Sconfitta politica o battuta d’arresto? Il senso del risultato del centrodestra

Di Alessandro Campi Martedì 14 Dicembre 2021 16:02 Stampa
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Sonora sconfitta politica o semplice (persino salutare) battuta d’arre­sto? Fine dell’onda lunga nazional-populista (determinata dall’ascesa a Palazzo Chigi del pragmatico e anti ideologico Mario Draghi) o temporanea crisi da disaffezione (causata dalla scelta di starsene a casa compiuta soprattutto dai propri elettori)? Il centrodestra è usci­to abbastanza male – numeri alla mano – dall’appuntamento delle amministrative, ma il trionfalismo dei suoi avversari rischia di essere prematuro. Proviamo a vedere perché.

Il voto ha confermato quel che si sapeva, anche a livello di politica comparata. La parte di paese che risponde meno alla propaganda identitaria della destra è quella delle aree urbano-metropolitane. La spaccatura crescente – economica, ma anche socioculturale – tra cen­tro e periferia è un dato acquisito dell’odierna geografia elettorale, su scala europea e non solo (pensiamo agli Stati Uniti e al modo come oramai si distribuisce a livello territoriale il consenso ai democratici e ai repubblicani). È una divisione che si incrocia con quella tra globa­lismo e localismo, tra l’apertura al mondo come fattore d’innovazio­ne e progresso e i timori esistenziali e pratici prodotti da un’eccessiva apertura al mondo.

Questa divisione non è solo un problema di reddito, di posizione so­ciale o di livello di scolarizzazione, anche se queste variabili (peraltro tra di loro intrecciate) certamente contano: è anche un problema di percezione psicologica, di immaginario sociale. E quest’ultima dimen­sione non sempre è determinata dai fattori materiali sopra indicati. Esistono zone geograficamente “periferiche” – cioè estranee alle dina­miche socioculturali delle grandi città e delle aree metropolitane – che però sono tutt’altro che economicamente “marginali”. In queste ul­time zone – si pensi al Veneto o alle Marche – la globalizzazione è considerata una grande opportunità-necessità dal punto di vista degli scambi commerciali e degli d’affari, ma al tempo stesso un pericolo potenziale, qualcosa dunque da contrastare, sul piano degli equilibri sociali, dei valori culturali e dei modelli di convivenza, nella misura in cui essa, se lasciata libera di agire con tutta la sua forza, finisce con l’alterare le forme comunitarie e identitarie ereditate dalla tradizione.

Le aree interne dell’Italia – che elettoralmente valgono quasi il 70% dell’elettorato italiano –, oltre a non essere sempre quelle economi­camente arretrate, sono di sicuro quelle antropologicamente conser­vatrici o meno inclini al cambiamento: tendono a declinare in modo stretto il rapporto tra territorio e identità, appartenenza e stabilità sociale; si basano altresì su strutture relazionali di vicinato e su di una visione dell’agire collettivo di stampo in senso lato comunitario (non foss’altro come evocazione o “nostalgia” di una simile dimensione “calda” e protettiva del vivere associato, avendo questi territori nel frattempo introiettato, sotto i colpi di una modernizzazione spesso sfrenata, un habitus individualistico-acquisitivo che ha aumentato l’anomia e, come reazione, il desiderio di socialità e autenticità).

In questo pezzo d’Italia il centrodestra, proprio giocando sulle aspet­tative dal basso in termini di sicurezza e stabilità sociale, di difesa di un benessere acquisito e di uno status sociale che si teme possano essere minacciati dall’esterno, da anni è riuscito a esercitare una presa elettorale crescente, tale da renderlo ancora – come peraltro i son­daggi confermano – forza complessivamente maggioritaria su base nazionale. Insomma, il centrodestra che perde nell’Italia delle città è facile che si ritrovi a vincere nell’Italia dei borghi.

Ma l’analisi sociologica deve necessariamente intrecciarsi con quella politica. Su questo versante il voto delle amministrative ha eviden­ziato problemi ed errori che, nella prospettiva del voto nazionale, potrebbero riverberarsi negativamente sulla tenuta dell’alleanza di centrodestra.

Partiamo dagli ultimi, cioè dagli errori d’immagine e di valutazione politica compiuti dai diversi partiti della coalizione, in particolare i due più grandi. Ad esempio, le ragioni che hanno portato, su piaz­ze ad alto valore strategico-simbolico quali Roma, Milano e Napoli alla scelta di candidati che sono apparsi deboli e/o inadeguati prima ancora che iniziasse la campagna elettorale vera e propria. Candidati scelti in ritardo e senza un’adeguata selezione – hanno sostenuto ex post Salvini e la Meloni, a giustificazione dei deludenti risultati. In realtà, lo sbaglio non è stato sui nomi, sui tempi e sulle modalità di scelta, ma sull’impostazione stessa della battaglia: si era convinti che bastasse la presenza nelle piazze e sui media dei leader nazionali per fare da traino anche a personalità scialbe. Si pensava di trasformare un confronto amministrativo sui diversi territori (così tanto diversi tra di loro da richiedere strategie elettorali diversificate) in una prova di forza politica – finalizzata magari a ottenere elezioni anticipate nel caso di una schiacciante vittoria – dove a contare sarebbe stata soprattutto la propaganda gestita dai vertici dei singoli partiti.

In una parola, ci si è fidati troppo di sé stessi (e dei sondaggi nel com­plesso assai favorevoli al centrodestra ormai da mesi). Una fiducia nata a sua volta dalla trasformazione in senso ac­centuatamente personalistico che Lega e Fratelli d’Italia hanno conosciuto negli ultimi anni. Su questo versante, essi sembrano aver introiettato strada facendo il peggio di un certo berlusconi­smo: la visione del partito come struttura mo­nocratica, come partito-persona sul piano delle decisioni politiche come anche sul piano comu­nicativo e dell’immagine. Avrebbero insomma dovuto vincere Matteo e Giorgia, in realtà han­no perso Michetti (Roma), Bernardo (Milano) e Maresca (Napoli), giudicati anche dagli elettori di centrodestra – che infatti in buona parte si sono astenuti – poco credibili per il ruolo amministrativo cui con­correvano. Peraltro, errore nell’errore, in una competizione che si sarebbe voluta politico-nazionale non bisognava candidare profili pseudo-civici, semmai esponenti dichiarati di partito.

Legato a questo calcolo sbagliato è poi il nodo politico relativo alla leadership del centrodestra, non risolto dal voto amministrativo e dunque destinato a ripresentarsi in vista di quello politico. Chi può legittimamente aspirarvi? Non è solo un problema di ambizioni per­sonali, ma una questione, per così dire, tecnico-politica. Una coa­lizione partitica (come qualunque alleanza politica) funziona se c’è una forza trainante in grado di dettare la linea ai contraenti minori. Prima comandava senza dubbi il Cavaliere, dall’alto del suo 30% e passa di voti. Avere oggi due partiti intorno al 20% – cioè con una forza sostanzialmente pari – non aiuta invece a trovare un equilibrio. Chi comanda quando la competizione è tra eguali? La regola del “un voto in più” – che Giorgia Meloni avrebbe voluto applicare già a partire dall’esito delle scorse amministrative, immaginando una cre­scita travolgente del suo partito a danno dei leghisti che però a livello locale non c’è stata – era e rimane politicamente insensata. Una lea­dership politica forte non può costruirsi su una base numerica all’ap­parenza oggettiva. Un “voto in più” non darebbe alcuna legittimità effettiva nella guida della coalizione: non resta dunque che l’ipotesi di un accordo politico diretto, se dovessero restare vigenti, anche nel prossimo futuro, gli attuali rapporti di forza. Per inciso, è lo stesso problema del centrosinistra, dove anche tra PD e M5S non esiste un attore chiaramente dominante che possa oggettivamente aspirare alla guida della coalizione: anche in quest’ultimo caso si dovrà prima o poi passare da un accordo politico a due.

L’altra questione politica – ben più seria, perché attiene alla dimen­sione progettuale, cioè al futuro stesso della coalizione – è lo slitta­mento progettuale del “centro-destra”, come notato da molti osser­vatori, verso un “destra-centro” sempre più dominato dalla retorica sovranista.

Il radicalismo (in primis verbale) come stile oggi dominante all’in­terno della coalizione, se da un lato sembra premiante sul piano del consenso immediato, dall’altro rischia di essere un problema sul pia­no delle (future ed eventuali) responsabilità di governo. Probabil­mente, la scelta di Salvini di sostenere Draghi è nata anche da questa consapevolezza: con i toni da perenne propaganda, con la reiterazio­ne ansiogena di poche formule di battaglia, si offre una valvola di sfogo all’elettorato, ma non ci si accredita nel ruolo di forza in grado di assumere funzioni di governo a livello nazionale (e internazio­nale). Il problema, dopo anni di enfasi populista e dopo essersi co­struiti una solida fama come capi-popolo, è provare a evolvere verso posizioni più pragmatiche senza perdere voti e restando credibili agli occhi dei propri seguaci. Proprio la Lega dimostra come “abbassare i toni”, dopo aver abituato i propri simpatizzanti a certi stilemi po­litico-comunicativi, comporta nell’immediato un prezzo (così come nell’immediato ha rappresentato un vantaggio per la Meloni la sua intransigenza a prova di compromesso).

Per entrambi, inoltre, si pone il problema di capire quali benefici, in termini d’immagine e di voti, comporti il continuo ammiccare alle proteste “libertarie” contro i vaccini e/o il green pass avendo un elettorato che in assoluta maggioranza è favorevole a entrambi. Es­sere espressione politica della maggioranza silenziosa, come la destra ha spesso fatto nella sua storia, o intestarsi la rappresentanza delle minoranze rumorose (col rischio, oltre che di guadagnarci poco, di dare copertura a proteste che prevedibilmente potrebbero determinare un crescendo sempre più aggressivo e violento, se l’emergenza pandemia e le connesse restrizioni dovesse continuare come sembra certo)?

Nell’era del declino politico del berlusconismo, per la coalizione di centrodestra si pone dunque il problema – non facile, ma è divenuto un pas­saggio necessario – di come rimeditare la lezione lasciata dal Berlusconi moderato e pragmatico adattandola al nuovo quadro politico e alla per­sonalità di coloro che ambiscono alla sua eredità. Quest’ultimo, anche quando faceva l’estremista a chiacchiere, ha sempre saputo quanto il suo elettorato, oltre i toni aggressivi tipici delle battaglie elettorali e della propaganda a uso dei media, fosse in realtà composto da uomini e donne tutt’altro che inclini – in maggioranza – all’avventurismo e al fanatismo ideologico. Un elettorato semmai socialmente conformi­sta, tradizionalista sul piano dei valori, interessato al quieto vivere e alla difesa (in sé non disprezzabile) del proprio interesse diretto (lavoro stabile, meno tasse da pagare, uno stato poco invadente ecc.).

Per semplificare, a Salvini e Meloni (e ai rispettivi partiti) s’impone un passaggio convincente e relativamente veloce dal populismo al conservatorismo, dal radicalismo al moderatismo, imposto non solo da ragioni strumentali e contingenti (andare al governo, in caso di vittoria alle urne, senza dover fare la fine ingloriosa già toccata a Berlusconi e Salvini quando, per colpa dei loro atteggiamenti a dir poco bizzarri e incontrollabili, si sono ritrovati senza più interlocu­tori nei palazzi del potere nostrano e nelle stanze delle cancellerie internazionali), ma anche dal mutato clima sociale prodotto in primis dall’emergenza pandemica infinita (la maggioranza degli italiani an­che di centrodestra – al netto delle frange sociali arrabbiate che forse nemmeno sono più interessante all’esercizio democratico del voto – vuole dai partiti risposte alle proprie ansie e azioni di governo concre­te, altrimenti meglio tenersi Draghi per i prossimi trent’anni).

Non è stato e non è un problema, invece, quello che si continua a ritenere tale: avere una coalizione i cui membri stanno in parte al governo, in parte all’opposizione rispetto all’attuale esecutivo. Na­turale, secondo molti osservatori, che gli elettori del centrodestra si siano sentiti smarriti e confusi (e il peggio potrebbe ancora venire). In realtà, questa divaricazione tattica può essere letta come un poten­ziale vantaggio strategico nella misura in cui, a conti fatti, il centro­destra si trova a giocare tutte le parti in commedia: forza responsabile di governo (Lega e Forza Italia), forza intransigente di opposizione (FdI). Quel che si perde da una parte, lo si guadagna dall’altra. È come disporre di un menù politico che appaga potenzialmente tutti i gusti, come dimostra il fatto, confermato dai sondaggi e dalle ammi­nistrative dell’ottobre 2021, che il centrodestra, quando perde, non perde voti a favore degli avversari, ma al massimo li redistribuisce al proprio interno.

Insomma, nonostante il parziale flop alle urne la forza potenziale del centrodestra è ancora grande. Come grande, se non verranno risolti i nodi sommariamente indicati, è il rischio di sprecarla.