiana.