Riforma Gelmini: troppo e troppo poco

Di Marta Rapallini Giovedì 10 Dicembre 2009 18:57 Stampa

Il tema della riforma universitaria appare centrale non solo per l’importanza strategica che il sistema universitario riveste per il paese, ma anche per gli innumerevoli interessi trasversali che esso muove. Ripensare e ridisegnare l’università italiana è dun­que un processo complesso, che il governo sta af­frontando con provvedimenti volti soprattutto a ra­zionalizzare la spesa e a riorganizzare il meccanismo di reclutamento del personale. Tra gli elementi di de­bolezza del disegno di legge spicca l’assenza di nuo­vi investimenti in ricerca e sviluppo, centrali per la ripresa dell’economia di qualunque paese.

Scrivere a proposito di un disegno di legge e non di un decreto legge in merito alla riorganizzazione dell’università italiana è un fatto degno di nota. Da un lato, il tema della revisione del sistema universitario nazionale sembra essere considerato strategico, e per questo motivo la proposta legislativa è demandata al dibattito parlamentare. Dall’altro, a voler essere meno diplomatici si potrebbe dire che il tema della riforma dell’università nel nostro paese, proprio per come è cresciuto e si è sviluppato il sistema universitario stesso, è un argomento che investe forti interessi particolari e trasversali rispetto agli schieramenti politici, al punto che nemmeno un governo retto da un’ampia maggioranza parlamentare, come quella attuale, riesce a produrre una riforma che abbia il consenso della sua maggioranza. Questo aspetto non è da trascurare nell’analizzare gli interventi legislativi passati e le proposte in materia presentate dall’attuale governo. L’opposizione dovrà intervenire in maniera costruttiva nel dibattito, preservando con coraggio gli spunti innovativi che ci sono e ridimensionando le spinte corporative che pure sono ben presenti nel testo.

Prima di analizzare la proposta legislativa occorre fare una premessa, che in qualche modo è anche la sostanza del futuro che attende il sistema universitario italiano. Per farlo è utile ricordare l’ultimo comma del disegno di legge: «Dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica», che equivale a proporre una riforma, per l’ennesima volta, a costo zero. Il problema è che l’università non ci può stare. Le riforme a costo zero non sono vere riforme. In ciò risiede la grandissima debolezza delle complicate nuove procedure e dei nuovi assetti. La finanziaria 2010, inoltre, prevede un ulteriore drastico taglio del finanziamento pubblico al sistema universitario nazionale: la riduzione del 50% delle spese di funzionamento ordinario. Un consue-to taglio lineare applicato al Fondo di finanziamento ordinario degli atenei che, essendo costituito per il 90% dalle spese fisse per le retribuzioni del personale, si scarica sul restante 10% comprimibile, ovvero il reale fondo di funzionamento, riducendolo della metà. Una vera spada di Damocle che minaccia il sistema e che, essendo ancora in tempo, andrebbe rimossa.

Per un migliore inquadramento del tema, è utile riportare alcune considerazioni: stando agli ultimi dati Eurostat, la spesa in R&D (Research and Development) dell’Unione europea nel 2007 è rimasta invariata all’1,85% del PIL. Per fare un confronto, nello stesso anno gli Stati Uniti hanno speso il 2,67% del PIL e il Giappone nel 2006 ha speso il 3,40%. L’obiettivo mancato del 3% del PIL in R&D per la UE lo hanno raggiunto soltanto la Svezia (3,6%) e la Finlandia (3,4%). Quattro paesi in Europa hanno speso più del 2% del PIL: Danimarca, Germania, Francia e Austria. Rimangono dieci Stati in Europa che spendono meno dell’1% del PIL, tra questi l’Italia. Infine, Bulgaria, Cipro e Slovacchia spendono meno dello 0,5%. In questo contesto il governo italiano ha deciso di tagliare ulteriormente i finanziamenti. Altri Stati, di fronte alla crisi economica e all’aumento della povertà, hanno risposto in modo diametralmente opposto, incrementando la spesa in R&D (si pensi alla Gran Bretagna e agli USA), riconoscendo quindi a questo settore un reale e indiscusso ruolo di leva per lo sviluppo.

La risposta del governo, ormai nota, a questa obiezione è che gli investimenti nel sistema di ricerca italiano sono sprecati a causa degli innumerevoli mali che lo affliggono. Senza voler entrare nel merito, una risposta di questo tipo non pare esaustiva. Nonostante sia universalmente riconosciuto che investendo in R&D si può fornire un beneficio all’economia del paese, in Italia si evita di proporlo perché il sistema non fornisce sufficienti garanzie di riuscita dell’investimento.

Tra l’altro questo governo e le proposte normative avanzate, ad esempio, nel campo della scuola e del pubblico impiego propongono una preoccupante similitudine tra il tema strategico della razionalizzazione della spesa e delle procedure con la richiesta, di ben altro interesse e significato, di un maggior ordine. Mettere il grembiule ai bambini, per fare solo un esempio, concorre ad aumentare l’impressione dell’ordine, seppur in senso formale e disciplinare, nell’ambiente scolastico, ma non modifica minimamente la qualità della spesa della scuola come invece viene unanimemente riconosciuto indispensabile. Servirebbe davvero un incentivo concreto per un miglior utilizzo delle risorse pubbliche, il che non significa effettuare tagli lineari alle spese e nemmeno adottare provvedimenti che intervengano sulla forma e non sulla sostanza.

Il disegno di legge Gelmini affronta due grandi temi del sistema universitario italiano: la governance degli atenei (ma non quella di sistema) e il reclutamento del personale docente e ricercatore. Un terzo titolo delega il governo a riordinare una serie di materie connesse, più o meno direttamente, alla valorizzazione del merito. Ci sono segnali importanti, anche se fa riflettere che la valorizzazione del merito sia considerata un’attività a parte rispetto alle normali procedure valutative e selettive.

La proposta contiene nel suo complesso ottimi spunti, tra i quali alcuni che il centrosinistra aveva già proposto nella scorsa legislatura. Accanto a questi elementi positivi permangono però diverse rigidità che, di fatto, impediscono la diversificazione nel sistema (ecco, nuovamente, la ricerca dell’ordine) e la crescita di casi di eccellenza. Si tratta di un difetto grave del quadro normativo italiano sulla materia, seppur costituito anche da buone (e a volte pionieristiche) leggi, che finiscono tuttavia per essere soffocate da regolamenti asfittici e da un eccesso di codifica.

Non solo. Il ricorso a preliminari criteri quantitativi in merito alle scelte contribuisce a deresponsabilizzare gli atenei. Le strategie possibili sembrerebbero essere due: estendere la normativa fino all’ultima procedura, all’ultimo organo di gestione e controllo, all’ultima disciplina insegnata (impostazione del disegno di legge Gelmini), oppure prevedere che gli atenei, nel rispetto di pochi e chiari obiettivi imprescindibili, si articolino e si autogovernino come preferiscono, imponendosi a posteriori una seria e rigorosa valutazione dei risultati per intervenire e correggere laddove ciò fosse necessario.

In questo risiede una delle principali differenze di approccio al tema della riforma universitaria tra i due schieramenti politici: l’analisi è per lo più la stessa, ma le cure differiscono sostanzialmente. L’autonomia, infatti, non è la fonte di tutti i mali dell’università, ne è anzi un punto di forza, ma solo se associata a chiare responsabilità e alla valutazione dei risultati.

A proposito della governance degli atenei, ad esempio, il Consiglio di amministrazione proposto dovrà avere un numero massimo di 11 componenti (per quale motivo?), di cui almeno il 40% (anche in questo caso, perché non il 35% o il 20%?) esterno all’ateneo. È facile comprendere la buona intenzione del legislatore – su questa si tornerà in seguito − ma non si comprende quale relazione ci sia tra questa composizione del Consiglio di amministrazione e il suo ottimale funzionamento. In Italia ci sono 89 atenei, forse troppi, ma ognuno differente dall’altro, situati in tutta Italia, in aree del paese in cui l’ambiente sociale ed economico è diversissimo. Si dice che le università devono essere parte integrante della comunità sociale ed economica in cui crescono. Perché governare questa varietà con una ricetta così rigida? Perché non assegnare per legge chiari compiti al Consiglio di amministrazione, introducendo doverosi limiti di spesa al suo funzionamento, mettendo però, allo stesso tempo, gli atenei in grado di dotarsi del Consiglio di amministrazione più confacente alla propria natura? Ecco che si ritorna al tema dell’obbligo, perché di questo si tratta, della presenza di almeno il 40% dei membri del Consiglio esterni all’ateneo stesso. L’intenzione è forse quella di avvicinare le università alle realtà sociali ed economiche in cui sorgono, ma anche quella di limitare l’autoreferenzialità della comunità accademica, uno dei suoi più grandi difetti. L’approvazione di tale risoluzione produrrebbe tuttavia un’altra conseguenza: questa situazione permetterà alle università infatti di essere co-gestite da portatori di interesse diversi che, a fronte di finanziamenti all’ateneo, se ne garantiranno la gestione diretta. Una tale prospettiva non pare auspicabile.

Di fatto, lasciare agli atenei la possibilità (non l’obbligo) di integrare il proprio Consiglio di amministrazione con esperti nella gestione accademica esterni all’ateneo stesso è una vera opportunità. Ma ciascuno deve poter decidere come comporre il proprio Consiglio in relazione alle attività e alle potenzialità che vuole esprimere. Parallelamente, è indispensabile che vi sia una trasparente e robusta rendicontazione degli investimenti e dei risultati sia nei confronti della comunità accademica in senso stretto, sia nei confronti di tutti i soggetti che sono in qualche modo coinvolti nel finanziamento o nelle ricadute dirette del sistema di formazione e ricerca che un ateneo esprime.

Passando ad un altro esempio: facoltà o dipartimenti? Ecco l’annoso dualismo del sistema universitario italiano, che esprime l’indissolubile binomio tra ricerca e didattica nella vita di un ateneo. È chiaro che il moltiplicarsi paradossale di luoghi di decisione e centri di spesa, cui si è assistito nel corso degli ultimi anni, non è compatibile né con il buon senso, né con un progetto di razionalizzazione organizzativa. È dunque necessario fornire un indirizzo per ridurre questa proliferazione. Il governo ha scelto, in linea con la tradizione anglosassone, di far prevalere l’organizzazione legata alla ricerca (dipartimenti) su quella legata alla didattica (facoltà). Anche questo è un esempio in cui si mostra come la scelta ottimale sarebbe stata quella di lasciare agli atenei e alle diverse comunità scientifiche che vi afferiscono la scelta di organizzarsi in facoltà o in dipartimenti, prevedendo insieme un organismo unico e mai sovrapposto di organizzazione. Ci sono settori in cui la coincidenza tra dipartimenti e facoltà è piena; ve ne sono altri in cui le logiche di facoltà (luogo per sua natura interdisciplinare) prevalgono su quelle di dipartimento (si pensi a facoltà quali Architettura o Ingegneria). A questo proposito, occorre sottolineare anche come le linee di ricerca più all’avanguardia sono aperte a percorsi ampiamente multidisciplinari; questa realtà di fatto dovrebbe orientare le aggregazioni in modo da assecondare le preziose contaminazioni tra le discipline.

Il disegno di legge si perde successivamente in una pericolosa “numerologia”, che altro non sembra se non un ulteriore, e non necessario, eccesso di zelo normativo: numero dei docenti che possono afferire ad un dipartimento (35 o 45 se ci sono più di 1000 professori: perché?); possibilità di aggregazioni interdipartimentali in scuole o facoltà (minori di sei per meno di 1500 docenti, minore di nove per docenti compresi tra 1500 e 3000 e minori di dodici per più di 3000 docenti: perché?) ecc.

Per quanto attiene invece al reclutamento, che il sistema italiano sia difettoso in questo ambito ormai è universalmente riconosciuto. C’è chi ne attribuisce la maggiore responsabilità alla legge 210/98 e chi invece, come chi scrive, ritiene che siano state soprattutto le modalità di applicazione della legge a rivelarsi in molte circostanze le più inopportune, le meno chiare e meno rivolte alla valorizzazione del merito.

Il disegno di legge si pone tra gli obiettivi prioritari quello di riformare il sistema di reclutamento, aumentando la trasparenza delle procedure e la responsabilità sia dei commissari sia degli atenei.

Il provvedimento propone la separazione tra un livello nazionale e un livello locale: i candidati devono ottenere una abilitazione scientifica nazionale per poter accedere al concorso locale di reclutamento. Separare in due momenti diversi la valutazione della qualità scientifica di un candidato e la rispondenza del suo profilo alle esigenze dell’ateneo può essere una buona soluzione per non subordinare le une alle altre, o viceversa. Troppe volte si è visto mortificare candidati scientificamente validi per rispondere a profili, o meglio dire a identikit, stabiliti dalle facoltà o dai dipartimenti che, nella piena legittimità, sono autorizzati a imporre requisiti anche molto particolari al professore che devono reclutare. La possibilità di finanziare posti di docente con stanziamenti pubblici e privati ad hoc rappresenta una potenziale fonte di dissesto finanziario, come è stato già ampiamente sperimentato nelle università italiane, introducendo anche un inopportuno condizionamento nella selezione del personale. I finanziamenti esterni non dovrebbero essere finalizzabili al reclutamento, ma ad attività di ricerca o di didattica.

Il tema del reclutamento è introdotto in particolare dall’impegno a riordinare i settori scientifico-disciplinari. In Italia se ne contano circa 370; in Francia molti meno e in Inghilterra (RAE) solo 67. Poiché si deve escludere che il sapere sia più complesso in Italia che in Europa, viene spontaneo chiedersi perché in Italia le discipline siano così tante, mentre in Europa esse sono meno di 100 quasi ovunque. La riduzione di questo numero sarà un’impresa non facile − come hanno dimostrato i primi timidi tentativi intrapresi dal precedente governo di centrosinistra − perché ai settori si associano docenti e quindi concorsi. Il limite introdotto nella legge impedisce che essi superino i 378, ovvero non introduce alcun limite reale. Questo ingiustificabile frazionamento disciplinare tiene insieme una rete di piccole (o grandi) lobby disciplinari che si autoriproducono attraverso la gestione dei concorsi. Mirare ad un numero di discipline più congruo allo spazio europeo della ricerca, con cui sempre più l’Italia dovrà confrontarsi, è un obiettivo cui si dovrebbe ambire con più coraggio: questo articolo del disegno di legge potrebbe davvero osare di più. Come il centrosinistra chiede da tempo, si propone la differenziazione dei concorsi di reclutamento per il personale esterno dell’ateneo dai concorsi di avanzamento di carriera interni, ovvero destinati a far progredire nella carriera i docenti o i ricercatori che già appartengono ai ruoli dell’ateneo stesso. Oggi, se un’università volesse giustamente e legittimamente promuovere un suo ricercatore o un suo professore associato meritevole non potrebbe farlo: sarebbe costretta a bandire un concorso mediante valutazione comparativa, aperto a tutti senza la possibilità di valutare soltanto se il docente nei suoi ruoli sia meritevole di essere promosso oppure no. Il primo scalino della carriera accademica, ovvero il ruolo di ricercatore, viene trasformato in un ruolo a tempo determinato; esso tuttavia viene reso solo potenzialmente − e nel “potenzialmente” risiede una debolezza − una specie di tenure track, che è invece il principale canale di reclutamento utilizzato negli Stati Uniti. Il tenure track è un contratto a tempo determinato la cui potenziale trasformazione a tempo indeterminato dipende esclusivamente dalla valutazione del lavoro svolto da chi ne è titolare. Al termine della durata del contratto, l’università valuta il lavoro svolto e, in caso di giudizio positivo, il posto diventa permanente. Nel disegno di legge Gelmini, invece, si prevede che per taluni vi sia la possibilità, previo il superamento dell’abilitazione nazionale, di essere chiamati direttamente dagli atenei. Il fatto che non sia chiaro chi e perché possa beneficiarne è un punto debole della proposta. Se questo sistema venisse usato in modo diffuso dagli atenei sarebbe un passo importante verso il miglioramento dello status dei ricercatori italiani, che vivono le peggiori condizioni lavorative rispetto ai loro colleghi europei. La certezza che l’avanzamento professionale dipenda dalla qualità del proprio lavoro sarebbe una novità significativa per chi accede alla carriera accademica o di ricerca in Italia. Oggi, invece, eccellenti studiosi cercano all’estero la possibilità di proseguire una carriera che in Italia, dipendendo troppo da logiche improprie − compresa la ormai cronica mancanza di fondi degli atenei − viene di fatto loro preclusa.

In conclusione, si riporta l’attenzione sul fatto che molto spesso nel disegno di legge si rimanda all’Agenzia nazionale di valutazione (ANVUR), un organismo strategico, nato con il governo precedente, o meglio progettato completamente nella scorsa le-gislatura ma lasciato in sospeso da quella attuale. Si tratta di un organismo impegnativo al quale lo stesso disegno di legge affida molti compiti importanti, come ad esempio: stabilire criteri e parametri di ottimalità per l’allocazione delle risorse alle università; stabilire gli indicatori per accreditare sedi e corsi di dottorato; individuare e applicare un sistema di valutazione periodica dei risultati conseguiti nell’ambito della didattica e della ricerca delle singole università; tenere aggiornate le liste dei docenti che possono essere membri di commissioni concorsuali per il reclutamento e per l’assegnazione degli assegni di ricerca. A fronte di questo imponente elenco di funzioni strategiche, dalle quali dipendono alcuni passaggi cruciali delle procedure proposte nel disegno di legge, non è stato ancora emanato il decreto istitutivo. Non può che emergere il fondato sospetto di essere di fronte ai consueti assordanti proclami sul merito, non accompagnati dalla concreta realizzazione delle condizioni per valorizzarlo. Ma l’Italia non può più attendere. L’Agenzia nazionale di valutazione, con la sua natura di ente terzo rispetto ad atenei e governo, potrebbe costituire una possibilità importante per dare forza alle autonomie universitarie, mettendo nello stesso tempo a disposizione di governo e atenei uno strumento concreto per orientare il sistema universitario nella direzione di una crescita virtuosa. Certezza di maggiori finanziamenti e attivazione dell’ANVUR sono dunque condizioni assolutamente imprescindibili per qualsiasi ragionamento sul futuro delle università in Italia. Il resto è secondario.