Il bisogno di rivolta

Written by Massimo Bray Thursday, 21 July 2011 17:03 Print

La massiccia partecipazione referendaria ha evidenziato la volontà della maggioranza del paese di rimettere al centro dell’attenzione il cittadino, la persona, con i suoi bisogni inalienabili, di colmare la distanza tra la politica e i cittadini.

 

La massiccia partecipazione referendaria, in particolare per i quesiti sull’acqua e sull’energia, ha evidenziato la volontà della maggioranza del paese di rimettere al centro dell’attenzione il cittadino, la persona, con i suoi bisogni inalienabili, di colmare la distanza tra la politica e i cittadini.
Questa necessità di far sentire la propria voce prescinde per certi versi dal senso del voto espresso: a essere rigettate, se guardiamo bene, sono state le logiche sottese ai provvedimenti su cui si è votato, la massimizzazione economica (sotto forma di pericolo percepito) di beni sentiti come propri (e come tali, sorprendentemente difesi nella loro dimensione “pubblica”).
È emerso un forte bisogno di politica: la richiesta di un ritorno alla politica, un bisogno espresso però come ricerca di contenuti e forme del tutto nuovi.

Il voto dei referendum, così come quello delle amministrative, è stato giustamente letto come segnale di una volontà forte di cambiamento nel paese, come un bisogno di rivolta. Sia a livello politico, tramite la sonora bocciatura di istanze, temi e candidati espressione del governo attuale; sia a livello organizzativo, con il ricorso ad aggregatori nuovi, più fluidi, più sintetici, che la politica tradizionale fatica spesso ad utilizzare.
Il dato principale da rilevare è che i cittadini si sono mossi in modo autonomo, appassionandosi alla politica, cercando spazi di discussione, trovandone e creandone di nuovi: facebook, blog, video, campagne virali, slogan che spesso hanno rovesciato le paure altrui, le parole degli altri, rivelando in modo beffardo e intelligentemente ironico il loro lato grottesco, svuotandole del loro peso e mostrandole per quello che erano.

Oggi possiamo dire che il vento può cambiare, che il paese può avere un’altra chance, che può esistere una alternativa.
La “voce dei cittadini” ci dice che questa alternativa deve essere costruita insieme a loro, a partire dalla espressione popolare che ritrova, non rivendica, il suo bisogno di partecipare, di prendere parte. Ciò avviene perché dopo anni in cui si sono riposte paure e speranze, idee e progetti nelle sole mani di una classe politica dirigente e professionista, ci si accorge che questa scelta non ha pagato in termini di radicamento di buone prassi, di fiducia, di aggregazione civica in quei contenitori che sono i partiti.
Emerge con chiarezza quella che si può definire una cultura politica della post modernità, che ha una razionalità, un linguaggio, un modo di aggregare che ha poco a che fare con le categorie del Novecento.

Se ne affermano di nuove: la difesa dei beni comuni, la dignità delle donne e quella del lavoro, l’eguaglianza, la difesa dell’ambiente, la costruzione di città, di spazi e di modi di vita ecocompatibili, la cultura al centro della crescita, solo per citarne alcuni. Per ascoltare queste richieste occorre utilizzare un linguaggio differente da quello della politica del Novecento, un linguaggio che sappia cogliere la “leggerezza”, la “rapidità”, il desiderio di speranza che pervade tutti questi movimenti.

Ma la risposta del centrosinistra a queste richieste tumultuose non può essere affidata esclusivamente alla razionalità e al pragmatismo.
La ponderatezza e la preoccupazione per le scelte che bisognerà compiere nelle prossime settimane, prime fra tutte quelle riguardanti la grave crisi economico-finanziaria, possono essere lette dagli elettori come un rifiuto dell’onda energica proveniente dal “basso”; peggio ancora, intravedendo in questa “tepidezza” una delegittimazione del proprio coinvolgimento.

Il punto da cui provare a ripartire, su cui perlomeno ragionare, è proprio l’analisi delle nuove forme di comunicazione. Chi vota molto spesso non comprende le ragioni delle decisioni di chi è stato votato. Chi è stato votato ritiene che i problemi siano tanti e tali da non potersi permettere di ascoltare la voce di chi solleva dubbi e critiche circa scelte di cui non capisce il significato.
Di recente ho letto su un blog questo commento: «Se potessi rivolgermi a tutti i dirigenti del PD e a tutti i suoi elettori, oggi mi piacerebbe chiedere: “Perché chi decide pensa che non valga la pena spiegare e chi non capisce pensa che non valga la pena chiedere?”».

Il rischio del perdurare di suoni muti è altissimo. Quello che i differenti movimenti scesi in piazza in questi mesi chiedono non è per forza un messaggio di antipolitica, ma forse di una politica “diversa”. Di una politica capace di credere nei valori e di indirizzarsi verso obiettivi di difesa dei beni comuni. E le richieste che vengono da ogni angolo del paese e in ogni forma non possono essere in nessun modo definite espressioni di antipolitica.
È antipolitica l’altissimo gradimento rivolto alle scelte del presidente della Repubblica? È antipolitica l’apprezzamento per le manifestazioni promosse per l’Unità d’Italia? Sono antipolitica le centinaia di migliaia di visitatori in fila per guardare la mostra dedicata ai novant’anni del PCI?
O sono piuttosto forme differenti attraverso le quali converge la domanda di ricostituzione di “legami”, di nuovi modi di rappresentare la vita partecipativa, la democrazia?

Certo c’è da capire quali siano i punti da dove ripartire. A me sembra che le richieste siano indirizzate verso alcune principali, chiare attese di cambiamento. Coniugare etica individuale e politica vuol dire esprimere la capacità di dare segni evidenti di discontinuità rispetto al modo troppo spesso confuso di distinguere gli interessi privati e il bene pubblico. Occorre poi affrontare il problema di come ricostruire il luogo partito, come organizzarne il lavoro, come dar vita ad una formazione ben strutturata, dove è possibile formare ma anche stare insieme, creare quel senso di comunità su temi specifici e su temi generali. Come, in questo lavoro di organizzazione, occorre saper utilizzare l’esperienza e le potenzialità delle nuove tecnologie e un linguaggio nuovo, di cui ho già detto.

Infine credo che occorra dare speranza. Potrà sembrare banale, ma i cittadini di questo paese hanno bisogno di speranze.
Speranza di avere delle scuole degne di questo nome, speranza di avere asili nido a sufficienza, speranza di poter trovare un lavoro che non duri tre mesi, speranza di poter avere una casa dove far crescere i propri figli, speranza di poter contare su ammortizzatori sociali quando si perde il lavoro, speranza degli imprenditori di poter contare sugli investimenti in infrastrutture, speranza di porre al centro della nostra scommessa di rilancio del paese la cultura. Speranza infine di vedere nel 2020 un paese differente, speriamo migliore.

 

 

 


Foto di Tommaso Tani

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