Assad il temporeggiatore e la guerra permanente in Siria

Written by Fabio Atzeni Friday, 23 May 2014 14:27 Print
Assad il temporeggiatore e la guerra permanente in Siria Foto: Freedom House

A pochi giorni dalle elezioni presidenziali siriane, che in tutta probabilità confermeranno Assad, la Siria continua a essere devastata dagli scontri. Alla luce dell’impotenza della comunità internazionale e della posizione di vantaggio dell’esercito regolare rispetto ai ribelli, il rischio è il cronicizzarsi del conflitto.

Pur non occupando più le prime pagine dei giornali, gli scontri in Siria continuano ogni giorno e il conflitto sembra assumere sempre più le caratteristiche di una guerra permanente. A tre anni dall’inizio delle rivolte, la situazione sul campo sembra volgere a favore del regime del presidente Assad. Benché l’esercito regolare non sia stato in grado di riprendere il controllo di tutto il territorio e nonostante non vi sia alcun segnale che faccia presagire un’imminente cessazione delle ostilità, si può affermare che le principali aree urbane, come Damasco, Aleppo, Hama e Latakia e Tartus sulla costa, siano state sufficientemente stabilizzate dalle forze lealiste. Inoltre, il poroso confine con il Libano, fonte di approvvigionamenti per i ribelli, è stato completamente riconquistato dal regime, grazie anche al sostegno delle milizie di Hezbollah.

Tuttavia, diverse zone rimangono in mano agli insorti, come le aree che collegano Homs a Hama, il triangolo di Houla-Rastan-Talbiseh, il Nord–Est, a maggioranza curda, e le aree a prevalenza sunnite, prossime al confine con l’Iraq, vera e propria culla delle fazioni estremiste qaediste di Al Nusra e dell’ISIS (Islamic State of Iraq and Greater Syria)

Il 7 maggio scorso, dopo quasi due anni d’assedio da parte dell’esercito siriano, le forze ribelli barricate nella città vecchia di Homs si sono ritirate, accettando il salvacondotto garantito dal regime, che ha concesso loro l’uscita in sicurezza sotto la supervisione delle Nazioni Unite. Circa un migliaio di uomini avrebbero lasciato l’intero distretto alle forze lealiste e, grazie all’accordo di resa con Damasco, da esso definito “riconciliazione”, sarebbe stato permesso loro di trasferirsi nelle aree sotto il controllo ribelle con la propria arma individuale.

Homs è la terza città del paese in ordine di grandezza e ha un’importanza simbolica per la ribellione: da qui, infatti, si è sviluppata dal 2011 l’insurgency islamista sunnita ma si sono anche diffusi tra la borghesia gli ideali islamisti ispirati alla Fratellanza Musulmana. Pertanto, l’esito favorevole al regime, rappresenta un punto di svolta sia da un punto di vista ideologico, che per l’equilibrio delle forze sul campo. La tattica adottata dai generali di Assad è stata quella di bloccare totalmente la città e interromperne i rifornimenti alimentari e di beni di prima necessità, in modo da prendere i ribelli per fame. Questo metodo, già utilizzato in precedenza ad Aleppo eanche a Homs in febbraio, ha già portato a un cessate il fuoco caldeggiato dall’ONU, che ha consentito a circa 1.500 sunniti, tra cui numerosi combattenti, di evacuare la città, godendo di una temporanea amnistia concessa dal governo. Le numerose defezioni di ribelli hanno quindi consentito a Damasco di dominare anche quest’area prevalentemente sunnita, ridisegnandone completamente gli equilibri demografici, per mezzo di queste deportazioni “consensuali”.

Come dimostrato dal fallimento dei negoziati di Ginevra II dello scorso febbraio, Assad non intende trattare e non riconosce la Syrian Opposition Coalition e il suo braccio militare, il Supreme Military Council, come rappresentanti legittimi dell’opposizione, nonostante il sostegno e l’ufficiale riconoscimento da parte degli Stati Uniti e della comunità internazionale. In seguito agli ultimi sviluppi e ai vantaggi operativi conquistati di recente sul campo, la possibilità di una soluzione negoziale del conflitto sembra ancora più improbabile: bisognerebbe infatti convincere Assad a lasciare il potere benché egli si trovi in una situazione di vantaggio politico-militare. La strategia di Assad di temporeggiare e prolungare il più possibile il conflitto, si è quindi rivelata molto efficace per il mantenimento dello status quo.[1]

 

La strategia di Assad: come prolungare il conflitto?

Negli ultimi mesi, il regime ha dimostrato la propria predominanza militare, nonostante la diffusione a macchia di leopardo dell’insurgency. Secondo fonti dell’intelligence israeliana, l’esercito regolare siriano potrebbe contare oggi su circa 200.000 uomini, circa la metà rispetto al 2011. A questo dato vanno però aggiunti circa 10.000 studenti universitari, reclutati nei battaglioni Baath, 4000-5000 miliziani di Hezbollah, 2000-5000 miliziani sciiti iracheni e circa 1500 militari iraniani del Corpo delle guardie rivoluzionarie (IRGC). Inoltre, l’elevato tasso di defezioni e i recenti scontri tra le frange estremiste e quelle moderate dei ribelli, hanno favorito le forze lealiste, che da un punto di vista militare possono considerarsi rafforzate. Molti dei ribelli che si sono arresi al regime, sono ora sul libro paga del ministero della Difesa siriano, come milizie per la tutela dell’ordine pubblico, seppur senza un riconoscimento ufficiale. Il regime sta facendo un grande ricorso a questi gruppi unitamente alle milizie alawite, alle famigerate “Shabiha” e ai battaglioni Baath, per il controllo del territorio, soprattutto ad Aleppo.

Le numerose defezioni tra i ribelli hanno consentito di applicare lo stesso metodo anche a Homs. Tuttavia, senza un reale processo di riconciliazione, è difficile che il regime riesca nel lungo termine a garantire la stabilità di queste grandi città, poiché l’insurgency tenderebbe a ripresentarsi, pur con altri metodi e in altre forme.

Damasco ha anche dato prova di un’ottima capacità di programmazione economica, evitando il collasso del paese, gravato da oltre tre anni di guerra e distruzioni. Il governo ha rafforzato la lira, limitando al massimo l’inflazione. Il piano di stabilizzazione della Banca centrale, varato nel luglio 2013, prevede l’investimento di 3,6 miliardi di dollari provenienti dall’Iran, l’importazione di petrolio iraniano e venezuelano a prezzi favorevoli, un calo delle importazioni e una drastica riduzione di spesa nelle aree controllate dai ribelli. In aggiunta, il governo siriano è sempre riuscito a garantire la continuità dei rifornimenti di viveri, medicinali e beni di prima necessità nelle aree da esso controllate, garantendo anche la continuità del commercio alimentare con la Giordania. Infine, avendo il pieno controllo delle rimanenti infrastrutture portuali e aeroportuali vicine alla costa, il regime ha già presentato dei progetti per cercare di attrarre nuovi investimenti diretti esteri per iniettare liquidità. Così facendo, Damasco è riuscita a riconquistare i favori di parte della popolazione, ormai stanca della guerra.

Il punto debole di Assad, in realtà, è l’inconsistenza del suo progetto politico. Non ha mai avviato nessuna delle riforme annunciate prima della crisi del 2011. Al contrario, l’immobilità del regime, è stata la causa originale dell’espansione della ribellione anche fra i membri dell’opposizione tradizionale e della borghesia siriana. Le prossime elezioni presidenziali, previste per i primi di giugno 2014, vedranno quasi certamente la rielezione di Assad, che si è ricandidato per un altro mandato settennale e ha imposto nuove norme elettorali per favorire il suo partito e assicurare la propria rielezione. Le elezioni presidenziali saranno l’ennesima dimostrazione della natura farsesca della democrazia in Siria.

La situazione attuale di conflitto permanente è quindi la più favorevole ad Assad: l’esercito regolare è infatti in grado di mantenere un controllo accettabile delle aree strategiche del territorio. È quindi molto probabile che, finché gli scontri proseguiranno, il regime riuscirà a rafforzare ulteriormente il proprio strumento militare, garantendo la propria sopravvivenza. È quindi palese che nessuna trattativa per la cessazione delle ostilità, né tantomeno per una transizione del potere, possa scaturire dall’attuale situazione di vantaggio militare di Damasco.

 

La doppia anima della ribellione: verso una tregua o la guerra permanente?

La grande frammentazione dell’universo ribelle è aumentata a scapito della capacità operativa e di reclutamento di nuovi miliziani fra la popolazione siriana, sempre più vittima degli scontri fratricidi fra le frange più estremiste e quelle moderate del fronte islamista. Un esempio recente è stato il doppio attentato suicida del 2 maggio scorso a Hama, rivendicato da Al Nusra, che ha spezzato la vita di ben diciotto persone, di cui undici bambini e ferendo altri cinquanta cittadini.

Gli ingenti finanziamenti ai ribelli, provenienti soprattutto da Arabia Saudita e Qatar, costituiscono la causa, ma anche l’effetto dell’aumento della competizione e della frammentazione tra i vari gruppi. Per avere un’idea di questa realtà, si stima che l’insurgency siriana sia costituita da un numero variabile che va da circa 75.000 a 115.000 uomini, divisi in 1500 gruppi diversi. A essi però, vanno aggiunti circa 26.000 uomini che, secondo l’intelligence americana, apparterrebbero agli estremisti qaedisti di Al Nusra, all’ISIS e ad Aharar al Sham, e altri 7500 combattenti stranieri provenienti da oltre cinquanta paesi. Poiché i gruppi ribelli più organizzati e meglio finanziati sono anche quelli più estremisti, è molto probabile che, se il conflitto dovesse proseguire ancora a lungo, l’insurgency siriana si affiderà sempre più a questi elementi, polarizzando ulteriormente lo scontro etnico-religioso, a scapito del popolo siriano stesso. Gli unici a trarne giovamento, oltre ai suddetti gruppi estremisti, sarebbero i relativi paesi sponsor. Inoltre, la scarsa credibilità di cui gode la Syrian Opposition Coalition e il Supreme Military Council, pongono seri dubbi sull’opportunità e le modalità di assistenza dei ribelli da parte di Washington e dei paesi occidentali.

Benché il segretario di Stato americano Kerry abbia confermato che l’impegno finanziario americano sia recentemente aumentato e nonostante siano già stati stanziati per il 2015 due miliardi di dollari, vi è una certa resistenza da parte di alcuni membri del Congresso, per la difficoltà ad accertarsi di come questi fondi vengano utilizzati e chi siano gli utilizzatori finali degli stessi.

Infine, l’emergere di nuovi gruppi consistenti e autorevoli, come il Syrian Revolutionaries’ Front di Al Marouf e il Mujaheddin Army, rappresentanti dell’ala islamista più moderata ma alternativa, rispetto al Supreme Military Council, costituisce un ulteriore elemento di frattura.

Washington si trova quindi di fronte a un bivio: aumentare il proprio coinvolgimento e quindi l’assistenza ai ribelli, con il rischio di disperdere queste risorse tra un numero infinito di fazioni, alimentandone la competizione e la frammentazione; interrompere l’assistenza, come già fatto in precedenza, rischiando però di avvantaggiare indirettamente i gruppi più estremisti e quindi di favorire nel lungo termine una polarizzazione dello scontro etnico-religioso del conflitto. In entrambi i casi, risulta evidente che più la guerra si prolungherà nel tempo, più il frastagliato fronte ribelle si indebolirà e il popolo siriano rischierà maggiormente di rimanere in balia degli estremismi, sempre più condizionati dagli attori regionali (Arabia Saudita, Qatar e Iran), che hanno come obiettivo quello di gettare benzina sul fuoco dello scontro etnico-religioso che insanguina tutto il Medio Oriente.

 

La fine delle illusioni e della diplomazia: la cronicizzazione del conflitto

Gli Stati Uniti, hanno cercato fin dall’inizio delle rivolte del 2011 di tramutare l’assistenza e il supporto operativo e logistico a gruppi selezionati di ribelli in un vantaggio tattico, con il fine di alterare gli equilibri di forza. Se inizialmente gli strateghi americani pensavano di poter avviare un processo di transizione del potere con la sola minaccia di ricorrere al proprio hard power e ponendo delle poco credibili “linee rosse” al regime di Assad, i fatti e l’intraprendenza di Damasco così come degli altri attori internazionali coinvolti, principalmente Russia e Iran, li hanno smentiti, portandoli a preferire un approccio negoziale per la cessazione del conflitto.

Gli obiettivi di Washington prevedono la transizione del potere a favore di un nuovo presidente, ma non l’abbattimento del regime e delle sue istituzioni. Si rischierebbe, infatti, uno sfaldamento del paese come già successo in Iraq. La sopravvivenza del regime sarebbe anche necessaria a garantire la sua collaborazione nell’adempimento della risoluzione 2118 delle Nazioni Uniyr, che prevede la consegna di tutto l’arsenale chimico di Damasco alle autorità internazionali per la sua distruzione in mare, in acque internazionali, a bordo dell’unità NBC della US NAVY, la USS Cape Ray. Il trasporto di queste armi chimiche dai siti di stoccaggio e produzione, che dovranno essere chiusi e resi inutilizzabili, avverrà attraverso il porto di Latakia, dove saranno imbarcati sul mercantile Ark Futura, battente bandiera danese, per essere trasferiti fino al porto di Gioia Tauro, dove verranno infine caricati a bordo della Cape Ray.

La scadenza fissata per ultimare queste operazioni è il 30 giugno 2014. Allo stato attuale, sono già stati evacuati per la distruzione circa il 90% dei materiali di priorità I e II (gas nervini VX) e i siti di produzione, benché non distrutti, sono stati resi inutilizzabili e irraggiungibili dal regime. Il rimanente 10% di materiale chimico, costituisce l’ingrediente principale per la fabbricazione del gas nervino sarin, utilizzato nell’attacco del 21 agosto 2013, per il quale l’esercito siriano e i ribelli si sono accusati a vicenda. Tale materiale è stoccato presso un aeroporto controllato dal regime, non lontano da Damasco e non è stato ancora evacuato perché gli itinerari di collegamento con il porto di Latakia, attraversano aree ancora a elevato rischio di attacco. Per tali ragioni, potrebbero esservi dei ritardi nell’ottemperare le clausole del trattato sulle armi chimiche firmato da Assad e fortemente voluto da Washington e Mosca[2]. Infine, l’ultimo obiettivo di Washington in Siria è l’eliminazione della minaccia estremista e qaedista dal paese.

Tuttavia, la concreta possibilità di raggiungere questi traguardi si scontra con la realtà dei fatti. In particolare, i successi tattici acquisiti dal regime siriano con il controllo delle aree strategiche e vitali del paese, pongono Damasco in una posizione di netto vantaggio militare e diplomatico. In aggiunta, vi è un’ampia divergenza tra gli obiettivi americani e quelli della maggioranza del fronte ribelle, costituito per il 75% da islamisti sunniti, aventi il fine di abbattere il regime siriano per instaurare uno Stato islamico. In ultimo, Washington deve fare i conti con l’elevata infiltrazione estremista del fronte ribelle che tende ad aumentare nel tempo. Tutto ciò contribuisce a rendere difficile il raggiungimento di qualsiasi accordo.

Se la comunità internazionale e soprattutto Washington, Mosca, Teheran e Riyadh non riusciranno a trovare un punto di convergenza per esercitare la dovuta pressione sul governo di Damasco e se non si riusciranno a individuare con maggiore chiarezza gli interlocutori legittimi e realmente rappresentativi tra i ribelli, non vi sarà alcuna possibilità di instaurare alcun processo negoziale. Il 15 maggio scorso si è tenuta a Londra una riunione degli undici paesi amici della Siria (di cui fa parte anche l’Italia), per discutere su come ottenere la riapertura dei colloqui di pace, come fornire assistenza ai ribelli e come rispondere alla grave crisi umanitaria; in quella sede, tuttavia, non è stata trovata una via d’uscita all’attuale stallo della crisi.

Qualsiasi piano dovrebbe essere presentato al Consiglio di sicurezza dell’ONU e dovrebbe superare l’esame di Russia e Cina, che finora hanno posto il veto per ben tre volte in tre anni.[3] Inoltre, l’attacco dinamitardo dell’8 maggio scorso da parte dell’Islamic Front, che ha raso al suolo il Carlton Hotel di Aleppo, uccidendo almeno venti militari siriani di guarnigione, ha inasprito nuovamente il conflitto a poche ore dalla riconquista da parte dell’esercito siriano di Homs e dall’illusione che accordi e cessate il fuoco locali potessero fornire un utile strumento di mediazione e di risoluzione parziale degli scontri.

La prospettiva più probabile nel breve termine è quindi una cronicizzazione del conflitto, che favorirà con ogni probabilità il rafforzarsi del regime di Assad e delle fazioni ribelli più estremiste, a scapito, come sempre, del popolo siriano.



[1] B. Scheller, The Wisdom of Syria’s Waiting Game, Hurst & Company, London 2013.

[2] Secondo un rapporto di Human Rights Watch, nel mese di aprile 2014 sarebbero stati condotti diversi attacchi chimici nel nord della Siria, vicino ad Hama e Idlib (Keferzita, al Teman, Telmans). Diversi testimoni affermano che l’esercito siriano avrebbe lanciato dagli elicotteri dei barili contenenti cilindri riempiti di cloro, uccidendo undici persone e intossicandone circa cinquecento. Questi eventi, se confermati dalle indagini dell’Organization for Prohibition of Chemical Weapons, potranno portare a nuove misure nei confronti di Damasco, alterando l’attuale situazione di stallo della crisi.

[3] L’impossibilità di procedere nei negoziati per la pace, a causa della mancanza di collaborazione da parte di Damasco ma anche per i disaccordi tra i membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU, sono all’origine delle dimissioni, lo scorso 13 maggio 2014, del mediatore delle Nazioni Unite Lakhdar Brahimi. Ciò contribuisce a gettare ulteriore discredito sulla capacità dell’ONU di risolvere il conflitto, aumentando l’incertezza sulle sorti della guerra in Siria, che sembra sempre più destinata a proseguire.

 

 


Foto: Freedom House