Seduzioni e delusioni del neoliberismo

Written by Carlo Galli Tuesday, 18 June 2019 15:36 Print

Sotto l’apparenza di essere uno sviluppo del razionalismo moderno – dell’utilitarismo, dello strumentalismo, dell’individualismo –, il neo­liberismo attinge la propria energia e legittimità da fonti irrazionali, dalla mobilitazione del sentimento e del desiderio, da una volontà di potenza latente nelle soggettività moderne, emotivamente eccitata e governata dalle agenzie di senso (alte e basse, mediatiche e teoretiche) che nel radicarsi del neoliberismo hanno avuto un’importanza decisiva.

Il neoliberismo è la dottrina, di derivazione marginalistica (Mises e Hayek), che si pone l’obiettivo di distruggere la teoria classico-marxiana del valore-lavoro, e di spostare il baricentro del pensiero economico dalla produzione, e dalle sue contraddizioni, al rapporto domanda-offerta, e ai suoi equilibri (il kosmos, l’ordine spontaneo). Svincolata da ogni patetico umanesimo, da ogni fondazionismo per­sonalistico, l’economia è un insieme di diagrammi che descrivono e misurano le scelte compiute dal consumatore individuale razionale perfettamente informato, all’interno di un mercato perfettamente concorrenziale. La libertà dei moderni è libertà individuale di scelta e libertà di intrapresa, del consumatore e dell’offerente. I problemi che possono insorgere e che discostano la pratica dalla teoria non sono contraddizioni strutturali ma solo ostacoli che devono essere ri­mossi, con la politica: le “riforme”, che fluidificano il mercato elimi­nando rigidità e rendite di posizione. Solo a realizzare riforme serve la politica: la dimensione pubblica è legittimata dal fatto che serve a rendere possibile lo sviluppo della dimensione privata: nessuna taxis artificiale deve frapporsi alla formazione automatica del kosmos. E la società, peraltro, non esiste (secondo la geniale signora Thatcher), sostituita – con le sue masse, i suoi ceti, le sue classi, i suoi gruppi di interesse, le sue dinamiche collettive – dalla pulviscolare moltitudine degli individui utilitaristici. Le conseguenze di ciò sono, oltre al deperimento e alla delegitti­mazione delle strutture pubbliche e dei corpi intermedi tradizionali (Stato, burocrazia, partiti, sindacati), l’estensione illimitata dell’area del mercato, a cui nessun ambito può pretendere di sottrarsi (l’ar­te, la cultura, l’istruzione, la scienza, la sanità, il turismo, il tempo libero, lo spettacolo, la politica, ne sono investiti e assorbiti, ne ri­cevono “valore”): insomma, l’universale mercificazione della vita di tutti. Questa estensione del mercato, la sovranità dell’economico e della sua autointerpretazione come “equilibrio” e come progressivo nec plus ultra dell’umanità, ha come conseguenza l’iscrizione di tutte le vite nel registro della concorrenza e della competizione, della pre­stazione e della valutazione (a opera di agenzie pubbliche e private, che assumono il peso determinante che un tem­po spettava ai ministeri). Non il conflitto, che è un fatto pubblico e sociale, e neppure la colla­borazione, ma la competizione, che è un fatto privato, tiene ora il centro della scena.

Questa visione è stata abilmente introdotta nell’immaginario delle masse, con un’opera in­signe di psico-politica; vi ha fatto presa, vi si è radicata, perché è stata presentata nel momento della massima delegittimazione delle strutture di potere tradizionali: la caduta del comunismo in Russia e dintorni (con l’enorme eccezio­ne della Cina, che si concilia col neoliberismo attraverso la nozione di autorità), e la crisi, in Occidente, dello Stato sociale (in realtà, del sistema di Bretton Woods) e delle forze politiche che l’hanno sup­portato (i partiti democratici del secondo dopoguerra). Questa vi­sione neoliberista, insomma, è stata legittimata attraverso il ricorso a un’accezione emotiva, euforica ed energetica, della nozione di libertà individuale, declinata come ribellione contro l’autorità – appunto, partiti e sindacati, ma anche Stato ed élites tradizionali (i “professoro­ni”) – e come potenziamento del singolo soggetto attraverso l’azione rivolta al successo, all’affermazione di sé. Una libertà che è deregula­tion su scala ridotta, analoga a quella che la politica perseguiva, ne­gli anni Novanta, su scala mondiale. Tutti possono arricchirsi, tutti possono mettersi alla prova, tutti possono competere per migliorare la propria posizione sociale; e tutti lo fanno rimanendo “se stessi”, liberandosi da ogni autorità, obbedendo solo ai propri istinti vitali, coltivando e amplificando i propri talenti: “anche tu puoi, se vuoi”. Non il comando ma il libero contratto, sempre revocabile, è la figura chiave di questa società; non l’autorità ma la libertà; non il dovere ma il diritto soggettivo; non il governo e il diritto pubblico ma la governance privatistica a rete e la lex mercatoria, pattizia, elastica; non la stabilità dell’ordine ma il movimento, la circolazione, l’innovazio­ne, l’intrapresa; non la nascita né gli studi, ma il successo (sinonimo di merito), l’aggressività, l’avidità: greed is good, il peccato capitale dell’avarizia è un bene. Dai garage della Silicon Valley escono i nuovi miliardari con il loro grido vittorioso (già sessantottino): stay hungry, stay foolish, la sfida a non appagarsi mai. L’utile è legittimato dal sen­timento, la speculazione dalla commozione.

Tutto ciò va oltre Mandeville: qui non si tratta di vizi privati e di pubbliche virtù, ma della nietzschiana trasvalutazione di tutti i valo­ri, di una eroica volontà di potenza paradossalmente diffusa in tut­to il corpo sociale, applicata all’ambito (per Nietzsche spregevole) dell’utile, e divenuta, ancora più paradossalmente, norma collettiva. Dalla critica al normativismo razionalistico, dalla derisione del pen­siero dialettico, dalla decostruzione del logos moderno e delle sue strutture politiche, in primis la sovranità, emergono – in chiave mon­dialista o liberista, benicomunista o ultraprivatistica – la medesima apologia dell’“oltre”, il medesimo scuotimento dei fondamenti, la medesima “splendida aurora” della soggettività desiderante, il me­desimo godimento in atto, il medesimo trionfo dell’immanenza, la medesima pretesa che le dinamiche sociali, spiegabili attraverso l’agi­re individuale, si autosostengano, che non debbano rinviare a null’al­tro che a se stesse. La partita si gioca tra “movimenti” globali, nella concorrenza tra il francescanesimo moltitudinario, da una parte, e il general intellect mercatista dall’altra, sulle teste di Stati e classi, scienze e autorità. Le prospettive politicamente confliggono, ma convergono nella critica del Vecchio, travolto dall’energia del Nuovo.

Al di là delle analogie e delle differenze rispetto alla prima grande ondata di movimenti del dopoguerra – la generazione del Sessantot­to lottava per una forma diffusa anarchica e rizomatica della libertà, ma nonostante le sue istanze libertarie e individualistiche fu capace di agire socialmente e di contestare la guerra in Vietnam – resta il fatto che la narrazione del neoliberismo fece presa perché apparve rivoluzionaria: la quarta rivoluzione del XX secolo dopo quelle co­ munista, fascista, e socialdemocratica. Una rivoluzione che promet­teva l’immediata liberazione individuale: se si promuove la libertà contro l’autorità, l’espansione contro la costrizione, la potenza con­tro la diligenza, l’eccezionale contro il normale, la velocità contro la staticità, la trasgressione contro il conformismo, l’immanenza contro la trascendenza (o l’auto-trascendimento), la sedu­zione è garantita.

Nulla di tutto ciò si è rivelato vero, se non le sue esagerazioni e le sue contraddizioni, la sua ne­gazione pratica nelle contraddizioni che si sono rivelate. A partire dal soggetto euforico, che si è rovesciato in soggetto impotente e impauri­to, avendo ben presto sperimentato che il mare sconfinato delle opportunità è in realtà la selva aspra delle tribolazioni e delle lacerazioni; che i poteri economici dilatati su scala planetaria lo schiacciano come una nullità; che la centralità del consumatore è in verità la subalternità dell’individuo asservito a ogni manipolazione; che l’espansione anarchica dell’Io è prerogativa dei pochi che reg­gono il mondo, moltiplicando la mortificazione e la soggezione di innumerevoli Io, legati dalle “catene del valore” che nel globo vin­colano uomini e donne come propri strumenti, mai unificati in un diritto comune e in una coscienza comune ma anzi sempre parcelliz­zati, separati, divisi, posti in concorrenza gli uni contro gli altri; che più si parla di privacy (concetto già in sé difensivo) più l’individuo è oggetto delle invasive costrizioni di apparati di potere pubblici e privati davanti ai quali è trasparente, e dai quali non può sfuggire.

Al livello pubblico, poi, lungi dall’estinguersi lo Stato si è rafforzato; non verso i pochi forti, naturalmente, ma verso i molti deboli, che ha governato, disciplinato, sorvegliato e punito con tanta maggiore energia quanto più le contraddizioni del neoliberismo hanno mo­strato che il sogno euforico del benessere diffuso aveva come con­troparte la povertà avanzante, la diseguaglianza, l’anomia sociale, il crollo della qualità della vita; lo Stato sempre più volentieri ha fatto ricorso all’eccezione contro la norma, e sempre più spesso si è dato forme di governo spostate dalla democrazia alla tecnocrazia, centrate non sulla rappresentanza sovrana ma sulle agenzie non rappresenta­ tive che “mettono al sicuro” i fondamenti del sistema dall’invadenza della politica e del popolo; e ha visto erodere sia la propria legittimità (non è più capace di ispirare civismo) sia la propria sovranità – men­tre la filosofia la decostruiva –, a fronte del potere dell’economia, della finanza e delle agenzie di rating. Nondimeno, le grandi sintesi politiche, i grandi Stati, sono ancora in grado di determinare la poli­tica internazionale, con le loro sovranità in concordia discors rispetto alle potenze economiche.

Al livello sociale, infine, la produzione, espunta dalla teoria, è rima­sta centrale con tutte le sue contraddizioni: il lavoro è divenuto più incerto, povero, indifeso, scarso. E ciò o è giudicato senza rimedio, o vi si interviene a livello etico, con il capitalismo compassionevole, oppure con distribuzioni di sussidi; o ancora con lo scambio fatale tra diritti sociali (progressivamente negati) e diritti civili (tenden­zialmente, anche se molto lentamente, concessi o allargati). Lo Stato sociale è finito sotto l’orizzonte; la critica strut­turale dell’economia non esiste più; l’individuo è solo davanti e dentro il capitale, e deve soppe­rire con nuove emozioni private – dalla fideliz­zazione all’azienda a qualsivoglia altro orgoglio identitario – alla perdita di senso del suo agire. Inutile dire che a fornire tali emozioni provvede il sistema mediatico.

Infine, nella morsa dell’ordoliberismo tedesco – la matrice dell’euro –, quella che nel neolibe­rismo “austriaco” era libertà è diventata dovere, al kosmos spontaneo si è affiancata una severa visione statalistico-organicistica, l’euforia si è rovesciata in austerità, in espiazione, in disciplina, in paura; ed è emerso che il nuovo paradigma economico altro non è se non una dottrina liberale deflativa, che prevede ogni anno tagli al bilancio dello Stato, deficit spending, compressione della domanda interna oltre che dei diritti sociali, orientamento del siste­ma economico alla esportazione.

Non siamo però di fronte all’universale schiavitù; la reazione a tutto ciò c’è stata. L’eliminazione dell’articolo 18, l’introduzione del bail-in, la legge Fornero, l’inoccupazione strutturale, le diseguaglianze crescenti e incolmabili tra ricchi e poveri, il sotto-finanziamento sistematico dei servizi pubblici, le insicurezze sociali ed esistenziali che da tutto ciò derivano, le prospettive di dover subire ogni anno manovre “lacrime e sangue” e di dovere affrontare un destino come quello della Grecia: tutto ciò non è stato controbilanciato dalla sta­bilità dei prezzi, dall’Erasmus, dai voli low cost, dal roaming europeo, dalla diffusione degli smartphone. Si è generato, piuttosto, in Italia, in Europa, in Occidente, un “momento Polanyi”, una mossa sociale difensiva rispetto al dominio del capitale, una ricerca di protezione, anche nella forma dell’affidamento plebiscitario a un capo; una re­azione che le sinistre di governo, le élites politiche di ieri, denigrano come “populismo” e delegittimano come “sovranismo”, ma che non analizzano nelle sue cause originarie e che si limitano a deplorare mo­ralisticamente come “cattiveria”; un malessere che non hanno inter­cettato, che hanno lasciato alle destre europee, e che ora definiscono “fascismo”.

Ma i sovranismi (termine privo di dignità teorica) non sono una declinazione aggiornata di un presunto “fascismo eterno”. A parte le differenze sostanziali (il nesso tra violenza e politica, e tra guerra e politica, essenziale al fascismo, è assente nei partiti che hanno inter­cettato questo trend), vi è oggi un’altra divergenza rispetto ai processi degli anni Trenta a cui pensava Polanyi. La richiesta che gli Stati tor­nino ad appropriarsi della sovranità ha più il senso della tutela delle esistenze singole e familiari, dei piani di vita individuali, che non della ipertrofia del “politico”, della volontà di potenza nazionalistica. Ciò che si chiede è più uno Stato protettore che uno Stato milita­re, più uno Stato sociale con qualche tocco di “comunità” che uno Stato-Moloch, più un individualismo di massa che un nazionalismo identitario, per il quale mancano i presupposti culturali: il naziona­lismo, infatti, implica una forte dimensione pubblica e una consape­volezza storica collettiva, che oggi francamente non è dato vedere. Il neoliberismo ha lasciato il segno, almeno nelle percezioni esistenziali e negli immaginari collettivi: più che di identità nazionale si tratta oggi di protezione dei privati dal mercato dilagante, dalle paure in­combenti, dall’austerità sempre minacciata e, infine, del rifiuto della “società liquida” e delle sue solidissime, inscalfibili diseguaglianze.

L’orizzonte della protesta, insomma, resta sostanzialmente il medesi­mo (fatto salvo l’abbattimento, a volte grave, di alcuni tabù lessicali, ossia del “politicamente corretto”); la reazione al neoliberismo è de­clinata in chiave non di conflitto sociale ma di invidia individuale, non di un nuovo paradigma economico ma di odio anticasta, non di critica dell’economia politica ma di libero sfogo di pulsioni se­curitarie (in parte giustificate, e in parte spinte fino alla xenofobia), non di ripresa dell’elaborazione critica ma di ulteriore svilimento della cultura “alta” in nome del plebeismo, non di giustizia ma di giustizia­lismo, non di coraggio ma di timore (legittimo, ma ingigantito ad arte dai governi). Domina ancora l’individualismo, benché mutilato, feri­to, umiliato, deluso. Reazione, quindi; non vera ribellione; meno che mai rivoluzione. Il soggetto individuale non diviene collettivo; resta quello di prima: emotivo, ma animato da emozioni ben diverse. Un soggetto sedotto, abbandonato e or­mai carico di timore e di rancore – emozioni, queste, che le agenzie di senso naturalmente provvedono a fornire con solerzia. Le molte ragioni dei singoli (qualcuna buona, qualcuna cattiva) non diventano ragioni politiche strutturate: siamo davanti, con valori rovesciati, alla medesima pseudo-attività, e reale subalter­nità, alla medesima impotente solitudine, che caratterizzava il neo­liberismo. Il quale, da parte sua, a questa reazione, rabbiosa ma non alternativa, riesce ad adattarsi. È possibile che il sovranismo divenga, dopo tutto, una sorta di “piano B” dei poteri dominanti, che passa­no dal mondialismo ideologico a un moderato territorialismo (con largo uso di capri espiatori) sulla base del principio “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”; ed è certo che il so­vranismo è per ora una ricerca di protezione senza proiezione, senza un’idea di politica.

L’opposizione tra individualismo liberista e mondialista, da una par­te, e sovranismo dall’altra, è, insomma, più di forma che di sostanza; più di mentalità che di struttura; e non è un’opposizione frontale tra democrazia e antidemocrazia. La democrazia era di fatto divenuta post-democrazia già negli anni del trionfo neoliberista: oggi, a (par­ziale) differenza di ieri, se ne vilipendono pubblicamente i resti. Il che, certo, è più grave, a livello ideologico; ma la costituzione mate­riale del nostro paese, dell’Europa, del cosiddetto “Occidente”, va per la sua solita strada. Per provare a ridare vita e significato alla demo­crazia bisogna uscire dalla contrapposizione superficiale tra sovranisti ed europeisti (o mondialisti), rinunciare alle prediche moralistiche e dare inizio a un grande investimento culturale – critico, analitico e propositivo – paragonabile a quello che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso spianò la via alle truppe trionfanti del neoliberismo; il quale oggi cambia volto e retorica, ma non trova ancora avversari sufficientemente consapevoli e radicali.