Editoriale 5/2009

Di Giuliano Amato Giovedì 10 Dicembre 2009 17:09 Stampa
Il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, viene ormai ricordato come si rammenta il 1789 di due secoli prima. Con il 1789 si fa coincidere la Rivoluzione francese, nonostante essa si sia dipanata negli anni successivi. Con il 1989 si fa coincidere la fine del comunismo, sebbene esso a Mosca sia invece sopravvissuto per alcuni anni e, con il volto più umano di Gorbaciov, sia stato anzi determinante nel rendere possibili la caduta del Muro e l’avvento dei primi governi non comunisti nei paesi dell’Est europeo.

Il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, viene ormai ricordato come si rammenta il 1789 di due secoli prima. Con il 1789 si fa coincidere la Rivoluzione francese, nonostante essa si sia dipanata negli anni successivi. Con il 1989 si fa coincidere la fine del comunismo, sebbene esso a Mosca sia invece sopravvissuto per alcuni anni e, con il volto più umano di Gorbaciov, sia stato anzi determinante nel rendere possibili la caduta del Muro e l’avvento dei primi governi non comunisti nei paesi dell’Est europeo. Ma proprio perché è a quell’evento che oggi ricolleghiamo la cesura fra comunismo e post-comunismo, non si può non articolare una riflessione su di esso attraverso l’esame di ciò che ha significato per la Germania, per l’Europa, per il mondo e che cosa ha rappresentato per la stessa Berlino. Il significato della caduta del Muro per Berlino è di sicuro un argomento minore rispetto agli altri, ma va ricordato perché la città è riuscita in seguito a rifiorire e a diventare uno dei centri europei più belli e più vitali. Prima si andava nella sola Berlino occidentale e lo si faceva per rappresentare la distanza che si era venuta creando in ragione di quel Muro. Oggi si va a Berlino perché è una città culturalmente viva, integrata in termini di multiculturalismo, interamente riqualificata, riorganizzata e ristrutturata. Il comunismo ha avuto tanti aspetti negativi e uno dei più sgradevoli è rappresentato dall’architettura grigia e priva di fantasia nei volumi. Berlino Est era stata, come tante altre città, toccata pesantemente da questa architettura. Guardare oggi Berlino, attraversarne le strade e constatare come, grazie all’intervento di tanti bravi architetti e urbanisti, compresi quelli italiani, si sia realizzata una sorta di fusione tra le due parti (anche se le differenze rimangono), è motivo non solo di gratificazione, ma di soddisfazione per la creatività che il nuovo clima di libertà e di fervore ha generato. La caduta del Muro in quanto simbolo della caduta del comunismo è la fine di due illusioni che hanno alimentato a lungo il movimento operaio europeo e mondiale. La prima grande illusione è quella che la razionalità di un piano economico-sociale, stabilito da alcune menti e gestito da robusti computer, possa portare a risultati economici e sociali migliori della “irrazionalità” di una economia di mercato. Sappiamo molto bene quanti sono i difetti, le défaillances, i possibili fallimenti dell’economia di mercato, sempre bisognosa di correzioni. Tuttavia, la grande illusione della razionalità del piano centralizzato è crollata con la caduta di quel Muro perché, in effetti, il comunismo ha finito per perdere la partita proprio sul terreno della sua capacità di alimentare sviluppo, crescita e quindi benessere. E questo porta con sé la fine della seconda illusione che era propria di quella ideologia, vale a dire che la libertà potesse scaturire come conseguenza dell’uso, anche autoritario, del potere per sradicare il vecchio e instaurare il nuovo. Ci si è accorti, pagando dei prezzi pesanti, che della libertà si ha bisogno come componente essenziale del cambiamento e non la si può aspettare come conseguenza di un processo del quale essa non fa parte. In poche parole, direbbe chi ha sempre creduto nel riformismo, è attraverso l’uso della propria libertà che i lavoratori e gli esclusi riescono a radicare, in una società che non li riconosce, i loro diritti. Ci fu però, oltre la fine di queste illusioni, la nascita di una terza e diversa illusione, di durata assai ridotta. Ci si persuase allora che, una volta caduto il comunismo, il suo crollo portasse come naturale conseguenza l’espansione a macchia d’olio del bene di cui era capace il sistema vincitore, la democrazia liberale accompagnata dall’economia di mercato. Non c’è dubbio che fu la democrazia liberale associata all’economia di mercato a vincere la contesa dell’equilibrio bipolare che aveva caratterizzato gli anni della guerra fredda. Ma il vincitore, poi, non è affatto riuscito a diffondere a macchia d’olio i caratteri del proprio regime politico e del proprio regime economico. Si parlò di fine della storia, ma anche chi ne parlò ammette esplicitamente, vent’anni dopo, l’errore che aveva commesso. In realtà la fine del comunismo fece semplicemente emergere i conflitti che la sua esistenza e la sua difficile coesistenza con l’Occidente avevano più nascosto che eliminato. Lo vedemmo per primi noi europei con l’esplosione sanguinosa del conflitto interetnico nella ex Jugoslavia, una volta che gli Stati che ne facevano parte persero il collante del comunismo di Tito. Al di là di quel conflitto, che rappresentò la grande delusione per chi aveva sperato nel nuovo ordine mondiale come un assetto che si sarebbe imposto automaticamente, emersero poi tutti gli altri conflitti, compreso quello interreligioso. E oggi siamo alle prese, ben più che con la fine della storia, con il dilemma che pone Samuel P. Huntington: da una parte, che le diverse civiltà siano destinate al conflitto fra di loro e, dall’altra, l’ipotesi che molti di noi coltivano – per dirla in termini biblici – che Babele non sia una maledizione divina ma sia un insieme di diversità che hanno l’opportunità di convivere e di migliorarsi a vicenda. Questo è uno degli interrogativi sul nostro futuro, mentre il secondo grande quesito è in realtà il lascito rimasto senza risposta del comunismo, perché così come è giusto affermare che il comunismo è il “dio che ha fallito”, è il “dio che non ha risolto i problemi che aveva promesso di risolvere”, è altrettanto giusto dire che la sua promessa aveva creato nel mondo aspettative di giustizia, di eguaglianza che sono rimaste largamente senza risposta. E sono aspettative alle quali ancora oggi dobbiamo buona parte della risposta. Che cosa ha significato per l’Europa il crollo del Muro di Berlino? In primo luogo, quell’evento ha restituito all’Europa una grande Germania. L’unificazione tedesca fu, infatti, l’esito naturale della caduta del Muro, da cui scaturì una Germania che forse, nei paesi che l’avevano accolta e rilegittimata all’interno dell’Unione europea, ha suscitato più un moto di inquietudine che un moto di soddisfazione: la paura della grande Germania. Non fu solo Giulio Andreotti a dire di amare tanto la Germania da preferire di averne due; prima di lui l’aveva detto il socialista François Mitterrand e anche Margaret Thatcher ebbe un’analoga reazione alla riunificazione, secondo quanto suggeriscono gli archivi appena riaperti. Quindi, al di là delle diverse posizioni politiche, in Europa vi fu un atteggiamento diverso da quello tedesco: non gioia per la riunificazione ma paura o, meglio, inquietudine per le sue possibili conseguenze. Questo è un tema che abbiamo tuttora davanti, e proprio la scorsa estate, con la sentenza della Corte costituzionale di Karlsruhe sul Trattato di Lisbona, siamo venuti in contatto con una Germania che si sente meno dipendente dall’integrazione europea di quanto non fosse in passato, di una Germania che ora sente tutto il proprio peso e la propria capacità di farsi valere a prescindere dal contesto europeo e non soltanto nel contesto europeo. Non è tuttavia la sola Germania che abbiamo davanti; in realtà continua ad esistere anche l’altra, quella fortemente europeista. E se in questo clima sentissimo oggi il cancelliere tedesco affermare: «Noi non aspiriamo ad un seggio tedesco al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, noi aspiriamo ad un seggio per l’Europa», buona parte dell’inquietudine che continua a circolare verrebbe sicuramente meno. Per l’Europa, inoltre, la fine del Muro significò, oltre che l’unificazione tedesca, l’apertura del processo di allargamento dell’Unione europea. Un processo che all’inizio venne vissuto da noi europei occidentali come una riapertura delle porte di casa a fratelli forzatamente separati, tant’è vero che lo definivamo non allargamento ma riunificazione europea. Avevamo tutti in mente, allora, quelle raffigurazioni cinquecentesche dell’Europa che ne facevano una donna con la testa in Portogallo e i piedi negli Urali. Con il passare degli anni, davanti alla percezione delle diversità che preesistevano o che in parte si erano formate a seguito dei lunghi anni di separazione, i paesi che stavano entrando o quelli che ancora devono entrare nell’Unione europea sono apparsi in modo crescente come diversi da noi e quindi abbiamo ricominciato a parlare di allargamento più che di unificazione. È un processo in parte concluso ma che in parte abbiamo ancora davanti. Vent’anni dopo, il clima è cambiato e tuttavia dobbiamo dire a noi stessi che non sono cambiate le ragioni che portano a ritenere l’Europa un’entità più larga di quanto non sia la nostra attuale Unione europea. E se è vero quanto riportato nei nostri trattati, secondo i quali hanno titolo ad entrare nell’Unione quegli Stati europei che ritenessero di farlo, condividendo i nostri valori e il nostro assetto, allora dobbiamo accettare il principio che si può essere europei anche senza già appartenere all’Unione europea. Quindi l’allargamento continua ad avere le sue solidissime ragioni. Siamo noi europei a sostenere che il mondo di domani non potrà essere governato da un G2 formato da Stati Uniti e Cina e che in esso il nostro vecchio continente dovrà far valere il proprio modello di civiltà, di rispetto dei diritti umani e anche di organizzazione istituzionale, oltre che, si intende, le proprie ragioni economiche. Non c’è nulla al di fuori di noi che ostacoli una tale prospettiva. Vent’anni fa la caduta del Muro mise in moto quei processi interni che oggi possono permetterci di realizzarla: da un lato, il riavvicinamento dei confini dell’Unione europea a quelli più ampi d’Europa, consentendo alla prima di raccogliere una vasta comunità di quasi cinquecento milioni di europei e di parlare a loro nome; dall’altro, la lenta e faticosa riforma istituzionale, che sta portando verso una politica estera e di sicurezza davvero comune e verso una voce unica europea. Sono frutti maturi e dipende solo da noi se li sapremo raccogliere o li lasceremo cadere.

 

Giuliano Amato
Presidente dell’Advisory Board della Fondazione Italianieuropei