Per un programma di fine legislatura

Written by Massimo D'Alema Tuesday, 14 December 2021 16:03 Print
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Per quanto l’ansia di produrre continuamente delle novità costituisca ormai una inquietante patologia della politica italiana, vi sono tuttavia dei rituali che finiscono per ripetersi sempre in modo uguale o quasi. Fra questi certamente uno dei riti che suscitano maggio­re interesse è la preparazione della elezione del capo dello Stato. Le tensioni, le manovre, i veleni, l’accavallarsi delle candidature (per lo più improbabili) costituiscono la passione del giornalismo “retrosce­nista” e attirano l’interesse, sempre più oramai distratto, della opi­nione pubblica. Certo la vigilia del voto per il tredicesimo presidente sembra essere particolarmente sofferta e incerta. Anche per questo, forse, le manovre sono iniziate con tanto anticipo, accavallandosi alla discussione sulla legge finanziaria, introducendo così incognite in un momento assai delicato e importante della vita del paese.

Pesa certamente la grande incertezza del quadro politico e dei rap­porti di forza, pesa con ogni evidenza, il fatto che viviamo ormai da diversi anni in una crisi senza uscita della cosiddetta seconda Repubblica, cioè di quella stagione della vita democratica segnata dalla legge maggioritaria e dalla alternanza dei governi. Anche per questo vengono avanti ipotesi confuse, ma comunque velleitarie e preoccupanti, di una elezione del presidente della Repubblica che segni una forzatura istituzionale nel senso del presidenzialismo. Ab­biamo già vissuto i guasti della illusione che bastasse cambiare la legge elettorale per mutare la forma di governo. Abbiamo diffuso la convinzione infondata che con il voto maggioritario i cittadini “eleggessero il governo”, contribuendo così a logorare il rapporto tra opinione pubblica e istituzioni democratiche. Non vorrei che ora prendesse corpo il mito del semipresidenzialismo di fatto generando così nuove aspettative – timori o speranze – destinate comunque a svanire nel nulla. La realtà è che il paese vive un passaggio molto de licato e importante. Ne possiamo uscire con un’economia più forte, una società più giusta e un sistema democratico che funzioni meglio. Ma c’è anche il rischio di una sconfitta, di una nuova disillusione, di una nuova ondata di populismo qualunquista e distruttivo. Molto dipenderà dalla capacità delle forze politiche di affrontare i passaggi dei prossimi mesi con responsabilità e lungimiranza.

La mia convinzione è che il riferimento debba essere la Costituzione, quella che c’è e non quella che viene inventata nelle dichiarazioni, nelle interviste e negli editoriali. Il presidente della Repubblica è il supremo garante delle istituzioni. Negli ultimi venticinque anni è stato sostanzialmente il centrosinistra che ha espresso i presidenti proponendo via via personalità che per il loro profilo e la loro storia potessero essere accettati come punto di riferimento al di sopra delle parti. Così è stato per Carlo Azeglio Ciampi, per Giorgio Napolitano e per Sergio Mattarella. Oggi il quadro appare più incerto e non vi è alcun partito né alcun leader che possa proporsi come “demiurgo” di questa elezione. È evidente che occorre un dialogo tra le maggio­ri forze politiche per individuare, anche eventualmente al di fuori dell’impegno istituzionale, personalità che abbiano qualità e presti­gio per assolvere ai compiti del capo dello Stato. Io ritengo che ve ne siano e penso che sarebbe una scelta importante se dopo settant’anni di storia repubblicana il parlamento si mettesse in grado di elegge­re una donna al ruolo più alto di garante della democrazia. Non si dovrebbe sottovalutare il valore di questa indicazione che rappresen­terebbe, a mio giudizio, una potente spinta a una valorizzazione in tutti i campi delle energie femminili, questione questa che continua a rappresentare la sfida più importante per la crescita civile e lo svi­luppo economico del nostro paese.

Il primo compito di un nuovo capo dello Stato deve essere quello di consolidare la stabilità del governo in carica. Sotto la guida di Mario Draghi il paese sta attraversando uno dei passaggi più delicati e im­portanti della storia italiana degli ultimi anni. Abbiamo affrontato – anche per merito del governo Conte – complessivamente meglio di molti altri paesi importanti in Europa e nel mondo la sfida della pandemia, ma non ne siamo ancora fuori. Abbiamo l’opportunità di uno straordinario programma europeo di investimenti di cui l’Italia è il paese principalmente beneficiario. Ma anche qui la messa a punto dei progetti, la predisposizione delle gare pubbliche per l’assegnazio­ne dei fondi e tutte le altre procedure necessarie per dare concretezza a questa grande opportunità rappresentano una sfida aperta e dall’e­sito, voglio dirlo per onestà, non certo. Una parte della destra colti­va l’idea di eleggere l’attuale presidente del Consiglio al Quirinale, pagando così un prezzo di “legittimazione europea”, per poi andare allegramente a elezioni. Nella primavera del 2022 scadono gran parte dei termini per l’assegnazione dei fondi europei ai progetti. L’idea che noi ci possiamo trovare in una campagna elettorale mi pare oltre il limite della stravaganza consentita, in un paese che pure non è nuovo alle licenze. È evidente che interrompere, o anche soltanto in­debolire l’azione del governo in carica sarebbe contrario agli interessi fondamentali del nostro paese.

Nell’agenda impegnativa del governo Draghi sono indicate le riforme che, anche su sollecitazione dell’Unione europea appaiono necessarie per la realizzazione del PNRR. A mio giudizio, tuttavia, sarebbe un errore non cogliere l’occasione di un governo di larga unità nazionale per affrontare l’esigenza di una riforma non meno importante per il futuro del paese e cioè di un cambiamento del sistema elettorale e di alcune fondamentali regole di un sistema democratico che appare evidentemente malato e sempre più separato dai cittadini e dal paese reale. D’altro canto se una larga parte dei commentatori dei grandi organi di stampa e con loro il presidente di Confindustria, sembra­no guardare con vivissima preoccupazione il ritorno alla normalità democratica e invocano la necessità che Draghi continui a governare il paese “a prescindere (sic) dall’esito delle prossime elezioni”, non è soltanto per un ben radicato e antico pregiudizio antidemocratico e antiparlamentare della borghesia italiana, ma è anche evidentemente perché i meccanismi della seconda Repubblica non funzionano più e hanno anzi favorito le derive populiste e l’impoverimento qualitativo della rappresentanza e del ceto politico.

Io sono stato fra i sostenitori della svolta che negli anni Novanta del secolo scorso ci portò al sistema maggioritario. La necessità priorita­ria del sistema italiano era quella di sbloccare la democrazia e favorire un meccanismo di competizione per il governo tale da promuovere un ricambio delle classi dirigenti. La legge maggioritaria che venne dopo il referendum che porta il nome di Sergio Mattarella e alla quale detti il mio contributo come presidente del secondo gruppo rappresentato in quel Parlamento, era una buona legge e aiutò l’evo­luzione verso un bipolarismo di tipo europeo. Quella riforma avreb­be dovuto essere completata da una riforma costituzionale condivisa, ma questo fu impedito da Silvio Berlusconi che ruppe l’accordo che si era realizzato nella Commissione bicamerale per le riforme costi­tuzionali. Da allora non vi è stato più un effettivo dialogo, né la ri­cerca di ragionevoli intese sulla materia elettorale e costituzionale. Vi sono stati strappi, sfide e forzature che non hanno prodotto riforme positive ma solo l’orrore di una legge elettorale che è un miscuglio diabolico di tutti i difetti del maggioritario e di tutti i difetti del proporzionale. L’illusione che con il voto i cittadini “eleggono il go­verno” è diventato un grottesco inganno dato che da oramai quindici anni non è mai accaduto che i governi siano stati espressione diretta del risultato elettorale. Aggiungo che questo sistema, determinando la scelta dall’alto di parlamentari che non hanno pressoché nessun rapporto con i loro territori, da un lato ha favorito fenomeni di pro­porzioni inedite di trasformismo, dall’altro ha determinato un di­stacco mai così profondo tra i cittadini e il Parlamento.

Una riforma è necessaria. E credo che dovrebbe rappresentare una delle priorità se si vuole che la fase attuale crei davvero le condi­zioni di una rinascita nazionale. Se venticinque anni fa l’esigenza prioritaria era quella dello sblocco della democrazia, oggi il proble­ma è quello di una sua ricostruzione a partire dalla necessità di ritessere un rapporto forte tra cittadini e istituzioni. Se allora ci appassionava – giustamente – il tema della governabilità, mi sembra evidente che oggi le necessarie misu­re volte a garantire la stabilità dei governi non possano che fondarsi su una rinnovata capacità di rappresentanza della società nelle istituzioni; per questo io sono favorevole a una adozione di una legge elettorale sul modello tedesco, con una soglia adeguata di sbarramento contro la frantu­mazione, e con meccanismi (collegi o preferenze) che consentano la scelta del rappresentante da parte del rappresentato. Penso anche che un accordo politico consentirebbe di introdurre il principio costi­tuzionale della sfiducia costruttiva che può rappresentare un argine all’instabilità. Infine, si discute da tempo di norme nei regolamenti parlamentari per i meccanismi di finanziamento dei gruppi che, nel rispetto della libertà di ogni singolo eletto, mettano argine al trasfor­mismo dilagante e alla creazione artificiale di partiti e gruppi privi della legittimazione elettorale. Come si vede è un’agenda ambiziosa per un programma di fine legislatura ma rappresenta, a mio giudizio, una parte fondamentale di quel progetto di rilancio del nostro paese che è la ragione per cui è nato l’attuale governo.

Il PD e il centrosinistra dovrebbero farsi protagonisti dell’azione ri­formatrice in questa ultima fase della legislatura. Le forze progres­siste e innanzitutto il Partito Democratico escono rinfrancate dalle elezioni amministrative con le quali hanno confermato ed esteso, in modo determinante, il loro ruolo nel governo delle grandi città ita­liane. La qualità delle candidature scelte e lo spirito unitario con cui è stata affrontata la prova elettorale hanno favorito una convergenza ampia anche degli elettori del Movimento 5 Stelle. Ciò conferma la validità dell’azione politica che è stata avviata da Nicola Zingaretti e che Enrico Letta porta avanti. Bisogna dire anche che la netta cesura nei confronti di un recente passato non propriamente brillante ha restituito al Partito Democratico una maggiore credibilità sul piano politico e sul piano etico.

Tuttavia sembra a me evidente, come sottolineano anche molti os­servatori, che il risultato è stato condizionato in modo determinan­te dall’astensionismo che ha riguardato in modo particolare le fasce sociali più umili e più marginali. Il centrosinistra ha quindi ottenu­to una vittoria politica, anche per la povertà dell’offerta che veniva dall’altra parte, ma non vi è stato un vero e proprio recupero eletto­rale e cioè uno spostamento di fondo nell’orientamento del paese. Sarebbe sbagliato dunque cedere a una visione facilmente ottimistica proiettando il risultato del voto amministrativo sulle prossime ele­zioni politiche.

È evidente che il Partito Democratico e l’insieme del campo progres­sista sono chiamati oggi al compito di ricostruire il loro rapporto con la società italiana e, in particolare, con quel mondo del lavoro e quei ceti popolari più umili che da tempo il centrosinistra non è più in grado di rappresentare in modo significativo. Il gruppo dirigente del PD ha avviato un’azione di rinnovamento che punta a coinvolgere altri gruppi e personalità in un confronto ideale e programmatico aperto. Mi sembra una decisione importante ed è positivo che Ro­berto Speranza e Articolo 1 abbiano aderito alle Agorà che sono state promosse. Spero che ci possa essere modo di discutere anche della necessità di ricostruire dalle fondamenta una forza progressista in Italia.

Il paradosso del Partito Democratico è che esso fu fondato sull’on­da lunga di quella visione ottimistica della globalizzazione che aveva caratterizzato la fine del secolo scorso e i primi anni del Duemila. In quel clima culturale la sinistra era prevalentemente impegnata a liberarsi del retaggio ideologico del Novecento. Nel nostro paese poi il peso della memoria delle distorsioni indotte dalla cosiddetta “partitocrazia”, aveva alimentato l’ondata di una cultura volta alla esaltazione della società civile vs. i partiti e alimentato la visione di formazioni politiche “leggere”, “fluide” e “aperte”. Bisogna ricono­scere in modo autocritico che la crisi del centrosinistra in Italia è dovuta anche alla fragilità delle basi culturali su cui è nato il PD. Una visione che si è rivelata totalmente inadeguata ad affrontare la fase che stiamo vivendo caratterizzata da smarrimento, paura in lar­ga parte della società e dal manifestarsi di crescenti diseguaglianze e malessere sociale. La destra ha saputo e sa rivolgersi a questa società con un messaggio ideologico forte, e non a caso guadagna terreno proprio rievocando quelle ideologie nazionalistiche, etnocentriche, sovraniste che appartengono a quel mondo della cultura del Nove­cento che noi avevamo frettolosamente dichia­rato esaurito. Non propongo di volgere anche il nostro sguardo al passato, ma è evidente che sen­za la capacità di evocare una speranza di riscatto sociale, senza una visione del mondo e del futuro che siano in grado di motivare in modo profon­do l’appartenenza e l’impegno politici, la sinistra che abbiamo voluto “leggera e post ideologica” appare disarmata nel confronto per la conqui­sta del consenso. Non è un caso che quella parte della popolazione che vede nei cambiamenti in atto una opportunità, che ha gli strumenti cultu­rali ed economici per misurarsi con le sfide della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica, quella parte della società che non ha bisogno di miti e di speranze, ma solo di una buona amministrazione, moderna, lungimirante e cosmopolita, vota per il centrosinistra. Così avviene non solo nelle grandi città italiane ma più o meno in tutte le grandi metropoli eu­ropee. Tuttavia questa parte della società è una minoranza, una mi­noranza che non è più neppure in comunicazione con le masse più profonde delle persone che lavorano nell’industria e nell’agricoltura, che guardano con preoccupazione al loro futuro, che temono, non senza ragione, che i loro figli non godranno degli stessi diritti e delle stesse tutele che essi hanno conquistato nei lunghi anni del dopo­guerra. Insisto che senza ricostruire una forza organizzata, capace di ritessere un rapporto – anche fisico – con il mondo del lavoro e con il popolo, capace di rilanciare un messaggio forte di riscatto sociale e promozione umana difficilmente noi torneremo a rappresentare la maggioranza della società.

La classe dirigente del centrosinistra – quella che è venuta avanti dopo la disastrosa sconfitta del 2018 – ha intrapreso molti passi nel­la direzione giusta, oltre a svolgere con responsabilità ed efficacia il compito di contribuire al governo del paese in una fase difficile. Oggi occorre molto coraggio però per completare l’opera e portare fino in fondo un processo di rinnovamento senza il quale non è facile che si possa tornare a vincere.