Enrico Berlinguer, 100 anni

Written by Massimo D'Alema Thursday, 26 May 2022 11:00 Print
Enrico Berlinguer, 100 anni ©iStockphoto/silentstock639

Per chi ha conosciuto Enrico Berlinguer e lo ha vissuto come una guida nel corso della sua giovinezza, ricordarlo non è soltanto un do­vere ma è anche l’occasione per ripensare a una personalità straordi­naria in grado di trasmettere un messaggio anche al mondo di oggi.

Egli è stato uno dei maggiori protagonisti della storia dell’Italia re­pubblicana e, certamente, nella generazione che venne dopo quella dei padri fondatori è stato, insieme ad Aldo Moro, il protagonista più significativo. Nello stesso tempo, Berlinguer è stato il leader del più grande partito comunista dell’Occidente, riferimento indiscusso di un comunismo eretico distinto e via via sempre più contrapposto rispetto al modello sovietico. Stiamo parlando della prima Repub­blica e stiamo parlando del comunismo, cioè di due mondi che non ci sono più. Il mondo di Berlinguer si è dissolto. Si è dissolto, in realtà, pochi anni dopo la sua morte. La singolarità della sua vicenda politica e umana sta nel fatto che egli ebbe una percezione acuta, direi drammatica, della crisi del suo mondo, e tutto il suo impegno fu quello di cercare una risposta a questa crisi. Innanzitutto alla crisi della democrazia italiana attraverso una rigenerazione dei partiti e del loro rapporto con la società e anche alla crisi del comunismo, cer­cando di mettere in campo il progetto utopistico di un comunismo democratico. Egli fu sconfitto. È un leader sconfitto nel suo duplice tentativo di salvare la Repubblica dei partiti, rifondandola, e di dare una prospettiva diversa al movimento comunista.

Tuttavia nella sua battaglia egli fu in grado di gettare dei semi, di mettere in campo dei pensieri lunghi che andavano oltre il suo tem­po. È stato definito come un uomo politico che non vedeva bene le cose del suo tempo ma seppe spingere lo sguardo oltre il tempo che viveva. Ha lasciato una traccia, che fa sì che la figura di Berlinguer sia in grado di parlare anche al mondo di oggi e persino a una gene­razione che non lo ha mai conosciuto e che lo ha scoperto soltanto attraverso la memoria dei padri o il racconto dei nonni.
Naturalmente non è facile parlare di Berlinguer per chi lo ha vissu­to e per chi ha mantenuto nella propria vita l’impronta, il fascino della sua personalità, che era molto legato al contrasto tra l’appa­rente fragilità, la timidezza, il garbo che aveva nel rapporto umano e la forza estrema della sua personalità, persino la sua testardaggine e il suo candore. Era un uomo abbastanza incredibile come politico; potrei abbandonarmi a una vasta aneddotica e raccontare del suo senso dell’ironia, che non appariva molto in pubblico ma era molto profondo, della sua onestà candida. Ricorderò per tutta la vita una mattina a Milano, scendendo nell'albergo che ospitava la direzione del partito in occasione della festa nazionale de “l’Unità”, andando a fare colazione incontrammo la Juventus e – eravamo all’apice della popolarità di Berlinguer – tutta la squadra e Boniperti si fecero in­torno per dire che loro si sentivano onorati che lui simpatizzasse per la Juventus, che non era vero, ma tuttavia in quel momento, un mo­mento nel quale qualsiasi uomo politico avrebbe sorriso e si sarebbe preso il complimento, Berlinguer disse: «No, no – in un modo imba­razzante – io tifo per il Cagliari». Era incredibile, ma non poteva ac­cettare la menzogna, in nessuna forma, neanche quando questa era, in fondo, innocente e conveniente. Chi ha conosciuto Berlinguer e lo ricorda così da vicino fa fatica a parlarne con il distanziamento critico nella dimensione di un giudizio storico.

Tornare a pensare a Berlinguer suscita un sentimento pericoloso che è la nostalgia. Nostalgia è una parola molto complessa perché ha dentro la sua radice il dolore, è quasi come se fosse una malattia: la nostalgia, la sciatalgia, la nevralgia; quindi è una parola da maneg­giare con cura. Io mi sono informato sulla nostalgia, perché capita a questa età di essere presi dalle nostalgie, e ho scoperto con grande conforto per me che le ricerche più recenti sulla nostalgia, e qui cito un saggio clinico molto importante, dicono che: «la nostalgia è una risorsa esistenziale e che quel tanto di tristezza che porta con sé si mescola insieme all’appagamento per quello che si è vissuto e quindi migliora l’umore». Quindi io mi abbandono felicemente alla nostal­gia, confortato dalla ricerca clinica più recente, che rende la nostalgia accettabile, migliora l’umore e migliora – pare – anche la convivenza con gli altri. Ma uscendo da queste considerazioni personali, vorrei tornare al periodo storico su cui ho concentrato la mia riflessione, che è il periodo storico di cui Berlinguer è stato un grande protago­nista e che va dal 1968 fino al momento in cui Berlinguer morì, il 1984. Sono quindici anni cruciali della storia d’Italia e della storia del mondo, che vanno, per quanto riguarda il mondo comunista, dalla Primavera di Praga fino alla nomina di Černenko alla guida del PCUS, di cui noi fummo testimoni, perché Berlinguer era a Mosca e io lo accompagnai insieme a Paolo Bufalini. Sono i quindici anni in cui, dalla sconfitta del grande tentativo di dare vita a un comuni­smo diverso a Praga, schiacciato dai carri armati, fino a Černenko, si consuma il declino, l’esaurimento della spinta propulsiva della Ri­voluzione d’Ottobre. In Italia sono gli anni che segnano l’apogeo e l’inizio della sconfitta del Partito comunista, l’ascesa, sull’onda delle lotte del 1968, delle lotte operaie del 1969 che il Partito comunista seppe interpretare e poi la sconfitta della solidarietà nazionale, l’ini­zio di un’altra stagione.

Come visse Berlinguer la vicenda del mondo comunista? Berlinguer era sostanzialmente estraneo al mondo sovietico, estraneo per cultu­ra, persino per antropologia; quel mondo gli dava fastidio. Ho ricor­dato in un libro pubblicato vent’anni fa, nel ven­tesimo anniversario della morte di Berlinguer, che durante il viaggio a Mosca per i funerali di Andropov, il suo ultimo viaggio a Mosca, nel freddo febbraio del 1984, Berlinguer era talmen­te infastidito dall’idea che lo fotografassero con il colbacco che si era portato da casa un cappellino tirolese, abbastanza ridicolo in quel contesto, ma dal quale non volle mai separarsi, al punto che, siccome quando noi arrivammo, nel caos i nostri bagagli si erano smarriti, lui rifiutò di uscire dall’albergo fino a che non ebbe il suo cappellino, perché non voleva essere fotografato col colbacco. Ma non era solo questo che lo separava da quel mondo. Ricordo benissimo una sera a casa di Giulietto Chiesa, conversando del mondo che doveva venire, lui dis­se: «Questo mondo non ha futuro». Da quel mondo Berlinguer era considerato un avversario, un avversario pericoloso, e fu combattuto con ogni mezzo.

È stato ricostruito come i sovietici abbiano finanziato e sostenuto ogni forma di opposizione a Berlinguer nel nostro paese, e secondo la testimonianza più recente di Emanuele Macaluso, anche il terribile incidente in cui Berlinguer rischiò di perdere la vita in Bulgaria, che è sempre stato circondato da un certo mistero, non sembrerebbe essere stato un fatto casuale. Berlinguer di fronte alla crisi del movimento comunista si sforzò di elaborare una nuova visione dell’internazio­nalismo, moltiplicando le relazioni tra il PCI e i movimenti di libe­razione del Terzo mondo e le socialdemocrazie. Una nuova visione del comunismo che egli chiamò eurocomunismo, intesa a proporre una conciliazione tra comunismo e democrazia. Questa sua opera non ebbe successo, l’eurocomunismo sostanzialmente naufragò, ma lasciò un segno anche nel mondo sovietico. Certo i risultati arriva­rono troppo tardi, ma Gorbaciov, ad esempio, disse apertamente di considerare Berlinguer, che egli non conobbe mai, come una fonte d’ispirazione per le scelte coraggiose che compì e che posero fine al sistema sovietico. Il paradosso della vicenda di Berlinguer è che mentre egli allargava le relazioni del suo partito e si muoveva su un terreno nuovo, rimase sempre legato a una ispirazione comunista. Forse alcuni di voi ricordano quello che lui disse a Minoli, quando interrogato su ciò che lo rendeva di più orgoglioso, rispose: «Essere sempre rimasto legato agli ideali della mia giovinezza».

In questo modo, via via, il PCI di Berlinguer si trovò a essere sem­pre più isolato nel movimento comunista, ma mai sostanzialmen­te accolto nella sinistra democratica europea. Questo fu, se volete, il fascino, ma anche il limite della sua esperienza. Il paradosso del tempo di Berlinguer è che il PCI, che si era ricostituito in Italia nel segno del realismo togliattiano – Togliatti seppe stare contemporane­amente con Stalin e con Badoglio – si trovò a essere una forza isolata nel segno dell’utopia berlingueriana, perché Berlinguer ruppe con i sovietici sostanzialmente e non convinse gli americani che rimasero diffidenti e ostili verso una forza che manteneva un’impronta comu­nista. Quindi nel momento più difficile e cruciale della storia della Repubblica, cioè la seconda metà degli anni Settanta, il PCI si trovò a essere sostanzialmente isolato e a dovere fare i conti con la ostilità e la diffidenza delle due maggiori potenze. Questo destino accomunò Berlinguer ad Aldo Moro, perché anche nei confronti di Moro ci fu l’ostilità e la diffidenza delle due maggiori potenze, e per un paese come l’Italia, che è sempre stato, nella fragilità della sua identità na­zionale, molto dipendente dagli equilibri internazionali, questo pesò molto. Lo dico perché credo che la storiografia forse ha riflettuto poco su questo aspetto, e fu una delle ragioni per cui presero forza in Italia fenomeni eversivi, che arrivarono a minacciare la democra­zia, e una delle ragioni per cui fallì il tentativo che accomunò Moro e Berlinguer di rigenerare il sistema democratico nello spirito della costituzione del 1948.

Il compromesso storico fu chiamato da Berlinguer un “nuovo” com­promesso storico e il riferimento era alla costituzione del 1948, cioè l’intesa che era a fondamento della Repubblica democratica. Quan­do egli, parlando con Scalfari, spiegò cos’era il compromesso storico non disse che era fare il governo tutti insieme, disse che era ritro­vare uno slancio comune di tutte le forze politiche per rigenerare e rinnovare il nostro paese, poi maggioranza e opposizioni avrebbero potuto cambiare, ma nell’ambito di un ritrovato slancio comune per rinnovare e rigenerare il no­stro paese. Questo tentativo fallì. Ma in realtà, io credo, il grande problema italiano nel corso degli anni Settanta era quello di offrire al paese la possibilità di un’alternativa democratica e di una fuoriuscita da una democrazia bloccata in cui, contrariamente alla massima cinica dell’onore­vole Andreotti per cui il governo logora chi non ce l’ha, la fissità dei ruoli, l’assenza di un ricam­bio di classe dirigente finì in realtà per logorare, nel suo insieme, il sistema democratico. Il PCI non fu in grado di dare una risposta a questa esigenza, e non fu in grado di farlo perché rimase prigioniero della sua identità di forza comunista. Dopo il 1968, infatti, il cambiamento politico avviene in quasi tutti i grandi paesi europei. È dopo il 1968 che la socialdemocrazia con Willy Brandt va al governo in Germania dopo che in tutto il dopoguerra avevano governato i conservatori, ed è dopo il 1968, anche se con un certo ritardo, che Mitterand vince le elezioni e per la prima volta la sinistra va al go­verno in Francia.

Quello che avviene nel resto d’Europa fisiologicamente, dopo il pre­dominio dei conservatori nel dopoguerra, in Italia non avviene. E non può avvenire perché la sinistra italiana non è in grado di offrire al paese questa possibilità e la crisi della sinistra italiana si consuma nel conflitto fra i due duellanti: Berlinguer e Craxi. L’Italia aveva bi­ sogno di una sinistra capace di essere radicata nella società, capace di rappresentare il mondo del lavoro ma anche il nuovo spirito pubbli­co che si era formato dopo il 1968 e questo era Berlinguer; il leader in grado di interpretare tale bisogno di cambiamento della società italiana, quindi una visione nuova della politica, era Berlinguer. Ma l’Italia aveva anche bisogno di una sinistra capace di costruire un’al­ternativa politica di governo, di mettere da parte l’impianto con­sociativo che si era costruito nel rapporto tra i partiti e individuare anche le necessarie innovazioni di carattere istituzionale in grado di favorire il ricambio della classe dirigente, e questi furono i problemi posti da Craxi. In realtà, paradossalmente, questi due leader presen­tavano le due facce di una esigenza che non seppe mai comporsi in un disegno unitario, ma sì lacerò in un conflitto drammatico. L’esito fu che la sinistra dei valori di Berlinguer rimase prigioniera di una idea della diversità comunista improduttiva della svolta politica ne­cessaria per il paese e la sinistra della governabilità di Craxi, separata dai valori, affondò nella melma del vecchio sistema di potere. Questo è stato il dramma della sinistra italiana degli anni Ottanta.

Io fui assolutamente partigiano in quegli anni, e non me ne pento. Ma oggi, che è passato molto tempo, credo che si debba guardare con maggiore distacco alle ragioni di una sconfitta le cui responsa­bilità non stavano da una parte sola. Quella sconfitta della sinistra, quella incapacità della sinistra di provvedere al compito storico di costruire un’alternativa alla Democrazia Cristiana e ai suoi governi, è stata una delle cause del modo in cui è caduta la prima Repubblica. Una riflessione storica è tornata in questi mesi, anche nell’anniver­sario di Mani Pulite, a ragionare sul modo in cui è caduta la prima Repubblica, cioè al segno antipolitico che ha avuto quella crisi di rigetto del sistema dei partiti nel suo insieme e al prezzo che il paese ha pagato, e tuttora paga, a quella impronta antipolitica che ha prodotto la fine della Repubblica dei partiti. Vedete, è passato molto tempo, ma forse ora possiamo capire, guardando proprio all’Italia di oggi, perché una personalità come Enrico Berlinguer, un uomo del quale ho descritto le battaglie e le sconfitte, molto sommariamente, possa avere un significato. Credo che queste ragioni siano sostan­zialmente tre. La prima è che il paese avverte un bisogno di tornare alla politica, dopo anni di logoramento dei partiti e delle istituzioni. Anche le crisi che stiamo vivendo, la pandemia, la guerra, rimettono in campo un bisogno di politica. L’idea che la politica sia un mestiere inutile, un lavoro di gente che non ha niente da fare, che bisogna lasciare il campo alla società civile – abbiamo avuto un tempo in cui le persone facevano le campagne elettorali per diventare il sindaco, e io me ne ricordo una, con i manifesti che dicevano “votate per me, non sono un politico”. Benedetto Croce, in una pagina indimenti­cabile, paragonava questa affermazione a quella di uno che dicesse: “fatevi operare da me, non sono un chirurgo”. Oggi si torna ad avere un bisogno della politica e Berlinguer è stato un uomo politico, un uomo che ha saputo unire la politica alla vita, alle passioni, ai senti­menti delle persone più semplici, ma è stato un politico a tutto ton­do, con un’idea austera, seria della politica, dell’organizzazione, della formazione della classe dirigente, della selezione dall’alto della classe dirigente. Il Partito comunista era una scuola, così come dall’altra parte, le organizzazioni cattoliche erano scuole di formazione e di selezione. Tutto questo non c’è più, e probabilmente in quelle forme non potrà rinascere. Tuttavia il paese avverte il bisogno che torni a esserci una classe dirigente che abbia una formazione politica e che non sia semplicemente l’espressione casuale della cosiddetta società civile, che è stata acriticamente esaltata per molti anni, e di cui conosciamo qualità e difetti.

La seconda ragione di questa “attualità di Ber­linguer” è legata al suo sforzo di ridare un fon­damento ideale al suo partito, nel momento in cui il suo fondamento originario veniva estin­guendosi, perché anche noi eravamo figli della Rivoluzione d’Ottobre e quando si esaurì quella spinta propulsiva questo non valeva solo per loro, valeva per tutti. Nel suo sforzo di inventarsi un comunismo nuovo, Berlinguer ha sviluppato una critica acuta e intelligente del capitalismo con­temporaneo, che si è spinta molto oltre i confini culturali della tra­dizione comunista e marxista. È stato il leader politico, ad esempio, che ha capito in modo più profondo la portata rivoluzionaria della nuova coscienza femminile. È stato il primo leader della sinistra tra­dizionale a comprendere la portata del tema ambientale, del rapporto uomo-natura. È stato uno dei primi uomini politici – ricordo una sua straordinaria intervista nell’anniversario di “1984” di Orwell – a porsi il problema del rapporto tra umanità, persona e nuove tecnologie; anche perché questo tema della persona era fortissimo in lui, per l’at­tenzione che ebbe sempre al mondo cattolico, concependo per la pri­ma volta nella storia del PCI il tema del rapporto con i cattolici non come tema di alleanza, ma come comunanza di valori. Oggi, svanita la grande ubriacatura della globalizzazione capitalistica che avrebbe risolto tutti i problemi, noi riscopriamo il peso delle diseguaglianze, le aree di marginalità, di infelicità. Vediamo quanto è determinante la questione della sostenibilità per una strategia di sviluppo che non può più non porsi questo problema. Insomma, torna il bisogno di una cultura critica della società attuale che non sia prigioniera di miti escatologici, ma che sia comunque in grado di nutrire la politica di una critica dell’esistente, perché senza una visione critica dell’esi­stente non c’è un progetto di cambiamento, non c’è la politica, c’è soltanto la gestione amministrativa della realtà.

Infine, io credo, Berlinguer ci parla anche per le sue qualità umane. Nei momenti di crisi, come quello che noi oggi viviamo, nella società si fa molto forte il bisogno di riferimenti ideali e anche di personalità in grado di rappresentare una guida e un esempio. Berlinguer è stato una personalità straordinaria, «un uomo non scisso – scrisse Giusep­pe Fiori – non solo un predicatore di giustizia, ma un uomo giusto». Una persona che quando diceva qualcosa potevi essere d’accordo o meno, ma la percezione che egli dicesse esattamente quello che pensava era universale, cioè la percezione di una persona autentica, che gli attirò la stima e la considerazione direi universale del paese. Ricordo ancora con una certa emozione quando Pajetta si precipitò di corsa da Botteghe Oscure, dove stavamo, perché ci avevano detto che Almirante si era messo in fila in mezzo ai comunisti per rendere omaggio alla salma di Berlinguer e noi avemmo paura che succedesse qualcosa. Pajetta scese e accompagnò il capo del Movimento Sociale, che sentiva il dovere di rendere omaggio alla salma del segretario del Partito comunista. Una cosa che nell’Italia di oggi sarebbe difficil­mente pensabile.

La sua battaglia contro lo spirito del tempo, la fedeltà ai suoi ideali, ne hanno fatto una figura in grado di comunicare un messaggio di speranza, di coerenza, reso ancora più forte dal fatto che egli portò il suo impegno, la sua dedizione fino all’ultimo sacrificio. Il fatto che sia “morto in battaglia” lo rende eterno. E quella immagine di Ber­linguer che barcolla sul palco, ma vuole finire il suo comizio è un’im­magine terribile ma anche straordinaria. Io che gli ho voluto bene, non voglio lasciarlo con questa immagine, ma con un’altra molto più bella. Quando Giovanni Minoli gli chiese: «Qual è la critica che la disturba di più?». Lui rispose: «Quando dicono che sono triste – e aggiunse – perché non è vero». E sorrise. Quel sorriso è il ricordo di Berlinguer che porto con me.

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