Cavour. Il movimento nazionale italiano e la Chiesa cattolica

Di Francesco Traniello Lunedì 07 Marzo 2011 18:29 Stampa

I testi di Cavour che qui riproponiamo riguardano entrambi il tema nevralgico del rapporto tra il movimento nazionale italiano e la Chiesa cattolica, ma appartengono a due congiunture storiche completamente diverse, sebbene separate da un lasso di tempo relativamente breve: poco più di un decennio.


Il primo è tratto da un articolo pubblicato da Cavour il 4 febbraio 1848 sul giornale torinese “Il Risorgimento”. Quando l’articolo vide la luce Ferdinando II di Borbone aveva appena annunciato la prossima promulgazione di uno statuto per il Regno delle Due Sicilie (pubblicato infatti l’11 febbraio), che aveva anticipato gli statuti di lì a poco “concessi” anche dal re di Sardegna, Carlo Alberto, dal granduca di Toscana, Leopoldo, e dal sommo pontefice, Pio IX, in quanto sovrano dello Stato pontificio. L’articolo di Cavour, che ancora non rivestiva alcuna carica politica, aveva due obiettivi: sollecitare Carlo Alberto a seguire l’esempio di Ferdinando trasformando il proprio regno in uno Stato costituzionale, e, soprattutto, tranquillizzare gli ampi settori dell’opinione pubblica e della classe dirigente che scorgevano nel costituzionalismo (per quanto moderato) e nel contemporaneo progredire del movimento nazionale dei fattori di sovversione degli ordini costituiti. Il fulcro del suo ragionamento verteva sull’affermazione, recisa quanto azzardata, che in Italia non esistevano le condizioni, né sociali né religiose, che avevano reso sanguinoso e pregno di “discordie civili” l’accesso di grandi Stati europei (l’Inghilterra, la Francia e la Spagna) agli ordinamenti costituzionali. In questo quadro, Cavour si avvaleva esplicitamente del mito di Pio IX, papa riformatore e amico dell’indipendenza italiana, già messo in campo dal suo concittadino, l’abate Vincenzo Gioberti, e cresciuto a dismisura in quei primi mesi del 1848, fino alla guerra contro l’Austria. Dall’articolo di Cavour trapelava, a chiare lettere, l’importanza da lui attribuita all’esigenza di non alienare la Chiesa cattolica al movimento costituzionale e nazionale, facendo leva su un’immagine – intrisa, potremmo dire, di ottimismo della volontà – della maggioranza del clero italiano come “schietto amico della libertà”, e di un popolo italiano ormai maturo per gli ordini liberi e il sistema rappresentativo.

Quando Cavour, pochi giorni dopo la proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) e poco prima della morte prematura, pronunciò il discorso parlamentare del 25 marzo 1861 da cui sono tratti i successivi brani, egli aveva assunto da tempo, come presidente del Consiglio piemontese e poi (per pochi mesi) italiano, un ruolo-guida nel movimento nazionale. Da presidente del Consiglio aveva impresso una radicalizzazione alla politica laicizzatrice dello Stato sardo già avviata dai ministeri di Massimo d’Azeglio, acuendo le ragioni di conflitto con la Chiesa e in particolare con la Santa Sede. Quindi, nel vorticoso corso di eventi susseguiti alla seconda guerra d’indipendenza del 1859, si era battuto con successo per la rapida annessione allo Stato sardo dei territori già appartenenti agli antichi stati pre-unitari, tra cui gran parte dello Stato pontificio, vale a dire le Romagne, le Marche e l’Umbria. I fulmini della scomunica papale si erano per questo abbattuti sul suo capo, come su quello dei suoi ministri e del sovrano Vittorio Emanuele II. La legislazione ecclesiastica piemontese era stata estesa ai territori annessi. Era così giunta al pettine la questione di Roma, ultimo lembo della sovranità temporale dei papi, minacciato apertamente da Garibaldi (che aveva sgretolato il Regno borbonico), ma ancora presidiato da truppe volontarie al comando di un generale francese, garantito da Napoleone III, e sostenuto da una parte considerevole dell’opinione pubblica europea, non solo cattolica.

I tre discorsi parlamentari pronunciati da Cavour sul tema di Roma capitale nel marzo-aprile 1861 furono, in molti sensi, il suo canto del cigno. Per comprenderne appieno il significato occorre considerare due principali aspetti. Il primo riguarda il fatto che, pronunciandosi con estrema chiarezza a favore di una proclamazione solenne (per quanto ancora platonica) di Roma capitale d’Italia, Cavour realizzava una delle sue più grandi operazioni politiche. Da un lato egli toglieva dalle mani di Garibaldi e dei democratici uno degli argomenti di più sensibile polemica utilizzati nel confronti del governo; ma dall’altro indicava le condizioni a cui era subordinata, nella sua visione delle cose, una positiva, ma non ravvicinata, soluzione della questione romana, la quale non ponesse “in pericolo le sorti dell’Italia”: partendo, cioè, dal presupposto che per i suoi risvolti religiosi e internazionali, la questione non potesse comunque venire risolta con un atto di forza.

Il secondo aspetto riguarda il fatto che sullo sfondo dei discorsi cavouriani su Roma capitale si stagliava, senza tuttavia venire alla luce, il tentativo, avviato mediante segreti contatti con alti esponenti vaticani, di giungere ad una soluzione consensuale della questione romana, nei termini di una volontaria rinuncia da parte del papa ad ogni forma di sovranità temporale (cui Cavour era assolutamente avverso) in cambio della rinuncia da parte dello Stato alle tradizionali armi di controllo e di limitazione del potere ecclesiastico, oltre a specifiche garanzie d’indipendenza del pontefice in quanto capo della Chiesa universale. “Libera Chiesa in libero Stato” fu la formula sintetica adottata da Cavour per designare il criterio-guida di una tale ipotesi di accordo, e da lui per la prima volta pubblicamente enunciata nel successivo discorso del 27 marzo. Va detto che, nelle condizioni date, le probabilità di accoglimento della proposta cavouriana erano assai prossime allo zero; e già nelle pieghe dei discorsi su Roma capitale si avverte il sentore di un insuccesso. Nondimeno la formula cavouriana costituiva la trama effettiva di quei discorsi, che ne davano le giustificazioni storiche e ideali, caricandola di valori e di attese che scavalcavano la contingenza, per assumere il rilievo di un messaggio intriso di risonanze quasi religiose, al quale i successori di Cavour solo in parte seppero o poterono attenersi.

 


 

La rivoluzione italiana e le grandi rivoluzioni europee.

Il 1848 era iniziato fra grandi difficoltà per il Regno delle Due Sicilie, con l’insurrezione di Palermo, seguita da una rivolta nel Cilento. Il 29 gennaio il re Ferdinando ІІ di Borbone aveva promulgato un decreto nel quale annunciava la prossima concessione di una costituzione (che sarebbe stata pubblicata l’11 febbraio). Questo improvviso balzo in avanti di uno Stato che era rimasto finora alla retroguardia del moto riformatore italiano imponeva una riconsiderazione dell’intero movimento nazionale. Cavour si preoccupava di tranquillizzare, anche in base agli sviluppi costituzionali del regno meridionale, l’opinione pubblica moderata: il processo riformatore italiano non aveva nulla in comune con la rivoluzione francese del 1789, né con la Spagna delle guerre civili, né con la lunga rivoluzione inglese del XVII secolo.[1]

 

Se si considera nel suo complesso la storia d’Italia, è forza il riconoscere che la parte di essa che ebbe a soffrire maggiori e più lunghe calamità, fu il regno di Napoli. Nessun’altra provincia della nostra penisola ha da lamentare tanti secoli d’oppressioni straniere, sì eccessive prepotenze feudali, sì tristi governi, tante sanguinose rivoluzioni. Epperciò vediamo senza invidia la Providenza concederle, qual giusto compenso, la gloria di essere il primo fra i nostri popoli, a cui sia dato godere nella sua pienezza i benefìzi d’un libero reggimento. Dopo i maggiori dolori le gioie maggiori.

Noi crediamo fermamente che l’acquisto del sistema costituzionale segni pel regno di Napoli un’èra di rigenerazione, di progresso e di prosperità, che non avrà ad essere turbata nei suoi primordi dalle luttuose vicende che afflissero i primi passi di molti popoli nelle vie della libertà.

Forse questa nostra credenza parrà a taluno effetto di una singolare illusione prodotta dalla gioia immensa che i faustissimi eventi di Napoli cagionarono a tutti i buoni italiani. Ben sappiamo che molte persone, abbagliate da non rette deduzioni storiche, paventano che il passaggio così repentino del regno dal sistema assoluto al sistema costituzionale non possa compiersi senza trar seco una lunga serie di commozioni interne, di discordie civili, di avvenimenti funesti. Le spaventose rimembranze della Rivoluzione inglese e della Rivoluzione francese, e lo spettacolo doloroso delle vicende politiche della penisola ispana danno a questi esagerati timori qualche plausibile argomento, e fanno sì che anche fra gli amici non dubbi del progresso, tra i fautori sinceri delle idee di libertà, ve ne siano parecchi che non vedano senza grave apprensione la rapida e compiuta applicazione di queste idee tra noi, e quindi non cerchino a rallentare il moto che spinge le società italiane, col puerile pretesto ch’esse non sono bastantemente apparecchiate, e che si richiederebbe perciò di sottoporle ad un lungo tirocinio prima di schiuder loro la carriera dei popoli liberi.

Un sì funesto errore è prodotto, lo ripetiamo, da false deduzioni storiche, da una non retta interpretazione dei fatti contemporanei d’Europa.

Se la Rivoluzione inglese fu sì lunga, s’essa fu causa di lotte tanto accanite, sì fu perché, più che ad un cambiamento politico, quella nazione mirava ad una rivoluzione religiosa. Ove gli Stuardi avessero abbracciato sinceramente il protestantismo ed adottato i principi della Riforma, non sarebbero stati balzati dal trono; Carlo I non avrebbe portato la testa sul patibolo, e la schiatta dell’ultimo Giacomo non avrebbe dovuto errare raminga in tutta Europa per più d’un secolo, prima d'estinguersi nella più assoluta oscurità.

Ma in Italia, la Dio mercé, non sono, non possono esistere, nonché guerra, contrasti reali fra la religione, chi l’amministra, e lo spirito di libertà. La gran riconciliazione del clero colla causa del progresso, coi principi che informano e dominano la società moderna, mirabilmente preparata da Vincenzo Gioberti, è stata compiuta e benedetta dal sommo Pio.

Fra i più zelanti, fra i più sinceri fautori della causa italiana, noi possiamo con vanto annoverare la parte la più numerosa, la più eletta, la più influente della nobile schiera dei ministri dell’altare. Onde dobbiamo ascrivere ad immensa fortuna l’aver a collaboratore ardente all’opera del nostro risorgimento quella classe poderosa, che fu quasi dovunque la più costantemente avversa ai progressi politici.

Se la Rivoluzione francese partorì sì terribili catastrofi, sì lunghi disastri, tante sanguinose peripezie, ciò addivenne dall’esser essa stata non solo una rivoluzione politica, ma ancora più una rivoluzione sociale. Essa aveva a combattere irreconciliabili nemici; e lo fece con modi tremendi, sovente iniqui, ma che la condussero tuttavia a raggiungere lo scopo assegnatole dalla Provvidenza, quello cioè di stabilire sopra basi inconcusse non solo in Francia, ma in molte parti d’Europa, il gran principio delle società moderne, l’eguaglianza civile, le libertà costituzionali.

Ben diverse sono le condizioni dell’Italia. La rivoluzione sociale operata dalla Costituente francese è già fatta da noi da lungo tempo. Il feudalismo, in molte parti della penisola, non esistette mai, e là dove fu altre volte in vigore, come nel regno di Napoli, già venne distrutto sin dal secolo scorso. Le riforme sociali, che rimangono a compiersi, non sono tali da richiedere da alcuna categoria di cittadini alcuno di quei sacrifizi ai quali si consente difficilmente di buona fede. Non si tratta che di ottenere che quelle le quali, a torto forse, si chiamarono testé classi privilegiate, scambino i vecchi pregiudizi e le distinzioni immaginarie, di cui si credevano fregiate, coi benefizi reali e stabili che gli ordini nuovi conferiscono a tutti i cittadini. Ad operare questo cambiamento non si richieggono misure violente; basta l’azione regolare e benefica delle nuove istituzioni politiche.

L’esempio della penisola iberica non può somministrare ai nostri avversari migliori argomenti delle ricordanze storiche ora accennate. Non esiste fra noi che un solo partito il quale possegga vera potenza, il partito nazionale, le cui mire tendono a conciliare la stabilità dei troni collo svolgimento delle costituzioni liberali. Non esiste fra noi, come in Ispagna, una parte numerosa ed ardente rannodata attorno ad una bandiera nemica del progresso. Non esiste fra noi un partito minaccioso carlista, che possa fomentare di continuo ire e sospetti, soffiare nel fuoco delle passioni, spingere i liberali negli eccessi rivoluzionari o ritardarne il cammino sulla via del progresso. In Italia l’immensa maggioranza si tiene strettamente unita a’ suoi principi nazionali: unita non meno dai legami della riconoscenza e dell’amore che loro si professa, ma ancora dall’odio che ispira la prepotenza straniera.

Ma ciò che ci differenzia dalla Spagna si è lo stato delle nostre popolazioni, ben più illuminate e colte, meglio preparate alla vita politica che non fossero gli spagnuoli alla morte di Ferdinando. Le idee di libertà han messo fra noi salde radici nel secolo passato; i principi d’eguaglianza civile, base degli ordini nuovi, sono stati consacrati nei tempi della dominazione francese, e da oltre trent’anni, noi ci educhiamo alla vita nuova, collo studio assiduo degli eventi che succedono fra le nazioni le più innoltrate nelle vie della civiltà, col seguitare attenti le gran lezioni che si bandiscono dalle tribune dell’Inghilterra e della Francia.

Si dileguino adunque i vani timori de’ sinceri, ma timidi amici del progresso; mettano essi, come noi, fede intera nei destini d’Italia. II nostro risorgimento non è, non sarà somigliante alle rivoluzioni inglesi, francesi e spagnuole; perché esso ha l’appoggio di un clero sinceramente religioso, schietto amico della libertà; perché non è condannato alla funesta necessità di dover entrare in lotta mortale con nessuna classe cittadina, irreconciliabile nemica dei nuovi sistemi politici; perché, finalmente, viene operato da un popolo mirabilmente preparato a’ suoi nuovi destini.

La cooperazione del clero è, a parer nostro, il carattere distintivo del risorgimento italiano, quello che ci conferma nella credenza di vederlo a compiersi senza perturbazioni violente. Non è a dire per ciò che consideriamo il clero come unanime nel retto sentire. Pur troppo ci tocca ad essere ogni giorno spettatori de’ fatti dolorosi che attestano esservi una minorità, la quale, valendosi del potere che è nelle mani di alcuno fra i suoi membri, contrasta con rabbiosi modi al gran moto rigeneratore. Sappiamo altresì che, unito strettamente a questa minorità, combatte un ordine religioso[2] che viene considerato come il più acerbo nemico del progresso; un ordine che suscita ovunque fermi le stanze, inquietudini e sospetti.

Ma qui confessiamo schiettamente che cesseremo dal temere quest’ordine, a partire dal giorno in cui saranno pienamente stabiliti in Italia i gran principi della pubblicità e della libertà. Se in tempi del dominio assoluto poteva esercitare qualche influenza, possedere qualche impero sull’animo dei governanti; se nel regno delle tenebre gli fu dato, mercé i cupi suoi raggiri,.costituire una specie di potenza nella nazione, rimarrà impotente e disarmato in faccia alla luce. Allora piegherà forse alla necessità dei tempi col riformare quelle regole e quello spirito fatale che pregiudica non solo i veri interessi della religione, ma quelli ancora del progresso della civiltà. Oppure si estinguerà, come si sono estinte le istituzioni che contrastarono ostinatamente alla forza irresistibile che spinge i popoli nelle vie dell'avvenire.

Se il risorgimento italiano fosse stato, se diventasse mai ostile alla Chiesa, anticristiano, come fu la Rivoluzione francese, in allora l’influenza di quell’ordine ci parrebbe a temere. Ma un moto politico, iniziato, benedetto da uno de’ più zelanti pontefici che siasi mai seduto sulla cattedra di Pietro, e diretto da piissimi prìncipi, non ha a paventare delle mene, dei maneggi, delle arti e dei rancori di coloro, i quali, quasi fossero investiti del monopolio della fede cattolica, coprono le loro mire private, i loro odi pei progressi politici col manto di un ardente zelo di religione.

Siccome nel clero esistono alcune sfavorevoli eccezioni, così è da credere che i nuovi ordini politici avranno ad incontrare alcuni. incagli suscitati dai pregiudizi, dalle false idee, dalle esagerate apprensioni dei retrogradi. Ma ripetiamo esser questi ostacoli un nulla a paragone di quelli che ebbero a superare le altre rivoluzioni.

Fra noi non esiste nessuna classe apertamente ostile alle nuove condizioni politiche. Ovunque, in Italia, in Piemonte non meno che altrove, la maggioranza del patriziato è sinceramente amica delle libertà e dell’indipendenza, desidera ardentemente il compimento della nostra gloriosa risurrezione, è pronta a cooperarvi colle opere cittadine finché durerà la pace, col sacrifizio della vita quando suonerà l’ora della guerra.

Ma la cooperazione del clero e del patriziato, quantunque grande ed efficacissima, non può essere sola cagione della nostra piena fiducia nelle sorti del risorgimento italiano; poco varrebbe se i popoli non fossero preparati ai nuovi loro destini. Ma ch’essi lo sieno, lo prova abbastanza il mirabile loro contegno durante il periodo testé finito; lo prova la condotta del popolo napolitano; lo prova il valore dei siciliani nella terribile lotta sostenuta, e lo proverà pure l'uso moderato della vittoria. Se i popoli son preparati all'esercizio dei diritti politici, non manca pure nella nazione chi possa degnamente rappresentarli, e compiere i gravi uffici degli ordini deliberativi. A conferma di questa verità ci basta accennare la Consulta di Roma. Se vi era provincia d'Italia dove l'attitudine de' cittadini a prender parte ad un'assemblea politica potesse dar luogo a qualche dubbio, certo era la Romagna. lvi da secoli i laici, esclusi dal maneggio della cosa pubblica, non avevano mai avuto campo di apparecchiarsi alle gran disgressioni de' pubblici interessi; eppure, appena radunati da Pio i rappresentanti delle provincie, veggiamo sorgere fra essi, uomini di cui andrebbero giustamente superbi i popoli già adulti nella vita costituzionale; e ciò non tanto per l'eloquenza della parola, quanto e più per la maturità del senno, per la sapienza dei consigli.

Se non che a dar valido fondamento a queste nostre speranze, a mutarle in certezza per noi come per tutti gli uomini di sano criterio e di buona fede, più d’ogni altra cosa contribuisce l'illimitata fiducia che abbiamo nella virtù, nei lumi e nei generosi sensi dei nostri principi. L’Italia confida in essi. Roma, Firenze e Torino sono certe che Pio, Leopoldo e Carlo Alberto, magnanimi iniziatori del risorgimento italiano, sapranno condurre a compimento la gloriosa ed impareggiabile loro impresa, fondando su ferme e profonde basi il più splendido edificio dei tempi moderni, LA LIBERTÀ ITALIANA

 

 


 

La questione romana[3]


In questa tornata il deputato filogovernativo Rodolfo Audinot rivolse una interpellanza al presidente del Consiglio sulla Questione Romana, offrendogli l’occasione di sviluppare il suo pensiero (che preciserà in altri due successivi discorsi) sulla questione di Roma capitale e  sui rapporti tra Stato e Chiesa.

CAVOUR, presidente del Consiglio, ministro degli Affari esteri e della Marina: (Vivi segni di attenzione) Signori deputati, l’onorevole deputato Audinot[4] con parole gravi ed eloquenti, quali si addicevano all’altezza dell’argomento che egli ha preso a trattare avanti a voi, anziché rivolgere al Ministero interpellanze su fatti speciali, vi ha fatto una magnifica esposizione della questione di Roma. Nel conchiudere il suo discorso, egli lo riassumeva chiedendo al Ministero schiarimenti su due punti particolari, cioè sulle voci che correvano e corrono circa a negoziazioni intavolate con Roma, e circa pratiche fatte o da farsi per ottenere l’applicazione del principio di non intervento alla questione romana; poi terminava con una interpellanza di ben altro momento, terminava, cioè, chiedendo al Ministero quale fosse la linea di condotta che egli intendeva seguire in questo supremo argomento.

E ben egli si opponeva; l’attuale discussione non poteva, né doveva essere ristretta allo scambio di poche spiegazioni; poiché la questione di Roma è posta sul tappeto, ragion vuole che essa sia trattata in tutta la sua ampiezza.

Ma, o signori, prima di accingermi a rispondere non solo propriamente alle interpellanze dell’onorevole deputato Audinot, ma quel complesso di considerazioni ch’egli ha esposte con tanta efficacia, mi sia lecito il ricordarvi che l’attuale questione è forse la più grave, la più importante che sia stata mai sottoposta ad un Parlamento di libero popolo. La questione di Roma non è soltanto di vitale importanza per l’Italia, ma è una quistione la cui influenza deve estendersi a 200 milioni di cattolici sparsi su tutta la superficie del globo; è una quistione la cui soluzione non deve solo avere un’influenza politica, ma deve esercitare altresì una immensa sul mondo morale e religioso.

L’onorevole deputato Audinot vel disse senza riserva: Roma debb’essere la capitale d’Italia. E lo diceva con ragione; non vi può essere soluzione della questione di Roma, se questa verità non è prima proclamata, accettata dall’opinione pubblica d’Italia e d’Europa. (a sinistra: Bene!) se si potesse concepire l’Italia costituita in unità in modo stabile, senza che Roma fosse la sua capitale, io dichiaro schiettamente che reputerei difficile, forse impossibile la soluzione della questione romana. Perché noi abbiamo il diritto, anzi il dovere di chiedere, d’insistere perché Roma sia riunita all’Italia?

Perché senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire. (Approvazione.)

A prova di questa verità già vi addusse molti argomenti l’onorevole preopinante. Egli vi disse con molta ragione che questa verità, essendo sentita quasi istintivamente dall’universalità degli Italiani, essendo proclamata fuori d’Italia da tutti coloro che giudicano delle cose d’Italia con imparzialità ed amore, non ha d’uopo di dimostrazione, è affermata dal senso comune della nazione.

Tuttavia, o signori, si può dare di questa verità una dimostrazione assai semplice. L’Italia ha ancor molto da fare per costituirsi in modo definitivo, per isciogliere tutti i gravi problemi che la sua unificazione suscita, per abbattere tutti gli ostacoli che antiche istituzioni, tradizioni secolari oppongono a questa grande impresa; ora, o signori, perché quest’opera possa compiersi conviene che non vi siano cause di dissidi, di lotte. Ma, finché la questione della capitale non sarà definita, vi sarà sempre motivo di dispareri e di discordie fra le varie parti d’Italia. (Benissimo!) […]

La scelta della capitale è determinata da grandi ragioni morali. È il sentimento dei popoli quello che decide le questioni ad essa relative.

Ora, o signori, in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato. (Segni di approvazione su vari banchi.) Convinto, profondamente convinto di questa verità, io mi credo in obbligo di proclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione, e mi tengo in obbligo di fare in questa circostanza appello al patriottismo di tutti i cittadini d’Italia e dei rappresentanti delle più illustri sue città, onde cessi ogni discussione in proposito, affinché noi possiamo dichiarare all’Europa, affinché chi ha l’onore di rappresentare questo paese a fronte delle estere potenze possa dire: la necessità di aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intiera nazione. (Applausi.) Io credo di aver qualche titolo a poter fare quest’appello a coloro che, per ragioni che io rispetto, dissentissero da me su questo punto; giacchè, o signori, non volendo fare innanzi a voi sfoggio di spartani sentimenti, io lo dico schiettamente: sarà per me un gran dolore il dover dichiarare alla mia città natia che essa deve rinunciare risolutamente, definitivamente ad ogni speranza di conservare nel suo seno la sede del Governo. (Approvazione.) Sì, o signori, per quanto personalmente mi concerne, gli è con dolore che io vado a Roma. Avendo io indole poco artistica (Si ride), sono persuaso che, in mezzo ai più splendidi monumenti di Roma antica e di Roma moderna, io rimpiangerò le severe  e poco poetiche vie della mia terra natale. Ma egli è con fiducia, o signori, che io affermo questa verità. Conoscendo l’indole de’ miei concittadini; sapendo per prova come essi furono sempre disposti a fare maggiori sacrifizi per la sacra causa d’Italia (Viva approvazione); sapendo come essi furono rassegnati a vedere la loro città invasa dal nemico, e pronti a fare energica difesa.

Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni.

Noi dobbiamo andarvi di concerto colla Francia; inoltre, senza che la riunione di questa città al resto d’Italia possa essere interpretata dalla gran massa dei cattolici d’Italia e fuori d’Italia come il segnale della servitù della Chiesa. Noi dobbiamo, cioè, andare a Roma, senza che per ciò l’indipendenza vera del pontefice venga a menomarsi. Noi dobbiamo andare a Roma, senza che l’autorità civile estenda il suo potere all’ordine spirituale.

Ecco le due condizioni che debbono verificarsi perché noi possiamo andar a Roma, senza porre in pericolo le sorti d’Italia.

Quanto alla prima, vi disse già l’onorevole deputato Audinot che sarebbe follia il pensare, nelle attuali condizioni d’Europa, di voler andar a Roma malgrado l’opposizione della Francia.

Ma dirò di più: quando anche per eventi, che credo non siano probabili e nemmeno possibili, la Francia si trovasse ridotta in condizioni tali da non poter materialmente opporsi alla nostra andata a Roma, noi non dovremmo tuttavia compiere l’unione di essa al resto d’Italia, se ciò dovesse recar grave danno ai nostri alleati. […]

Altri fautori del potere temporale più moderati, più benevoli, dicono: ma è egli impossibile che il pontefice con riforme, con concessioni faccia scomparire l’antagonismo che ho sovra accennato, possa conciliarsi quel popolo sul quale impera? Come mai i principii che assicurano la pace e la tranquillità delle altre parti d’Europa, applicati nelle Romagne, nell’Umbria e nelle Marche, non produrranno gli stessi effetti? Ed essi insistono presso il pontefice, onde sia largo di riforme ai suoi popoli, né si sgomentano delle ripulse, ma tornano a chiedere concessioni e riforme.

Questi, signori, sono in un assoluto errore; chieggono al pontefice quello che il pontefice non può dare, perché in lui si confondono due nature diverse, quella di capo della Chiesa e quella di sovrano civile; ma si confondono in modo che la qualità di capo della Chiesa deve prevalere a quella di sovrano civile. Ed infatti, se il dominio temporale è stato dato al pontefice per assicurare la indipendenza della sua autorità spirituale, evidentemente il papa deve sacrificare le considerazioni riguardanti il potere temporale a quelle relative agli stessi interessi della Chiesa. […]

Ora, quando domandate al pontefice di fare alla società civile le concessioni richieste dalla natura dei tempi e dal progresso della civiltà, ma che si trovano in opposizione ai precetti positivi della religione, di cui egli è sovrano pontefice, voi gli chiedete cosa che egli non può, non deve fare. Se assentisse a siffatta domanda, egli tradirebbe i suoi doveri come pontefice, cesserebbe di essere rispettato come il capo del cattolicismo.

L’Europa da 20 anni si strugge per trovar modo di operare una riforma nello Stato ottomano. Non v’è arte diplomatica, non v’è influenza che non siasi esercitata in questo senso; e, per essere giusto, dirò che molti, forse la maggior parte dei ministri ottomani sono dispostissimi ad operare queste mutazioni, a conciliare il vivere civile con le forme del loro governo. Io ho avuto l’onore di conoscere parecchi de’ più distinti uomini di Stato di quel paese, i quali mi hanno tutti maravigliato per la lunghezza delle loro vedute, pel liberalismo de’ loro principii; eppure finora l’opera loro è rimasta quasi sterile; e perché, o signori? Perchè a Costantinopoli, come a Roma, il potere spirituale e temporale sono confusi nelle stesse mani. Quindi, o signori, io credo non esservi verità più dimostrata di quella che ogni riforma nel governo temporale è impossibile. Ciò essendo, lo stato attuale di antagonismo fra la popolazione e il Governo non può cessare; e, non potendo esser rimosso, egli è evidente che il potere temporale non è una garanzia d’indipendenza pel pontefice.[…]

Se il potere temporale non assicura l’indipendenza della Chiesa, con quali mezzi, mi si dirà, volete voi assicurarla? Ciò vi è stato detto dall’onorevole Audinot in questa  tornata prima di me e me ne compiaccio. Noi riteniamo che l’indipendenza del pontefice, la sua dignità e l’indipendenza della Chiesa possono tutelarsi mercè la separazione dei due poteri, mercè la proclamazione del principio di libertà applicato lealmente, largamente, ai rapporti della società civile colla religiosa.

Egli è evidente, o signori, che, ove questa separazione sia operata in modo chiaro, definito e indistruttibile; quando questa libertà della Chiesa sia stabilita, l’indipendenza del papato sarà su terreno ben più solido che non lo sia al presente. Né solo la sua indipendenza verrà meglio assicurata, ma la sua autorità diverrà più efficace, poiché non sarà più vincolata dai molteplici concordati, da tutti quei patti che erano, e sono, una necessità finché il pontefice riunisce nelle sue mani, oltre alla potestà spirituale, l’autorità temporale. Tutte quelle armi, di cui deve munirsi il potere civile in Italia e fuori, diverranno inutili quando il pontefice sarà ristretto al potere spirituale. Epperciò la sua autorità, lungi dall’essere menomata, verrà a crescere assai più nella sfera che sola le compete. (Bravo!) […]

Ebbene, o signori, non per ciò noi cesseremo dal proclamare altamente i principii che qui ora vi ho esposti, e che mi lusingo riceveranno da voi favorevole accoglienza; noi non cesseremo dal dire che, qualunque sia il modo con cui l’Italia giungerà alla città eterna, sia che vi giunga per accordo o senza, giunta a Roma, appena avrà dichiarato decaduto il potere temporale, essa proclamerà il principio della separazione, ed attuerà immediatamente il principio della libertà della Chiesa sulle basi più larghe. (Bene! Bravo!) Quando noi avremo ciò operato; quando queste dottrine avranno ricevuto una solenne sanzione dal Parlamento nazionale; quando non sarà più lecito di porre in dubbio quali siano i veri sentimenti degl’Italiani; quando sarà chiaro al mondo che essi non sono ostili alla religione dei loro padri, ma anzi desiderano e vogliono conservare questa religione nel loro paese, che bramano assicurarle i mezzi di prosperare e di svilupparsi abbattendo un potere, il quale fu un ostacolo non solo alla riorganizzazione d’Italia, ma eziandio allo svolgimento del cattolicesimo, io porto speranza che la gran maggioranza della società cattolica assolverà gl’Italiani, e farà cadere su coloro a cui spetta la responsabilità delle conseguenze della lotta fatale che il pontefice volesse impegnare contro la nazione, in mezzo alla quale esso risiede. (Applausi.)

Ma, o signori, Dio disperda il fatale augurio! a rischio di essere accusato di abbandonarmi ad utopie, io nutro fiducia che, quando la proclamazione dei principii, che ora ho fatta, e quando la consacrazione, che voi ne farete, saranno rese note al mondo, e giungeranno a Roma nelle aule del Vaticano, io nutro fiducia, dico, che quelle fibre italiane che il partito reazionario non ha ancora potuto svellere interamente dall’animo di Pio IX, queste fibre vibreranno ancora, e si potrà compiere il più grande atto che popolo mai abbia compiuto. E cosi sarà dato alla stessa generazione di aver risuscitato una nazione, e d’aver fatto cosa più grande, più sublime ancora, cosa, la di cui influenza è incalcolabile: d’avere cioè riconciliato il papato coll’autorità civile; di avere firmata la pace fra la Chiesa e lo Stato, fra lo spirito di religione ed i grandi principii della libertà.

Sì, io spero, o signori, che ci sarà dato di compiere questi due grandi atti, i quali certamente tramanderanno alle più lontane posterità la benemerenza della presente generazione italiana. (Vivi applausi.)

 


[1] Da «Il Risorgimento», I, 32, 4 febbraio 1848 (ora in Tutti gli scritti, cit., III, pp. 1080-84). TRI

[2] Cavour si riferisce all’ordine dei gesuiti, già violentemente attaccato da Gioberti. Durante i decenni precedenti i sovrani restituiti ai loro troni dalla sconfitta napoleonica avevano affidato soprattutto a quest’ordine l’educazione delle classi dirigenti e al suo interno avevano scelto i loro consiglieri spirituali.

[3] Seduta della Camera del 25 marzo 1861 (C. Cavour, Discorsi parlamentari, XV, cit, pp. 479-85, 493-94, 496-97 e 500-01).

[4] Il bolognese Rodolfo Audinot (1814-1874) in gioventù aveva preso parte ai moti del 1831 ed era poi stato vicino a Mazzini. Spostatosi su posizioni moderate dopo l’avvento di Pio IX, era stato deputato ala costituente romana. Esule nel regno sardo dopo la fine della Repubblica romana, aveva collaborato con Farini, nel 1859-60, alla annessione delle Romagne al regno sabaudo. Sedeva alla Camera in rappresentanza del quinto collegio di Bologna.