Convivenza civile

Di Antonio Menniti Ippolito Mercoledì 10 Febbraio 2010 14:32 Stampa

Con buona pace di John Locke, per il quale la società naturale, governata dalla legge di natura che egli identificava con la stessa ragione, si fondava sull’uguaglianza e sul rispetto reciproco, se c’è una cosa che la storia insegna è la difficoltà degli uomini di vivere assieme. Filosofie, religioni, ideologie elaborate per rimediare a ciò, delineando non solo i tratti di nuovi modelli sociali e politici, ma pure azzardando l’ipotesi di poter creare un uomo nuovo, hanno finito con l’alimentare quella difficoltà e non ad annullarla, dando agli storici, ai politici, agli intellettuali una ragione d’essere.



Con buona pace di John Locke, per il quale la società naturale, governata dalla legge di natura che egli identificava con la stessa ragione, si fondava sull’uguaglianza e sul rispetto reciproco, se c’è una cosa che la storia insegna è la difficoltà degli uomini di vivere assieme. Filosofie, religioni, ideologie elaborate per rimediare a ciò, delineando non solo i tratti di nuovi modelli sociali e politici, ma pure azzardando l’ipotesi di poter creare un uomo nuovo, hanno finito con l’alimentare quella difficoltà e non ad annullarla, dando agli storici, ai politici, agli intellettuali una ragione d’essere.
Il vocabolario spiega la parola convivenza con il «convivere, il fatto e la condizione di vivere insieme, in uno stesso luogo». La convivenza civile costituisce uno dei modi di convivere ed è spesso legata ad un aggettivo che la qualifica ulteriormente – o che la auspica – come “pacifica”, “armoniosa” ecc. Nella definizione di quella forma di convivenza è scontato individuare diversi significati possibili. Auspicare ad esempio una convivenza civile tra due coniugi il cui rapporto s’è incrinato comporta il rispetto di forme, non il ripristino di una armonia forse per sempre finita. A questo tipo di difficile convivenza civile può essere del resto assimilata la condizione delle regioni balcaniche che con le buone o le cattive riuscirono a convivere finché sopravvisse Tito. E non è
un caso che pensatori politici abbiano spesso paragonato gli Stati alle famiglie, per di più caratterizzando talvolta queste ultime in modo non idealistico, ma quale un laboratorio di contrasti e, conseguentemente, di difficili soluzioni. Si hanno insomma convivenze civili per così dire fondate su elementi sostanzialmente positivi e convivenze forzate, basate sul rispetto di regole magari subite, ma la cui osservanza impedisce guai peggiori. Analizzando sul web ciò che risulta dalla pagina italiana del più noto motore di ricerca s’ottengono 1.600.000 risultati (difficile compiere la stessa indagine sul sito inglese per la mancanza di una precisa formula corrispondente). Sfogliando sommariamente detti risultati risaltano gli appelli allarmati per lo smarrimento del senso di convivenza civile. Si va in ogni direzione: dalle violazioni gravissime (razzismo ecc.) alla denuncia di quelle minime (del genere parcheggio in doppia fila) e però presentate come capaci di ingenerare conseguenze disastrose. Immancabili gli appelli ai valori, al sentimento identitario. Quello che si denuncia, sintetizzando, sono soprattutto incidenti piccoli o addirittura minimi, quasi più gli sgarbi che le offese. Di fatto si grida alla fine della “civiltà delle buone maniere” e ci si propone di norma di rafforzare i valori violati. Norbert Elias (1897-1990),1 con la definizione di “civiltà delle buone maniere”, intese descrivere un processo “di civilizzazione” che riguardò le élite europee e che portò al superamento delle forme di violenza tipiche del Medioevo per il tramite dell’acquisizione di sensibilità, comportamenti, che consentirono all’uomo occidentale di contenere gli impulsi e di adottare stili di vita fondati sull’educazione e sulla cultura. Tale processo è peraltro legato in età moderna alla progressiva affermazione del mono polio dello Stato sulla forza e ad un processo di crescente e invasiva pressione sui singoli e sui gruppi sociali teso a far loro interiorizzare e ad assumere come proprie le convenzioni proposte. L’affermarsi della “civiltà delle buone maniere” portò insomma ad elaborare quei principi che finirono poi col caratterizzare gli Stati e le normative da questi prodotte per garantire la convivenza civile. E si arriva così ad un’altra definizione di convivenza civile, quale forma di vivere sociale tutelato da norme. Vale a dire la convivenza civile fondata su regole la cui osservanza può essere garantita e addirittura imposta dallo Stato.
Regole, norme, anzi, eccesso di regole e norme. Si tratta di una delle patologie più evidenti dei nostri sistemi dove tra l’altro poi poco ci si cura in genere di far rispettare ciò che s’emana. Di fronte alla avvertita distruzione delle fondamenta della convivenza convivenza civile, nel senso spesso anche esagerato di cui sopra s’è detto, ci si appella a nor me che difendano i valori e le identità, si auspica un recupero anche forzato di spirito comunitario. Sembra un processo inevitabile: sentirsi parte di una comunità legata da valori comuni, reali o presunti, offre la possibilità di raffrontarsi agli altri sentendosi parte di una entità forte e ampia – reale oppure solo immaginata sulla spinta di determinate ideologie sociali e politiche. E però se tutto ciò, visto dall’interno, pare avere valenza virtuosa in quanto fonte di unità e solidarietà, visto dall’esterno quel sentimento, quel tipo di legami, appaiono invece come pericoloso segno di disgregazione. Come un veleno che pone un gruppo contro un altro, che contrappone titolari di identità contro testimoni di altre identità. La tradizione di un gruppo viene imposta ad altri con la elaborazione di norme rivolte a tutti, con l’imposizione di una improvvisata, rozza, religione civica (che è pure, ovviamente senza volere, facilitata dall’infelice appello papale al “fate come se...”). La convivenza civile, nel nostro mondo, rischia così di venire insidiata, e non più garantita, dalle regole. Queste ultime imporrebbero forme di vita associata addirittura odiose a parti della comunità (e proprio in tale carattere esse troverebbero la loro ragione). Una convivenza ancora civile?




[1] N. Elias, La civiltà delle buone maniere. La trasformazione dei costumi nel mondo aristocratico occidentale, nuova edizione, Il Mulino, Bologna 2009.