è cultore di relazioni politico-strategiche nell’Asia centrale.
Tra milizie islamiste e antislamiste, tribù e ingerenze esterne, la lotta per il controllo della Libia coinvolge oggi un intricato puzzle di forze. In questo contesto un intervento da parte occidentale con forze convenzionali non è fattibile nel breve periodo. Ciò tuttavia non esonera l’Occidente dal dovere di sostenere il popolo libico, purché sotto l’egida delle Nazioni Unite.
L’ascesa dello Stato islamico, già ISIS, in Iraq e l’efferatezza con cui esso agisce fanno temere a molti commentatori che si tratti delle premesse di un nuovo e ampio conflitto regionale. Di certo l’IS ha delle caratteristiche nuove: è ben organizzato sia politicamente che militarmente, ha degli obiettivi di state-building e usufruisce di importanti risorse finanziarie. Di fronte alla sua minaccia l’Unione europea non può ancora una volta crogiolarsi nel suo consueto immobilismo.
A oltre un mese dal ballottaggio fra i due candidati alla presidenza dell’Afghanistan, le sorti del paese sono ancora lontane dall’essere definite. Il ritiro delle forze occidentali, il conseguente calo del PIL del paese, l’escalation di violenza dei talebani, gli endemici problemi della sicurezza costituiscono le sfide principali che il successore di Karzai dovrà affrontare.
L’offensiva dell’ISIS – il cui obiettivo è in primo luogo la riconquista delle aree sunnite della provincia di Anbar e poi la costituzione del califfato islamico – contro le forze governative irachene del primo ministro Al Maliki ha aggiunto un nuovo complesso elemento al puzzle mediorientale, che potrebbe giocare a favore della sopravvivenza del regime di Assad nella vicina Siria.
A pochi giorni dalle elezioni presidenziali siriane, che in tutta probabilità confermeranno Assad, la Siria continua a essere devastata dagli scontri. Alla luce dell’impotenza della comunità internazionale e della posizione di vantaggio dell’esercito regolare rispetto ai ribelli, il rischio è il cronicizzarsi del conflitto.
Le elezioni presidenziali in Afghanistan costituiscono un momento decisivo per il paese, non solo e non tanto perché potrebbero segnare un passo avanti nella crescita democratica del paese, ma soprattutto perché consegneranno al successore di Karzai l’onere di stabilizzare il paese proprio mentre si conclude la missione ISAF. E se i tempi di formazione del governo si allungheranno , come si teme, fino all’autunno, il rischio è che il paese finisca per cadere preda della “guerra per bande”.
La contrapposizione tra sunniti e sciiti nel mondo islamico, espressione delle tensioni fra Arabia Saudita e Iran, si manifesta con particolare violenza in Siria, dove la guerra civile ha assunto le caratteristiche di una sorta di “proxy war”, ma gioca un ruolo importante anche nelle fratture interne all’Iraq di Al Maliki e nell’instabilità del Libano.
Le tensioni e i conflitti che attraversano il Medio Oriente hanno una natura duplice, da una parte quelli che si insinuano nelle consuete divisioni etno-religiose e dall’altra quelli che vedono contrapposte forze islamiste riformatrici e monarchie tradizionali. Il già composito quadro è reso ancor più complesso dal ruolo giocato dagli Stati “sponsor” – Iran e Arabia Saudita – e dalla presenza di altri attori, da Israele alle formazioni di al Qaeda. La decisione di Obama di ridimensionare l’impegno USA nella regione ha poi contribuito a deteriorare una situazione già critica.
Con la fine della missione ISAF e l’avvio di Resolute Support si apre una pagina nuova della storia della presenza americana in Afghanistan. L’obiettivo di Washington di conservare i risultati raggiunti e impedire il ritorno dell’area nel caos rimane immutato. Si trasforma invece il carattere del suo intervento, e l’enorme forza militare impegnata finora nel quadro del nation-building lascia il posto a una presenza meno rilevante da impiegare soprattutto in azioni antiterrorismo con una proiezione estesa a tutta l’area dell’Asia centrale.