Immagine, realtà e filosofia

Di Carlo Freccero Martedì 09 Febbraio 2010 20:22 Stampa
La filosofia, con Debord, Baudrillard e altri, comincia a parlare di superamento del reale attraverso i concetti di spettacolo, simulacro, simulazione ancor prima che l’immagine virtuale trovi una compiuta realizzazione. Tuttavia, sarà la rivoluzione dell’“immateriale” − che dagli anni Ottanta in avanti porta all’affermarsi del concetto di realtà virtuale − a determinare radicali trasformazioni nel cinema, nell’informazione e nella comunicazione in generale, con conseguenze importanti sulla percezione degli eventi (a partire dal prevalere dell’approccio emotivo su quello analitico) e sullo stesso concetto di verità.

 Se i media agiscono sul nostro modo di pensare, spesso è il pensiero, la Weltanschauung di un’epoca, ad anticipare la nascita di un medium, magari influenzata a sua volta, dalle prime ricerche e dai primi esperimenti.
Nella seconda metà dell’Ottocento il positivismo condiziona in modo deciso la letteratura. Naturalismo francese e verismo italiano hanno un forte interesse per la realtà sociale che va formandosi sotto la spinta della rivoluzione industriale. Per la prima volta proletariato e piccola borghesia diventano i protagonisti ideali del romanzo. Il mito di questa corrente è registrare la realtà nei suoi aspetti oggettivi, materiali, talvolta persino sgradevoli. La pagina scritta anticipa, con le sue descrizioni, l’inquadratura cinematografica. La fotografia costituirà la tessera finale che sembrerà rendere possibile fissare la realtà in quanto tale. La fotografia nasce in bianco e nero. I contrasti drammatici di luci e ombre, esasperano la tensione emotiva dell’azione e l’intensità dei personaggi.1
Anche nel cinema il bianco e nero avrà una forte valenza espressiva. Non potremmo immaginare l’espressionismo tedesco dei primi decenni del Novecento o il neorealismo italiano del dopoguerra girati in un technicolor hollywoodiano.
Un fenomeno analogo e opposto si realizza verso la metà del Novecento a proposito dell’immateriale.
Come il verismo anticipa la fotografia e il cinema, così, prima che l’immagine virtuale vera e propria si realizzi, la filosofia comincia a parlare di superamento del reale con concetti come spettacolo, simulacro, simulazione.
È come se l’universo subisse una duplicazione in chiave spettacolare ben prima dell’avvento di spazi virtuali come Second life o i videogiochi.
Le strutture economiche della società perdono il loro spessore materiale per farsi immagine. Alla dimensione realistica o neorealistica dello sfruttamento si sostituisce lo spettacolo del consumo.
Nel 1967, quando Guy Debord scrive “La società dello spettacolo”, la società, soprattutto europea, è ancora una società preconsumistica in cui i consumi non soltanto non sono diffusi, ma addirittura guardati con sospetto. Debord ha l’intuizione profetica di uno spettacolo pronto a rivoluzionare la società, in senso illusionistico e irreale.
Il suo libro inizia con una frase di Ludwig Feuerbach tratta alla prefazione alla seconda edizione de “L’essenza del Cristianesimo”: «E senza dubbio il nostro tempo (...) preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere».
Per teorizzare a sua volta, poco dopo: «Là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini divengono degli esseri reali e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico».2
Per Debord a farsi immagine sono le stesse strutture economiche della società: «Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine».3
L’esordio de “La società dello spettacolo” è una parafrasi di Karl Marx. La sua prima frase corrisponde infatti alla prima frase de “Il Capitale”: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa produzione di merci».4 «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni moderne di produzione, si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli».5
L’analisi di Marx è legata al primo capitalismo. Quella di Debord all’evoluzione del capitalismo in chiave consumistica. Gli strumenti per teorizzare lo spettacolo gli sono forniti però, ancora una volta, dall’analisi che Marx fa ne “Il Capitale” del carattere feticcio della merce. «La forma di merce e il rap- porto di valore dei prodotti del lavoro nel quale si presenta non ha assolutamente nulla a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni fra cosa e cosa che qui ne derivano. Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi».6
E al tema del carattere feticcio della merce fa riferimento anche Jean Baudrillard, rafforzandolo con una tesi centrale della linguistica di quegli anni: il progressivo distacco dal referente.
Nella società dei consumi il consumo è consumo immateriale. «Nella misura in cui i bisogni primari sono soddisfatti, noi abbiamo forse altrettanto, se non di più, bisogno di questa commestibilità fantasmatica, allegorica, subconscia dell’oggetto che della sua vera funzionalità».7
Ciò che caratterizza la società dei consumi è il fatto che gli oggetti assumono essenzialmente valore di segno. È grazie a questa trasformazione in segni che gli oggetti diventano capaci di integrarsi in un sistema.
In linguistica il segno si compone di un significante e di un significato. Tra significante e significato non vi è un rapporto necessario, ma convenzionale. A sua volta il segno fa riferimento ad un referente, un soggetto reale. Nella società attuale, secondo Baudrillard, tutti i processi comunicativi tagliano via ogni relazione tra segno e referente o realtà. Il segno fluttua liberamente staccato da ogni riferimento al reale, con l’unico obbligo di circolare liberamente. L’iperreale precede e costituisce il reale. Perché il reale è inattingibile, mentre il simulacro è sottoposto a incessante circolazione.
Il pensiero di Baudrillard anticipa sorprendentemente il virtuale.
L’immagine virtuale non è più copia di una realtà esterna, ma l’unica forma di realtà a cui fare riferimento.
Scrive in proposito Régis Debray: «La simulazione abolisce il simulacro, togliendo così l’immemorabile maledizione che accoppiava immagine e imitazione. La prima era incatenata al suo statuto speculare di riflesso, calco o illusione: nel migliore dei casi sostituto, nel peggiore dei casi inganno, ma sempre illusione.
Sarebbe allora la fine del millenario processo delle ombre, la riabilitazione dello sguardo nel campo del sapere platonico. Con il concepimento assistito dal computer, l’immagine prodotta non è più copia di un oggetto anteriore, è l’inverso. Aggirando l’opposizione dell’essere e dell’apparire, della parvenza e della realtà, l’immagine infografica non deve più mimare un reale esterno, poiché è il prodotto reale che dovrà appunto imitarla per esistere».8


La realtà virtuale

La rivoluzione dell’immateriale si colloca negli anni Ottanta.
Negli ambienti informatici americani comincia a circolare il concetto di realtà virtuale, una realtà percettiva indotta da apparecchiature cibernetiche in grado di sostituire il normale funzionamento dei sensi. È una realtà artificiale di cui possiamo però avere esperienza.
Per la prima volta la sensazione non ha per oggetto il reale, ma immagini computerizzate di oggetti. Questa realtà è detta “virtuale”, in quanto potenziale, ma non nel senso aristotelico del termine.
Nel 1985 ha luogo a Parigi, presso il Centre George Pompidou, una grande mostra dal titolo “Les immatériaux”.
Danno il loro contributo filosofi importanti come Paul Virilio, studioso della velocità, o Jean- François Lyotard, teorico del postmoderno. Nell’editoriale al catalogo che raccoglie gli interventi, Elie Theofilakis scrive: «La nostra modernità si esaurisce, la nostra modernità muore (...). Ma simultaneamente, in questa fine di secolo, i vertiginosi sviluppi della tecnoscienza relegano 5000 anni della nostra storia all’età della pietra e l’umano, come misura di tutte le cose, al museo della nostalgia (...) la cibernetica, l’informatica, la biogenetica, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, aprono infine delle potenzialità. (...) Il nostro mondo, che si doveva cambiare (...) si trova oggi talmente modificato che è necessario e urgente reinterpretarlo. Le nuove realtà che si impongono nel quadro della nostra tecnocultura rimpiazzano l’interfaccia uomo/natura con quella uomo/tecnica (...). La capacità del nostro apparato sensoriale è superata (...). Ormai operiamo in un reale di cui non abbiamo più la prova: siamo immersi nell’immateriale delle informazioni, distanze, velocità, cambiamenti di nozione, spostamenti e materializzazione di tutti i segni dell’antico ordine di riconoscimento ».9
Una frattura si è consumata: la percezione virtuale ha preso il sopravvento sull’esperienza quotidiana.
Le maggiori conseguenze riguardano lo statuto dell’immagine. Scrive in proposito Debray: «Nella storia dell’immagine, il passaggio dall’analogico al digitale instaura una rottura che nel suo principio è equivalente all’arma atomica nella storia degli armamenti o alla manipolazione genetica nella biologia. Da via d’accesso all’immateriale l’immagine informatizzata diventa essa stessa immateriale, informazione quantificata, algoritmo, matrice di numeri modificabile a volontà e all’infinito tramite un’operazione di calcolo». 10

La fiction

L’avvento di una realtà virtuale prodotta al computer ha grosse ricadute in particolare sull’industria cinematografica.
Oggi il digitale con l’immagine virtuale permette l’esplosione della fiction e dà completa autonomia alle proiezioni fantastiche della letteratura, che non potevano trovare prima piena realizzazione.
Con la possibilità di produrre immagini sintetiche, le fantasie della fantascienza sono finalmente realizzabili sugli schermi.
L’immaginazione umana, che ha la possibilità di evocare o produrre immagini indipendentemente dalla presenza dell’oggetto a cui si riferiscono, trova per la prima volta la possibilità di esprimersi a livelli mai raggiunti. Esiste da sempre una letteratura fantastica. La sua trasposizione sugli schermi implicava difficoltà insormontabili. Con gli effetti speciali e le immagini virtuali, le potenzialità della fantasia trovano una realizzazione visiva.
Gli effetti sono molteplici. La produzione cinematografica abbandona film realistici o d’autore, per concentrarsi su alcuni generi di successo come fantasy, fantascienza, horror, che a lungo erano stati relegati in una produzione di nicchia.
Così come la fotografia in bianco e nero ha prodotto il neorealismo, le infinite potenzialità del virtuale danno vita a kolossal come “Guerre stellari”, “Il signore degli anelli”, “Harry Potter”.
Spesso si tratta di remake. Si rifanno “La mummia”, “King Kong”, “La guerra dei mondi”, film girati a suo tempo con mezzi tecnici limitati. Il costo per pellicola lievita considerevolmente. Solo il cinema americano può permetterselo. Così la fiction americana è proiettata verso il futuro; la fiction italiana ed europea verso il passato.
L’immaginazione dello sceneggiatore o dello scrittore non è quindi limitata, ma la realtà virtuale opera una selezione sulla scelta dei generi.
Nasce poi un genere particolare, costituito sul concetto di “virtuale”. Film come “Tron”, “Il tagliaerbe”, “Matrix” trovano nella realtà virtuale il loro soggetto. L’immaginario della fantascienza esprime, come tutti sanno, non tanto la paura del futuro, quanto le inquietudini inconsce del presente. E questo scenario, dagli anni Ottanta, si è venuto progressivamente spostando in direzione di una totale connessione.
L’indistinzione, la fusione, non è più tra uomo e macchina, ma tra uomo e collettività virtuale. L’espressione dell’immaginario recente non è più “Blade Runner”, l’attrazione per il replicante, la rivelazione di essere un replicante, ma “Matrix”, un universo fittizio, una second life che ha sostituito la vita biologica e le sue necessità materiali. L’uomo nuovo non è Neo che lotta per riappropriarsi della vita reale, ma il traditore che si è arreso all’evidenza della superiorità della vita simulata rispetto alla vita reale.
In “Matrix” la metafora della connessione è data dallo spinotto conficcato nella spina dorsale dei corpi dormienti che, come un cordone ombelicale, li connette alla rete. La riconoscibilità tra reale e virtuale sta nell’eleganza del mondo contraffatto, rispetto alla prosaicità del mondo reale. Nella realtà i corpi sono sporchi e sudati. Nella simulazione indossano abiti di vinile e occhiali a specchio. La resistenza si ribella alla connessione, alla contraffazione, ma “Matrix” è più significativa, più complessa, più ricca del mondo reale. “Matrix” è la matrice del genere umano reso schiavo dalla macchina.

L’informazione

L’immagine virtuale non si è limitata a colonizzare il nostro immaginario, la sua influenza ricade anche sulla comunicazione e l’informazione provocandone una radicale trasformazione.
L’avvento del digitale è stato salutato con entusiasmo. La diffusione sul territorio di mezzi di re- gistrazione a basso costo, telefonini e cineprese, che permettono anche all’uomo della strada di raccogliere la testimonianza di un evento improvviso, ha in qualche modo “democratizzato” l’informazione. Tutti possono concorrere a creare una notizia. E difficilmente un evento può passare inosservato o restare privo di documentazione.
Eventi drammatici come il G8 di Genova sono stati ripresi da tutte le possibili angolazioni, da tutti i possibili punti di vista. Niente può essere occultato. La disseminazione sul territorio di mezzi di comunicazione a basso costo e la possibilità di diffondere tramite internet le notizie che i media ufficiali censurano hanno dato nuovo fiato e nuove speranze alla controinformazione, che, dagli anni del movimento, si è evoluta sino ad oggi.
Nel mondo attuale la verità sembra più vicina, documentabile. Ma c’è un effetto perverso delle tecniche digitali, che fornisce nuovi strumenti alla manipolazione dell’informazione e alla spettacolarizzazione dell’informazione.
Il primo elemento riguarda l’attendibilità dei messaggi.
Vedere con i propri occhi è stato sempre sinonimo di oggettività. Le nuove tecnologie digitali permettono la manipolazione dell’immagine, già allo stadio della sua formazione. In un futuro in parte già presente le immagini non saranno necessariamente vere. Per la prima volta si è spezzato il legame naturale tra immagine e realtà.
L’evidenza come criterio di verità ha perso ogni significato.
La denuncia dell’illusorietà dell’immagine è già presente nella filosofia antica con lo scetticismo. E in epoca moderna anche l’empirismo parte dalla sensazione per arrivare a negare la realtà in favore di una prima forma di idealismo. Ma in tutti questi casi la separazione tra immagine, esperienza e realtà è un effetto perverso e indesiderato della inadeguatezza dei nostri strumenti conoscitivi, nei confronti di quella oscura cosa in sé che rappresenta il reale.
Oggi per la prima volta l’immagine è un prodotto autonomo, sintetico, completamente indipendente dal reale, puro frutto della creatività umana.
Ciò non può essere privo di conseguenze culturali, la prima delle quali è l’indifferenza nei confronti del vero. Le nuove tecnologie rendono intercambiabili falso e vero, almeno a livello percettivo. L’inflazione di una apparente verità frutto di simulazione priva la verità del suo aspetto sacrale.
Oggi la comunicazione può essere contraddittoria, senza per questo scandalizzare il suo uditorio.
In “Contro la comunicazione”11 Mario Perniola cita il caso di un uomo politico, facilmente riconoscibile, che esordisce con una affermazione, la smentisce successivamente, per riaffermarla infine di nuovo a seconda dell’opportunità retorica del momento. Una regola fondamentale del pensiero occidentale, il principio di non contraddizione, sembra aver perso ogni autorità e ogni peso.
Il secondo elemento riguarda l’evoluzione dell’informazione in evento.
L’uso della diretta e la moltiplicazione delle cineprese sul territorio (diffusione delle reti di informazione, CNN, FOX, degli strumenti di uso personale, telefonino, cineprese digitali ecc.) hanno fatto sì che i grandi eventi (incidenti, attentati, disastri naturali) possano avere una copertura video in diretta quasi integrale. L’evento viene quindi consumato nella sua immediatezza, come puro spettacolo.
La ricerca delle cause e delle motivazioni passa in secondo piano. Il motivo è prima di tutto mediatico.
Un giornalismo in differita (e un giornalismo che interviene a posteriori è necessariamente in differita) anziché mostrare l’evento deve necessariamente fare un discorso più complesso, più articolato, più approfondito.
Pensiamo ad una notizia trasmessa dalla televisione, commentata dai giornali, oggetto di indagine da parte di settimanali e mensili in video e della carta stampata. Ad ogni passaggio la notizia si arricchisce di particolari e colpi di scena. La televisione ha il pregio della tempestività. La carta stampata, ma anche il reportage, trasformano l’evento in un’inchiesta, inseriscono le immagini in un rapporto di causa-effetto che conferisce senso agli eventi.
Il fatto che la televisione inserisca gli eventi nel novero delle grandi cerimonie mediatiche fa sì che la consumazione spettacolare, visiva, prevalga sulle analisi. La consumazione dell’evento è quindi non razionale ma emotiva.
E c’è anche una componente culturale. Per la generazione a cui appartiene chi scrive, un grande evento era sinonimo di diffidenza e desiderio di comprensione. Oggi, invece, l’evento provoca commozione.
Niente accade per caso e ogni evento ha profonde motivazioni, o sociali o interiori.
Comprendere un evento è dipanare una catena di connessioni; oggi, invece, un evento non deve essere compreso, ma piuttosto deve emozionare, commuovere, scioccare.
La sua consumazione è immediata, non differita. Non interessa la sfera logica, bensì quella emotiva. Il Novecento è stato dominato dal “politico”. C’era sempre una lettura politica delle cose. Oggi il reality ci ha abituato a cercare negli eventi soprattutto un impatto emotivo.
Colpisce l’affermazione di uno studente di comunicazione in una trasmissione di Rai Educational sull’11 settembre: «Non mi interessa sapere chi abbia organizzato tutto, mi interessa conoscere i sentimenti di quei civili e di quei pompieri che dell’11 settembre sono stati vittime». Introspezione anziché analisi politica.
La consumazione dell’evento come spet - tacolo in diretta non esclude approfondimenti e inchieste.
Questi verranno però necessariamente in epoche successive e, come i reportage venduti in cassetta, avranno una circolazione marginale e limitata a un pubblico motivato che cerca quel tipo di prodotto.
Trecentomila copie vendute di un reportage rappresentano grandi numeri, ma non sono nulla rispetto ai milioni di spettatori raggiungibili dalla televisione. L’articolo e il reportage si rivolgono ad un pubblico dotato di capitale culturale, abituato ad affrontare gli eventi come problemi.
La grande massa del pubblico vive l’impatto con l’evento solo emotivamente e rimuove immediatamente l’attenzione perché nuove immagini lo coinvolgono.
Il reportage si rivolge a chi ha memoria e cerca un senso nelle cose.
Viviamo oggi in una società “liquida”, incapace di fissare punti fermi e valori. Anche la nostra attenzione è liquida e incapace di curiosità perché ci manca l’impegno per raggiungere e perseverare nella ricerca delle cause.
Questa liquidità dell’attenzione funziona anche come forma di censura e rimozione. Oggi i politici possono fare in momenti diversi affermazioni contraddittorie sicuri che il pubblico non ne registrerà l’incompatibilità.
Platone fa fare a Socrate la critica della scrittura che fisserebbe una volta per tutte il raggiungimento di una verità, di una certezza, impedendo un’ulteriore ricerca.
Oggi viviamo il problema opposto.
Per la prima volta dopo l’avvento della “galassia Gutenberg” una generazione si forma sugli audiovisivi, prima ancora di apprendere la scrittura.
Per chi è più adulto, come chi scrive, è venuta prima la formazione a scuola e solo in seguito la nascita della televisione. Oggi i bambini conoscono televisione, video, videogiochi e computer ben prima della loro alfabetizzazione e hanno con l’universo visivo un rapporto di maggior naturalezza che con la carta stampata. Per questo mancano di quella fissità che per Socrate era negativa. Ma a differenza di Socrate non cercano nulla, non intraprendono nemmeno la ricerca della verità.
Il loro universo è l’universo dei videogiochi, in cui si è immersi improvvisamente, come in una provetta, e il cui scopo è l’emozione immediata, l’intervento immediato nella situazione, senza porsi domande sulle cause, come avveniva invece nel romanzo.

 

 


1 R. Barthes, La camera chiara. La nascita della fotografia, Einaudi, Torino 1980.
2 G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano 1997, p. 58.
3 Ivi, p. 64.
4 K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1970.
5 Debord, op. cit.
6 Marx, op. cit., p. 86.
7 J. Baudrillard, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 1968, pp.154-55.
8 R. Debray, Vita e morte dell’immagine, Il Castoro, Milano 1989, p. 231.
9 E. Theofilakis (a cura di), Modernes et après? Les immatériaux, Autrement, Parigi 1985, p. X.
10 Debray, op. cit., pp. 230-31.
11 M. Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004.

 

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