Berlinguer ti voglio bene

Di Carlo Pinzani Lunedì 01 Maggio 2006 02:00 Stampa

Negli ultimi tempi sembra essere ripreso l’interesse storiografico per la storia del Partito comunista italiano e specialmente per gli anni a noi più vicini. Si tratta, in definitiva, di un fenomeno abbastanza naturale. Il crollo di regimi politici d’ogni dimensione comporta sempre una successione di fasi: dall’iniziale e pressoché generale e assoluta condanna del fenomeno storico che si è esaurito si passa, in un volgere di tempo più o meno prolungato, a tentativi di comprensione meno indifferenziati e, talvolta, a rinnovate apologie (o a rinnovati, artificiosi linciaggi). Nel caso del comunismo, viste le tragedie provocate, la fase della riprovazione ha avuto un’intensità assai marcata, al punto che è possibile affermare che, in questo caso, a scanso d’equivoci, si è provveduto deliberatamente a gettare il bambino con l’acqua sporca e, anzi, si è cercato di estendere la riprovazione all’intera, bisecolare tradizione del socialismo. Ne è conseguita una sorta di damnatio memoriae di un’intera tradizione culturale e, con l’eccezione dei ristretti gruppi che ancora si muovono nel solco della tradizione comunista più o meno rifondata, è divenuto quasi impossibile trovare riferimenti alle opere che, una volta, si chiamavano «classici del marxismo» e che, viceversa, ancora oggi mantengono un loro valore come strumenti d’interpretazione della realtà.

 

Negli ultimi tempi sembra essere ripreso l’interesse storiografico per la storia del Partito comunista italiano e specialmente per gli anni a noi più vicini. Si tratta, in definitiva, di un fenomeno abbastanza naturale. Il crollo di regimi politici d’ogni dimensione comporta sempre una successione di fasi: dall’iniziale e pressoché generale e assoluta condanna del fenomeno storico che si è esaurito si passa, in un volgere di tempo più o meno prolungato, a tentativi di comprensione meno indifferenziati e, talvolta, a rinnovate apologie (o a rinnovati, artificiosi linciaggi). Nel caso del comunismo, viste le tragedie provocate, la fase della riprovazione ha avuto un’intensità assai marcata, al punto che è possibile affermare che, in questo caso, a scanso d’equivoci, si è provveduto deliberatamente a gettare il bambino con l’acqua sporca e, anzi, si è cercato di estendere la riprovazione all’intera, bisecolare tradizione del socialismo. Ne è conseguita una sorta di damnatio memoriae di un’intera tradizione culturale e, con l’eccezione dei ristretti gruppi che ancora si muovono nel solco della tradizione comunista più o meno rifondata, è divenuto quasi impossibile trovare riferimenti alle opere che, una volta, si chiamavano «classici del marxismo» e che, viceversa, ancora oggi mantengono un loro valore come strumenti d’interpretazione della realtà.

Uno di questi riferimenti mi è venuto spontaneamente alla memoria a conclusione della lettura di due libri, rispettivamente di Francesco Barbagallo e Silvio Pons, entrambi dedicati a Berlinguer, il primo con intendimenti biografici generali e il secondo centrato invece sugli ultimi anni di vita del politico sassarese.1

Il riferimento riguarda il concetto di partito politico secondo Antonio Gramsci, che affronta la questione muovendo dalla storiografia dei partiti. «Ecco quindi che dal modo di scrivere la storia di un partito risulta quale concetto si abbia di ciò che un partito è o debba essere. Il settario si esalterà nei fatterelli interni, che avranno per lui un significato esoterico e lo riempiranno di mistico entusiasmo; lo storico, pur dando ad ogni cosa l’importanza che ha nel quadro generale, poserà l’accento soprattutto sull’efficienza reale del partito, sulla sua forza determinante – positiva e negativa – nell’aver contribuito a creare un evento e anche nell’aver impedito che altri eventi si compissero».2

Questa dicotomia mi è apparsa applicabile alle due opere considerate, con indispensabili e rilevanti attenuazioni del giudizio gramsciano in entrambi i sensi.

Entrambe le opere appartengono senza dubbio alla storiografia dei partiti alla quale si riferiva Gramsci nel suo giudizio metodologico generale, che si spinge anche fino alla considerazione del ruolo delle individualità nella vita del partito. Sotto questo profilo, il taglio biografico impartito da Barbagallo alla sua ricostruzione, lo porta a sottolineare il ruolo dell’individualità di Berlinguer nella storia del PCI e, attraverso questo, nella storia d’Italia. Tuttavia, non sembra che l’autore sia sempre riuscito (come invece si conviene a tutti i biografi) a conservare un vigile e continuo senso critico sull’oggetto dello studio e a mantenere quindi la debita distanza dal personaggio di cui scrive.

Soprattutto per questo motivo il libro di Barbagallo va collocato nella prima delle due categorie individuate da Gramsci, anche se sarebbe certamente eccessivo qualificarlo tout court come settario. Tutta la ricostruzione, dagli esordi politici di Berlinguer ancora giovanissimo nella sua natia Sassari alla morte drammatica, avvenuta nel pieno della campagna elettorale per le elezioni europee del 1984 (quelle del famoso «sorpasso» sulla DC), è fatta sulla base di una ricca e dettagliata analisi delle fonti edite e inedite, soprattutto interne al PCI, giungendo per questa via a ricostruire con ricchezza e precisione il dibattito italiano e internazionale nel movimento comunista. Sono inoltre ricostruite in maniera convincente la psicologia e la cultura di Berlinguer, illuminando un percorso politico culminato nell’acquisizione di un grande prestigio politico interno e internazionale, pienamente meritato per le sue caratteristiche umane e morali che, a loro volta, alimentarono un grande carisma.

Tuttavia, la linea interpretativa lungo la quale Barbagallo si muove è quella rigorosamente tradizionale seguita dal PCI nella sua lunga storia e che, per molti aspetti, si è continuato a seguire anche dopo la sua trasformazione. I comunisti italiani e buona parte della storiografia ad essi vicina hanno sempre sostenuto la «specialità» del caso italiano nel movimento comunista internazionale, specialità da ricondurre soprattutto alla questione cattolica e al fatto che l’Italia è stata il primo paese in cui si è affermato un regime fascista, giunto al potere anche grazie alle incertezze e ai cedimenti dei socialisti italiani.

La volontà di scissione dal socialismo era stata anche alla base della scelta di Lenin e dei bolscevichi di costituire fin dagli inizi del Novecento un partito che fosse adatto alla conduzione della lotta politica nelle durissime condizioni dell’impero zarista, ovviamente senza alcuna preoccupazione sul suo carattere democratico. Si trattava di organizzare un’avanguardia politica e militare che fosse in grado di guidare anche il ricorso alla violenza di massa, come di fatto avvenne nel corso del 1917 quando in Russia fu possibile dare attuazione alle risoluzioni di Stoccarda e di Basilea, adottate dalla Seconda Internazionale, sulla trasformazione della guerra imperialistica in guerra rivoluzionaria. La rivoluzione d’ottobre doveva approfondire la rottura tra socialisti e comunisti, ma ben presto la mancata estensione del movimento a Occidente e l’isolamento del nuovo potere bolscevico indussero il partito russo a imporre all’Internazionale comunista la tattica del fronte unico con le socialdemocrazie.

Questa scelta fu avversata dai comunisti italiani: al III Congresso dell’IC, in polemica diretta con lo stesso Lenin, Terracini sostenne l’impossibilità di praticare in Italia una politica di fronte unico con i socialisti. Da questo momento il problema del rapporto con i socialisti è stato uno dei fili conduttori della storia dei comunisti italiani, anche se proprio la posizione assunta al III Congresso indusse l’Internazionale a dare il suo appoggio al rinnovamento del gruppo dirigente italiano e, quindi, all’ascesa degli «ordinovisti» alla guida del PCI, sostituendo il settario gruppo dirigente di Bordiga.

L’ascesa di Stalin e la conseguente progressiva chiusura del PCUS sia nella politica interna (con l’abbandono della NEP) sia in quella internazionale (con la decisione di costruire il socialismo in un paese solo), determinarono in tutto il movimento comunista una svolta settaria e intransigente, la cui prima vittima fu Angelo Tasca e dalla quale si dissociò Antonio Gramsci. La sua famosa lettera ai dirigenti russi che stigmatizzava la degenerazione dei metodi di lotta politica all’interno del partito sovietico, non fu consegnata ai destinatari da Togliatti, ben consapevole che ormai tutti gli spazi erano chiusi e che se si voleva la sopravvivenza del PCI, perseguitato in Italia dalla repressione fascista, occorreva piegarsi alle decisioni dell’IC, vale a dire del gruppo dirigente del partito sovietico o, ancor più correttamente, del suo segretario. A questo punto, «la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre» era già esaurita, come ebbe a proclamare cinquanta anni dopo proprio Enrico Berlinguer, senza che questo comportasse minimamente un giudizio negativo indiscriminato sull’Unione Sovietica dopo il 1925.

In questo caso la «specialità» italiana fatta valere da Terracini nel senso dell’estremismo settario e della diffidenza nei confronti dei socialisti, si uniformava alla linea dell’IC, rinnegando buona parte della politica che il gruppo dirigente ordinovista aveva perseguito. Il principio leninista del ruolo determinante delle avanguardie si era trasformato per tutto il movimento comunista in un dogma che trasferiva per delega il potere dalla classe al partito che, poi, attraverso il meccanismo della cooptazione, provvedeva all’elevazione dei membri di quella. Il dogma della prevalenza del partito in tutta la vita politica e sociale doveva favorire la sclerosi della dialettica interna che, insieme alla totale assenza dei meccanismi istituzionali della democrazia, condussero all’uso generalizzato della repressione nei confronti del dissenso.

Grazie a questa svolta – che andava contro le sue convinzioni più radicate, ma altrettanto accuratamente dissimulate – Togliatti divenne capo del partito italiano. Dopo che la sciagurata parola d’ordine del «socialfascismo» aveva massicciamente contribuito all’avvento del nazionalsocialismo in Germania, con il VII Congresso del 1935,

l’Internazionale tornò al fronte unico nella sua versione antifascista e Togliatti riuscì a recuperare durevolmente spazi di autonomia via via crescenti per l’elaborazione di una politica nazionale del PCI (eccezion fatta per la breve e infelice parentesi del biennio 1939-40 conseguente al patto Molotov-Ribbentrop). Tuttavia, anche questi spazi dovevano sempre operare nei limiti del dogma che si è sopra enunciato e nel quale si sostanziava in gran parte il «legame di ferro» con l’Unione Sovietica, rescisso soltanto poco prima della scomparsa di questa.

A riprova di questo assunto basti citare il ruolo di Togliatti nella gestione della grave crisi del movimento comunista ingenerata dalla rivolta ungherese del 1956 contro il dominio sovietico. Dopo avere – nell’immediato – garantito solidarietà e appoggio all’URSS, il leader comunista italiano elaborò la teoria del policentrismo, vale a dire della possibilità che esistessero più centri di elaborazione politica nel movimento comunista, senza peraltro che tale pluralità ponesse in discussione la prevalenza del ruolo dell’Unione Sovietica. La nuova ipotesi, in sostanza, costituiva l’ampliamento della «specialità» italiana, e certo non soltanto in senso geografico. Non si può dimenticare che a quel punto il PCI, per opera precipua di Togliatti, aveva acquisito alcuni dei tratti migliori della tradizione democratica italiana e, soprattutto, quello del ricorso esclusivo ai metodi e agli strumenti della democrazia nella competizione politica nazionale.

Furono tra l’altro queste acquisizioni che consentirono il pieno inserimento di un giovane dalle caratteristiche sociali e familiari di Enrico Berlinguer in un partito che continuava a fondarsi sui dogmi leninisti della cooptazione e del centralismo democratico. E Barbagallo ben descrive le doti intellettuali, morali e umane di questo giovane borghese che con umiltà e pazienza (tanto più lodevoli in quanto accompagnate da un elevato sentire di se stesso e dall’orgoglio della sua gente) procedeva lungo il rigoroso cursus honorum nella gerarchia del PCI. Apprezzato da Togliatti e da Longo, collaborò strettamente con quest’ultimo nella gestione della nuova crisi innescata dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, dove un gruppo dirigente coeso e avanzato intendeva portare avanti il riformismo innescato da Krusciov, venendone impedito con la forza dal mediocre tentativo di restaurazione conservatrice condotto da Breznev. In quell’occasione Berlinguer dette ampie prove di duttilità e di fermezza, che ebbero certamente un peso nella scelta abbastanza ampia fatta sul suo nome dal gruppo dirigente del PCI per la carica di vicesegretario, resa ancor più onerosa e rilevante per la malattia che aveva colpito Longo.

Si può in realtà far risalire a quella nomina il ruolo di vero capo del partito esercitato da Berlinguer che, avendo recepito fino in fondo la linea togliattiana, poteva ulteriormente ampliare e difendere gli spazi di autonomia del comunismo italiano e consentirgli di giungere stabilmente al governo del paese. E in questa direzione Berlinguer si mosse con impegno straordinario, affrontando i rischi e cercando di sfruttare le opportunità della situazione internazionale.

Le prospettive di distensione tra i blocchi alimentate dalla sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam dovevano rivelarsi assai limitate, proprio perché la distensione era in realtà strumentalmente concepita da entrambe le parti: per gli Stati Uniti si trattava di rimediare alla sfavorevole congiuntura derivante dalla vicenda vietnamita, mentre per l’Unione Sovietica la distensione appariva una necessità strutturale connessa ai sempre più evidenti problemi di tenuta di quello che si accingeva a proclamarsi «socialismo reale».

Inizialmente la direzione politica di Berlinguer dovette confrontarsi con i rischi derivanti dalla radicalizzazione dello scontro politico in Europa e in Italia, alimentata dalle spinte estremistiche che derivavano dai miti della rivoluzione culturale cinese e dalla realtà della resistenza vietnamita, che pure aveva caratteri quasi esclusivamente nazionali. Il PCI e Berlinguer seppero fronteggiare adeguatamente la «strategia della tensione» che li costringeva su posizioni difensive. E proprio mentre si rivelava essenziale per la sopravvivenza della democrazia in Italia, il PCI continuava a essere respinto dalle forze di governo, tra le quali si era venuta esaurendo la spinta riformatrice avviata agli inizi degli anni Sessanta con la collaborazione tra socialisti e democristiani.

Ma, come si evince chiaramente già dalla stessa introduzione al libro di Pons, il quadro internazionale risulta decisivo per l’evoluzione complessiva della politica berlingueriana. Già nella valutazione della politica di centrosinistra erano ricomparsi i toni antisocialisti. La «specialità» del caso italiano riprese il sopravvento nel 1973, quando Berlinguer lanciò la sua proposta di un secondo grande compromesso storico che, dopo quello della stagione dell’unità antifascista e del periodo costituente, consentisse alle grandi forze popolari italiane, comuniste, socialiste e cattoliche di rilanciare un’azione di governo profondamente riformatrice.

Questa proposta aveva un carattere intrinsecamente offensivo, che venne accentuato dal successo riserbatole dall’elettorato italiano nelle consultazioni del 1975-76, al punto che le altre forze politiche italiane furono costrette ad accettarla nel contesto di una grave crisi economica interna e internazionale. Ma a quel punto, che coincise sostanzialmente col periodo della solidarietà nazionale, lo spazio aperto dalla «distensione dei conservatori » (quella di Nixon e Kissinger, da un lato, e di Breznev, dall’altro) era già richiuso, ammesso che mai ci fosse stato. Si verificò, in sostanza, una sfasatura temporale tra l’accettazione della proposta del compromesso storico da parte delle forze alle quali era destinata e il contesto internazionale. Proprio nel momento in cui i successi elettorali sembravano dar ragione a Berlinguer la distensione era già entrata in crisi e dopo gli iniziali tentativi di ampliarla e approfondirla, l’Amministrazione Carter vi aveva rinunciato di fronte alla rigidità sovietica nella difesa della parità in tutti i campi, da quello dell’armamento strategico a quello della proiezione militare nel Terzo mondo.

È evidente a questo punto il valore decisivo del contesto internazionale per la valutazione dell’azione politica di Berlinguer: avere colto quel nesso in tutta la sua complessità costituisce il merito principale della ricerca di Pons e induce a collocare la sua fatica nella seconda delle categorie degli storici di partito individuate da Gramsci. Pons delinea un quadro assai lucido e convincente della politica internazionale di Berlinguer negli ultimi tre lustri della sua vita, quadro troppo articolato e complesso perché di esso sia possibile darne qui distesamente conto. E l’osservazione vale ancora di più per la ricostruzione dello stesso periodo fatta da Barbagallo, che intreccia continuamente sviluppi interni e internazionali, in modo talvolta confuso, e sempre marcatamente apologetico.

Sarà quindi necessario limitarsi a cogliere alcuni aspetti che paiono essenziali nell’azione di Berlinguer, che muove esattamente dal punto di elaborazione raggiunto da Togliatti: in definitiva, l’eurocomunismo era uno dei «centri» in cui avrebbe potuto articolarsi il movimento comunista internazionale. Indipendentemente da ogni considerazione sulla mediocre accoglienza che la proposta ricevette tanto a Est quanto a Ovest e, soprattutto, da parte degli altri partiti comunisti interessati, nella visione di Berlinguer (e, come giustamente mette in rilievo Pons, ancor più in quella dei suoi consiglieri cattolici Rodano e Tatò) l’eurocomunismo costituiva una dilatazione del principio della «specialità» del caso italiano nel movimento comunista internazionale, fino a divenire il paradigma di una fumosa e indefinita «terza via» tra comunismo e socialdemocrazia. L’inconveniente era che il modello operava soltanto per l’Italia: come scrive Pons, alla fine si giunse all’«eurocomunismo in un paese solo». E, anche con questa decisiva limitazione, non funzionava affatto.

Appariva evidente che la proposta di compromesso storico nell’accezione berlingueriana privilegiava il rapporto con il partito cattolico rispetto a quello con i socialisti. Non doveva dunque destare meraviglia il fatto che, tra questi ultimi, si manifestassero insofferenze profonde nei confronti della posizione di subalternità che si profilava, aggiungendosi a quella a lungo subita durante il periodo del centrosinistra moderato. Al di là della spregiudicatezza e dei tatticismi che pure la caratterizzarono, il reale significato dell’ascesa di Craxi alla guida del PSI fu proprio quello di farne il baricentro della politica italiana. A questo punto riprese vigore la mai abbandonata avversione nei confronti dei socialisti che, con Berlinguer, raggiunse livelli assai elevati, giustificati certo dalle condizioni della vita pubblica italiana e dalla degenerazione del sistema dei partiti e segnatamente di quello socialista. Ma l’antisocialismo prescindeva anche dalle esigenze di una politica realmente innovatrice, il cui presupposto era proprio quello che ispirava l’azione di Craxi: mettere in discussione la troppo prolungata egemonia della DC.

Neppure quando abbandonò la linea del compromesso storico per lanciare la parola d’ordine dell’alternativa democratica Berlinguer rinunciò alla polemica antisocialista e, fondandosi sulla sacrosanta denuncia di una gravissima questione morale nella società italiana, giunse a teorizzare una diversità antropologica dei comunisti rispetto agli altri partiti. Nel generale isolamento, condusse una nobile battaglia contro la degenerazione del sistema dei partiti, rinunciando però anche agli obiettivi di rinnovamento della politica e della società italiane. Incapace di comprendere le novità della situazione interna italiana e, limite ben più grave e condiviso da tutto il movimento comunista, la realtà e le trasformazioni del capitalismo, nonché la storia, lo sviluppo e la società degli Stati Uniti, negli ultimi anni della sua vita Berlinguer ebbe più di un cedimento nei confronti di un confuso movimentismo che, per un certo periodo, continuò a caratterizzare l’azione del PCI, anche dopo la sua morte.

Ma la «specialità» del comunismo italiano non fu il solo elemento di continuità di Berlinguer rispetto alla storia del PCI: il più importante di tutti, destinato a durare ben oltre la sua morte e sostanzialmente fino ad oggi, fu la concezione del partito che, come si è detto, costituiva la componente essenziale del «legame di ferro» con l’Unione Sovietica. Con tutta la sua grande e dispiegata capacità d’innovazione, la sua profonda fiducia nella democrazia rappresentativa, la sua forza nel respingere le pressioni che provenivano dal PCUS e dalla situazione internazionale, Berlinguer (e con lui tutto il gruppo dirigente del PCI) non giunse mai ad ammettere un dissenso organizzato all’interno del partito, ove pure si discuteva ampiamente e liberamente, ma sempre sotto il vincolo della riservatezza e della ricomposizione pubblica dei contrasti. Da ciò conseguivano una netta chiusura nei confronti dell’innovazione, che poteva venire solo dall’alto, e una mancanza di democrazia nel momento delle decisioni, tratti che non sono stati superati neppure nelle formazioni politiche che sono succedute al PCI, seppure hanno perso ogni connotazione ideologica e trovano riscontri ancor più negativi nelle prassi politiche di altre formazioni.

A conclusione di queste osservazioni, vale la pena di ricordare le conclusioni dei due lavori che sembrano confermarle pienamente.

Scrive dunque Barbagallo, dopo aver ricordato il successo elettorale immediatamente seguito alla morte del leader comunista: «La linea del PCI l’ha dettata Enrico Berlinguer. Craxi è stato sconfitto duramente, ma è vivo. Berlinguer ha vinto, ma è morto. Per la seconda volta in pochi anni, la storia d’Italia cambia per la morte di un uomo: Moro prima, Berlinguer poi. Non possiamo sapere come sarebbe andata la storia d’Italia se fossero rimasti vivi, ma sappiamo come è andata dopo la loro morte». Ma proprio perché sappiamo com’è andata, sembra incredibile che si possa ancora ritenere che il vincitore politico di quello scontro sia stato Berlinguer.

Termina invece così la sua narrazione Silvio Pons: «L’eredità di Berlinguer fu un’identità debole, la premessa di un postcomunismo che anteponeva la propria identità etica e universalistica alle sfide reali della politica». Conclusione impeccabile sul piano delle politiche e dei contenuti: sul piano dell’organizzazione e della forma partito l’identità lasciata da Berlinguer era tutt’altro che debole, al punto che ancora oggi è possibile avvertirla.

Resta, a questo punto, da spiegare la contraddizione che si registra tra il giudizio negativo evidente da questa ricostruzione e l’indiscutibile valenza positiva che la memoria di Enrico Berlinguer riceve non solo nelle forze che derivano dalla tradizione comunista o che a essa ancora si richiamano. Del resto, questa valenza positiva non solo permea tutta la ricostruzione di Barbagallo, ma risulta anche con chiarezza dal ben più articolatamente critico lavoro di Pons e, complessivamente, coinvolge profondamente anche chi scrive.

Il grande rigore morale, lo stile di vita semplice e ricco d’umanità, la disciplina e l’impegno e, su un piano politico, il definitivo inserimento dei comunisti nelle istituzioni democratiche italiane, la riscoperta e la piena valorizzazione della grande intuizione di Altiero Spinelli, che hanno legato stabilmente l’Italia all’Europa, sono tutti tratti che, se accompagnati dal vigile giudizio critico che si comincia a esercitare sulla sua figura, giustificano ampiamente la diffusa venerazione che, anche ben oltre i confini dell’opinione di sinistra, accompagna la memoria di Enrico Berlinguer.

Specialmente se si tiene conto del costume politico che, certo non indiscriminatamente, si è diffusamente praticato in questi ultimi anni.

Soprattutto per questo la formula di un artista, utilizzata nel titolo, riassume ancora oggi egregiamente il giudizio da dare su uno dei maggiori protagonisti della storia dell’Italia repubblicana, tanto più che rimane ancora irrisolto il problema di un riformismo che sappia essere vincente proprio per il suo valore etico.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Carocci, Roma 2006 e S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Einaudi, Torino 2006.

2 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1977, vol. III, p. 1630, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana.