La Russia di Putin: amore e odio per l'UE

Written by Silvio Pons Monday, 02 May 2005 02:00 Print

L’allargamento dell’Unione europea ha costituito una risorsa strategica essenziale, ma tende ormai a raggiungere il suo limite, presentando sempre più nettamente e inevitabilmente un aspetto inclusivo e uno esclusivo: mira non più soltanto a muovere lo spazio dell’UE, ma a stabilire un confine. Oggi vediamo che a Est questo confine è giunto a includere lo spazio dell’ex URSS oltre gli Stati baltici e fino all’Ucraina, escludendo la Russia. Nell’architettura dell’UE ciò è pienamente comprensibile. Ma proprio la Russia diviene così un test essenziale per la futura politica estera dell’UE, molto più di quanto le «politiche di prossimità» sembrano prevedere.

 

L’allargamento dell’Unione europea ha costituito una risorsa strategica essenziale, ma tende ormai a raggiungere il suo limite, presentando sempre più nettamente e inevitabilmente un aspetto inclusivo e uno esclusivo: mira non più soltanto a muovere lo spazio dell’UE, ma a stabilire un confine. Oggi vediamo che a Est questo confine è giunto a includere lo spazio dell’ex URSS oltre gli Stati baltici e fino all’Ucraina, escludendo la Russia. Nell’architettura dell’UE ciò è pienamente comprensibile. Ma proprio la Russia diviene così un test essenziale per la futura politica estera dell’UE, molto più di quanto le «politiche di prossimità» sembrano prevedere.

La Russia non costituisce oggi una priorità di politica internazionale per nessuno dei principali attori globali, e a sua volta non gioca veramente questo ruolo pur rivendicandolo. È un paese largamente dipendente dalle risorse finanziarie, commerciali, tecnologiche occidentali per la sua rinascita economica, e la partnership con l’UE gioca un ruolo di primo piano su questo aspetto. La sua classe dirigente, e ancor più la sua opinione pubblica, continuano a reclamare un’identità europea, senza rinunciare a una dimensione statuale e geopolitica distinta dall’UE. Non esiste più una minaccia russa per l’Europa, e l’intervento occidentale nell’ex Jugoslavia ha messo in evidenza la debolezza della reazione russa dinanzi a una crisi che chiamava in causa direttamente tradizioni consolidate del ruolo russo negli affari internazionali. Nell’Europa centroorientale i limiti dell’influenza di Mosca sono così evidenti da non richiedere commenti: la recente vicenda dell’Ucraina li ha sottolineati impietosamente. In sintesi, la Russia è molto meno importante per l’Europa di quanto l’Europa lo sia per la Russia. Dopo tutto, la realtà alla quale ci stiamo abituando è quella di una Russia ripiegata su se stessa e che non costituisce in nessun modo una sfida (una realtà scontata ai nostri occhi, eppure inedita per chi abbia memoria del secolo scorso). Tutto ciò ha consentito di considerare trascurabile il suo allontanamento dall’Europa, che appare il risultato delle modalità concrete del processo di allargamento dell’UE.

In questo processo il ruolo dell’Italia è stato negli ultimi anni inconsistente, fondato su una vaga strategia di relazioni amichevoli con tutti gli attori principali (dall’asse filo-atlantista con la Polonia al tentativo di creare una special relationship con Putin fondata sulle relazioni personali), che appare priva della consapevolezza degli scenari reali. L’agenda europea è stata invece efficacemente influenzata dalla Polonia e dagli Stati baltici tramite il disegno di stabilire il confine orientale dell’UE nei termini più esclusivi: un disegno che dà per scontata l’incongruenza civile e politica della Russia e perciò non si preoccupa troppo di alimentarla, favorendo la crescente divergenza tra le legittime aspirazioni europeiste dei paesi dell’ex URSS, da una parte, e le frustrazioni post-imperiali della Federazione russa, dall’altra. Qui si crea però un paradosso. La promessa di democrazia e di benessere che accompagna l’allargamento europeo non soltanto non tocca la Russia, e si compie anzi mentre la Russia sta imboccando una strada diversa, ma addirittura può essere vista come un fattore che contribuisce a quella che viene percepita come un’involuzione russa. C’è da dubitare che sia questo l’interesse autentico dell’UE. Non è indifferente avere alle frontiere una Russia sufficientemente prospera e cooperativa, più affidabile quale Stato di diritto, svincolata dal retaggio imperiale, oppure una Russia oscillante tra partnership strumentali, senso di esclusione e nazionalismo post-imperiale.

Nel vertice tra Bush e Putin tenutosi lo scorso febbraio a Bratislava si è delineato un cambiamento dell’atteggiamento americano nei confronti della qualità democratica del partner russo, che sembra annunciare un motivo del secondo mandato del presidente americano in politica estera e una sfida in più per l’UE. È da vedere se questa saprà raccoglierla. Per il momento, è facile constatare che né gli incontri di Chirac e di Schroeder con Putin del mese di marzo, né il summit tra UE e Russia del mese di maggio hanno segnato una strategia di alto profilo. Così la novità principale sulla quale richiamare l’attenzione è piuttosto rappresentata dall’atteggiamento di Putin. A Bratislava e anche più recentemente, questi ha presentato l’impegno democratico come una scelta irreversibile, legata agli interessi vitali del proprio paese, e non ha opposto il tradizionale argomento della non ingerenza negli affari interni. Ha invece insistito sul fatto che la democrazia va adattata alle diverse realtà nazionali, alludendo alla inclinazione russa a privilegiare l’ordine e il prestigio dello Stato su ogni manifestazione di disgregazione e di disordine. Ha così invocato una fonte di legittimazione della propria azione centralizzatrice che è, nel contempo, un netto rifiuto di ogni spinta democratica universalistica. È probabile che questa risposta di Putin dia ragione a chi sostiene che pressioni pubbliche come quelle ora adottate da Bush possano piuttosto sortire l’effetto contrario. Ma il punto è che le parole pronunciate da Putin a Bratislava segnano un limite alla partnership strategica della Russia con l’Occidente, apparentemente inaugurata dopo l’11 settembre. Non soltanto la politica estera adottata da Putin nell’area post-sovietica e in Medio Oriente, ma anche la sua rivendicazione di legittimità per una democrazia autoritaria mostrano oggi il carattere prevalentemente strumentale della politica russa verso l’Occidente.

Di conseguenza, la Russia propone una spinta verso un multipolarismo fondato sulla diversità politico-culturale e sulla politica di potenza, potenzialmente incompatibile con la prospettiva multilateralista che è inscritta nella vocazione stessa del ruolo internazionale dell’UE. Il relativo attivismo della politica russa verso la Cina e l’India (e di recente, persino verso la Turchia) deve essere visto in questa luce, cioè come la ricerca di spinte convergenti più che di alleanze strategiche. L’evoluzione della politica internazionale dopo l’11 settembre ha dato un contributo essenziale a questa evoluzione della politica di Putin. Da un lato, la tendenza alla militarizzazione della «guerra al terrorismo» in Iraq ha favorito la volontà putiniana di internazionalizzare la guerra in Cecenia legittimando i metodi militari russi: sotto questo profilo, l’alleanza con Chirac e con Schroeder non ha avuto alcun significato politico stabile, se non quello di rafforzare una visione multipolare implicitamente più radicale di quella neo-gollista. Dall’altro lato, l’ondata democratica nei paesi dell’ex URSS si è verificata proprio mentre la Russia limitava la portata delle sue riforme politiche, anche come conseguenza della piaga cecena e del suo portato terroristico. Questi due elementi presentano una convergenza significativa, che si innesta su un processo a più lungo termine.

Oggi giungono infatti a compimento due aspetti fondamentali della transizione russa. Il primo è costituito dalla nascita di un potere forte, che mette fine alla debolezza dell’istituto presidenziale sin dall’epoca della sua instaurazione e che ha rivolto tutte le sue energie a evitare una dissoluzione della Federazione. Il secondo è costituito dall’isterilirsi di quel tanto di pluralismo politico e di democrazia parlamentare esistiti dopo il crollo dell’URSS. In realtà, il consolidamento dell’istituto presidenziale non costituisce una mera affermazione di potere personale, ma riflette una restaurazione dell’autorità dello Stato dopo un periodo di pericolosa disgregazione tra interessi privati e potentati. Ma il punto è che Putin sembra offrire una soluzione diversa da quella dei suoi predecessori: abbandonare il tentativo di coniugare l’introduzione del mercato con una radicale riforma del sistema politico e restaurare piuttosto l’autorità dello Stato.

In questo senso, la sua ascesa chiude una fase della storia russa che era stata aperta da Gorbacev, mentre i paragoni ricorrenti sulla stampa russa tra la figura del presidente e quella di Andropov risultano meno superficiali di quanto si possa pensare, e non rimandano semplicemente alla comune matrice del KGB. Autoritarismo di mercato e affermazione della continuità dello Stato (che non esita neppure dinanzi alla rivalutazione di Stalin in chiave nazional-patriottica) si presentano come gli ingredienti di un’integrazione internazionale della Russia condotta in una chiave diversa dall’occidentalizzazione. È questa la base ambigua sulla quale Putin ha ricostituito un ruolo internazionale del paese, ponendo fine all’oscillazione del periodo di El’cin tra cooperazione e competizione con l’Occidente. Oggi la visione di un’integrazione tra la Russia e l’Europa promossa da Putin non va oltre un coinvolgimento altamente selettivo e condizionale.

L’ambivalenza della Russia nel suo rapporto con l’Europa è un luogo comune del discorso storico-politico. Isaiah Berlin, il pensatore liberale profondo conoscitore della cultura russa, parlava di un «peculiare amalgama di amore e odio» della Russia verso l’Europa, ma credeva fermamente nel suo carattere fondamentalmente rivolto all’Occidente. Lo storico russo Michail Gefter riteneva invece che il posto della Russia «nell’orbita» dell’espansione europea non avrebbe eliminato un dato più profondo: la Russia costituiva storicamente «la soglia e il limite» di tale espansione. Queste visioni sembrano tradursi assai visibilmente nella contraddittoria realtà del nostro tempo: e tuttavia, restano irrisolte. La «democrazia controllata» di Putin può essere considerata un aspetto interno russo da criticare, ma fondamentalmente privo di sostanziali implicazioni per l’Europa, o persino positivo come fonte di stabilità del paese. La spinta multipolarista della Russia, a sua volta, può essere ritenuta troppo debole per influire veramente sul sistema internazionale o, alternativamente, una sponda utile in chiave anti-americana. Ma i due fattori combinati assieme configurano una prospettiva che ci mette davanti a tutta la problematicità del nesso tra espansione della democrazia e sicurezza, che è la sfida principale del nostro tempo.