Una amministrazione pubblica migliore, più efficace e più efficiente

Di Marianna Madia Mercoledì 22 Settembre 2021 16:07 Stampa
Una amministrazione pubblica migliore, più efficace e più efficiente Istockphoto/Rost-9D

 

Siamo alla vigilia della gestione del più grande investimento di ri­sorse per l’ammodernamento del paese. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza rappresenta, al di là degli aspetti di retorica politica che accompagnano le discussioni pubbliche, anzitutto una sfida di cre­dibilità del nostro apparato pubblico nella gestione e nell’attuazione delle misure. Il livello di attesa, soprattutto nella dimensione euro­pea, sulla capacità del sistema paese di sfruttare il credito che, non senza fatica e scetticismo, ci è stato concesso è tuttavia proporzionale all’occasione che abbiamo per tentare di rimettere in ordine i nostri “fondamentali” e recuperare rispetto ai partner europei in termini di sviluppo economico, competitività ed efficienza nei settori strategici.

La sfida è duplice: da un lato la credibilità del paese, dall’altro l’af­fermazione o una rischiosa battuta di arresto per coloro che credono nell’Europa degli investimenti, del debito “buono” come volano di crescita, contro l’Europa dei “rigoristi” o peggio ancora delle forze po­litiche che mirano all’indebolimento del progetto europeo attraverso la riduzione degli ambiti di scelta comuni e di solidarietà. È eviden­te come non tutto passi per la misura con cui riusciremo ad attuare il PNRR, ma è altrettanto chiaro che le nostre incapacità avrebbero conseguenze enormi sul paese. Per questo, mai come ora che siamo all’inizio della stagione dell’attuazione delle misure, è lecito ragiona­re sulla qualità della nostra organizzazione amministrativa e su come siamo arrivati, negli anni, a questo snodo così importante per il paese.

«Occorre sempre trovare un punto di equilibrio tra fiducia e respon­sabilità: una ricerca non semplice, ma necessaria. Occorre, infatti, evitare gli effetti paralizzanti di quella che viene chiamata la “fuga dalla firma”, ma anche regimi di irresponsabilità a fronte degli illeciti più gravi per l’erario. Tenendo conto peraltro che, negli ultimi anni, il quadro legislativo che disciplina l’azione dei funzionari pubblici si è “arricchito” di norme complesse, incomplete e contraddittorie e di ulteriori responsabilità anche penali (...). Tutto ciò ha finito per sca­ricare sui funzionari pubblici responsabilità sproporzionate che sono la risultante di colpe e difetti a monte e di carattere ordinamentale; con pesanti ripercussioni concrete, che hanno talvolta pregiudicato l’efficacia dei procedimenti di affidamento e realizzazione di opere pubbliche e investimenti privati, molti dei quali di rilevanza strate­gica». Con queste parole, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei Conti, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha affrontato la questione della burocrazia dando continuità a un giudizio più equilibrato verso i dipendenti pubblici, le loro re­sponsabilità e più in generale il ruolo decisivo che le strutture ammi­nistrative ricoprono per lo sviluppo del paese. Siamo lontani ormai dalla retorica dei “fannulloni” e dalla convinzione che la Pubblica amministrazione sia la bad company su cui scaricare le inefficienze dell’intero sistema pubblico e privato del paese. È stata una stagione buia, foriera di un indebolimento generalizzato della credibilità dello Stato, che è stata accompagnata dalla stagione del populismo in una miscellanea corrosiva che ha prodotto la lacerazione del rapporto fi­duciario con i cittadini e l’avanzata da un lato di opzioni politiche che minavano la rappresentanza e il ruolo dei corpi intermedi come collante essenziale della vita democratica e dall’altro aprivano la stra­da a visioni iperliberiste fuori tempo massimo che scommettevano sullo “Stato minimo” e su un arretramento generalizzato del ruolo del pubblico come presidio di settori fondamentali e come stimolo per lo sviluppo di nuovi.

Siamo dentro una stagione diversa che si presenta però ancora mag­matica e dove si fatica a dare una nuova veste compiuta al ruolo es­senziale dello Stato. Il miglior approdo di questa fase dipenderà dalla politica, certamente, ma anche dalla capacità della classe dirigente pubblica, se correttamente ingaggiata e responsabilizzata, di essere all’altezza della sfida.

IL LUNGO PERIODO DELLE RIFORME

La burocrazia, nella sua accezione deteriore, è uno dei grandi classici della narrativa negativa del nostro paese. Ma non solo. Non serve citare ancora “Il Castello” per ricordare come il rapporto tra potere autoritativo e cittadini rappresenti uno dei grandi snodi di tutte le democrazie moderne. In fondo, dobbiamo ascrivere a questo filone anche la questione europea: la percezione di scollamento delle regole europee rispetto al vissuto quotidiano dei citta­dini, la distanza della cosiddetta “bolla brusselle­se” dagli interessi, dai problemi e dalle necessità delle popolazioni, rappresenta oggettivamente uno dei fattori che hanno contribuito a generare un sentimento di distanza – talvolta persino di avversione – al progetto europeo, determinando, ma non è questa la sede per parlarne, terreno fa­vorevole a movimenti politici nazionalisti.

Si tratta, insomma, di un problema che ha ra­dici profonde e cause multiple, ovviamente con distinguo da paese a paese, ma che ha al fondo una radice comune nel bilanciamento dei rapporti tra interesse pub­blico, interessi individuali, potere autoritativo e soddisfacimento dei bisogni dei cittadini.

L’Italia, a partire dagli anni Novanta, ha capito l’ineluttabilità di una riforma del proprio apparato amministrativo, dei modelli di orga­nizzazione e degli strumenti di cui dotarsi per fare fronte ad una esigenza di competitività del nostro sistema. Si tratta di un lungo cammino che merita un’analisi seria, rigorosa, rifuggendo il rischio di cedere a una ingiusta retorica globalmente decadente. Non è solo un tema di etica storica, ma più al fondo il dovere istituzionale di analizzare con precisione lo stato dell’arte, individuare fattualmente i punti di criticità senza cadere nell’errore, tipico della politica, di voler affrontare ogni problema stravolgendo tutto quanto sia stato fatto in precedenza, con il rischio di ripartire ogni volta da zero e tendenzialmente lì rimanere.

Credo sia possibile sintetizzare il percorso di riforme della Pubbli­ca amministrazione in quattro grandi tappe. La prima è certamente la legge 241 del 1990 e poi il lavoro di Sabino Cassese che han­no disegnato un nuovo modello di procedimento amministrativo, mettendo al centro dell’azione amministrativa i principi di efficacia ed efficienza. A partire da quella riforma si comincia a ridisegnare la narrazione del ruolo della PA, affermando che l’amministrazione pubblica, seppur nell’esercizio dei suoi poteri autoritativi, è servente rispetto al cittadino. La seconda tappa è rappresentata dalla riforma di Franco Bassanini che, nel ridisegnare l’organizzazione dei poteri tra centro e periferia, avvia un profondo processo di semplificazione dei procedimenti. Un’amministrazione più di prossimità e modelli semplificati di interazione rappresentano i due grandi filoni di quella stagione di riforma.

La terza tappa, che dal mio punto di vista segna un’interruzione del processo virtuoso avviato con la 241 e proseguito da Franco Bassani­ni, è rappresentata dalla Riforma Brunetta. Quella riforma, al netto delle intenzioni dichiarate di agire sull’efficienza ed efficacia dell’a­zione e sulla qualità dei servizi, complice il ciclo economico negativo della fase, avvia un drastico processo di impoverimento delle am­ministrazioni pubbliche, sotto il profilo strumentale e delle risorse umane. Con l’intenzione di ridurre aree di sprechi, si affida un forte potere alla legge, riducendo ogni spazio di contrattazione e si costrui-sce una retorica collettiva che finisce con l’addossare al dipendente pubblico la responsabilità delle inefficienze dell’amministrazione. I risultati non possono dirsi brillanti.

La quarta tappa, per concludere, è rappresentata dalla legge 124 del 2015. Non spetta ovviamente a me dare giudizi sulla riforma che giornalisticamente porta il mio nome. È però corretto affermare che la legge del 2015 si ispira ai principi e agli obiettivi della 241 e del lavoro di Sabino Cassese e poi di Franco Bassanini, tentando un ulte­riore salto in avanti nel riequilibrare il rapporto tra cittadini e ammi­nistrazione. Una riforma organica che affronta i temi organizzativi, di ridisegno di alcuni apparati, di riforma del lavoro pubblico, della trasparenza e della semplificazione dei procedimenti a cui si aggiun­ge, simbolicamente rubricato all’articolo 1 della legge, la cittadinan­za digitale come grande frontiera del nostro tempo. Prendo spunto da questo per citare un tema a cui sono particolarmente affezionata, anche perché lo considero parte fondamentale di un sano rapporto tra cittadino e amministrazione. Una delle riforme di cui personal­mente vado più orgogliosa è l’introduzione dell’accesso civico gene­ralizzato, quello che è stato definito “Freedom of information act” mutuando il nome dalle analoghe normative anglosassoni. Credo sia nel merito e nel metodo una norma che vale la pena ricordare. Ap­pena arrivata al ministero cominciai a ricevere sollecitazioni da parte di numerose associazioni affinché l’Italia si dotasse di uno strumento che consentisse a qualsiasi cittadino, a prescindere dalla sussistenza di un interesse soggettivo, di accedere a documenti e dati in possesso della PA (senza ledere ovviamente la privacy di altri soggetti). Si trat­tava di una battaglia di trasparenza. Ma a ben guardare è stata anche l’occasione di realizzare un passo in avanti notevole nel riequilibrio di poteri tra cittadino e amministrazione. Era, infine, l’opportunità di indurre indirettamente le amministrazioni a digitalizzare processi e documenti per rispondere tempestivamente alle domande dei cit­tadini. Abbiamo lavorato a lungo assieme alle associazioni, ai tecnici da anni impegnati in questa battaglia, e siamo arrivati a costruire una proposta normativa che non è stato affatto semplice far approvare. Non è questa la sede per rappresentare le, anche comprensibili, resi­stenze a questa innovazione. È invece interessante registrare che di­versamente da ciò che molti temevano, l’accesso civico generalizzato è entrato progressivamente nella cultura dei cittadini, dei giornalisti, delle associazioni, con un utilizzo sobrio, mirato ed efficace.

LA CLASSE DIRIGENTE DELLO STATO

Negli anni di governo ogni volta che mi recavo nelle Università per parlare della riforma in corso ponevo sempre questo tema agli stu­denti: “vorrei contribuire a fare in modo che per voi lavorare nel set­tore pubblico diventi un’ambizione al pari di un lavoro di prestigio in una grande multinazionale”. E noto con piacere che oggi, Renato Brunetta, nuovamente alla guida del ministero dopo gli anni della campagna contro i “fannulloni”, abbia cambiato idea e utilizzi argo­menti molto simili a quelli attorno ai quali, nel periodo dei governi Letta, Renzi e Gentiloni, il centrosinistra ha provato a ricostruire il sistema del pubblico impiego.

In effetti, il tema della formazione del personale pubblico ha rappre­sentato uno dei primi interventi che abbiamo fortemente voluto. Nel decreto legge 90 del 2014, il primo passaggio legislativo del percorso di riforma della PA, abbiamo ridisegnato il modello organizzativo delle scuole di formazione per il pubblico impiego con la soppressio­ne di cinque scuole di formazione e la contestuale assegnazione delle funzioni degli organismi soppressi alla Scuola nazionale dell’am­ministrazione (SNA). Il nostro obiettivo era creare una sola grande scuola di formazione, un luogo unico deputato a formare l’intera classe dirigente pubblica da mettere al servizio di ogni amministra­zione. Il principio che ha ispirato questa scelta – lungi dall’essere una mera volontà di razionalizzazione – era l’unicità dell’amministrazio­ne, l’idea che le diecimila amministrazioni pubbliche dovessero in realtà rappresentare un corpo unico e, nel rispetto delle inevitabili diversità di funzioni, fosse assicurata omogeneità nella qualità dei servizi e nelle modalità di azioni. Noi credevamo, e io credo tuttora, che ciò dovesse essere affrontato in primo luogo assicurando una co­mune base formativa in un unico centro di eccellenza che generasse un corpo unico di amministratori che si riconoscessero nei linguaggi, nelle competenze e nelle comuni funzioni di servizio al cittadino.

La SNA rappresentava il primo tassello di questo disegno. Ma accan­to a ciò occorreva da un lato superare gli anni della retorica offensiva verso i dipendenti pubblici, dall’altro contrastare in modo efficace le distorsioni esistenti e agire sui fattori di blocco dell’accesso al pub­blico: contratti e concorsi. Alla fine del percorso durato quasi cinque anni, siamo riusciti a rinnovare i contratti dei dipendenti pubblici, superare in molta parte la piaga del precariato, riformare i modelli di reclutamento introducendo il principio dei fabbisogni e porre le premesse per una nuova stagione di assunzioni.

Se queste sono le note che considero positive, ve ne è certamente una che considero negativa. Credo che la riforma della dirigenza pubbli­ca sia un obiettivo mancato. Una riforma che allo Stato manca da troppo tempo. L’intervento sui criteri di reclutamento e di carriera della dirigenza era uno dei tasselli che dovevano comporre il quadro di una amministrazione più efficiente e meritocratica. Nel nostro disegno esistevano tre punti cardine: il rafforzamento dell’indipen­denza della dirigenza dalla politica, un sistema di carriera fondato sui risultati, il superamento degli steccati tra la dirigenza dei territori e quella dello Stato centrale. Per questo motivo, in coerenza con la riforma già citata della Scuola superiore della pubblica amministra­zione e con l’idea dell’amministrazione pubblica come corpo unico della Stato, abbiamo portato avanti una proposta di riforma che si è simbolicamente bloccata sulla porta del Capo dello Stato che stava per firmare il decreto legislativo, dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri, quando è giunta la notizia che una sentenza evolutiva della Corte Costituzionale, per un presunto vizio procedimentale, ci imponeva di tornare in Conferenza delle Regioni e ottenere l’unani­mità dei consensi delle Regioni e non già il solo parere favorevole. Non credo sia stata una bella pagina per il processo decisionale delle istituzioni, ma più in generale credo sia stata un’occasione persa per introdurre un’innovazione strutturale nel sistema di funzionamento della dirigenza di cui abbiamo fortemente bisogno.

Tecnicamente parlando, pur consapevole che anche quella riforma era certamente perfettibile, penso oggi che quella proposta rappre­senti una traccia di cui sarebbe utile discutere.

LA DIGITALIZZAZIONE DEL SISTEMA PUBBLICO

Infine, in questa riflessione complessiva sulla nostra amministrazione pubblica, ritengo doveroso un passaggio sulla trasformazione digitale in atto. Mai come in questi terribili mesi per il nostro paese e per il mondo intero, il tema della trasformazione tecnologica ha assunto una simile centralità. Non è un caso che nel nostro PNRR il digitale rappresenti, dopo la transizione ecologica, la seconda voce di inve­stimento.

Non voglio soffermarmi qui sugli impatti della pandemia sul nostro sistema e su quanto tutto ciò stia trasformando radicalmente i nostri modi di lavorare, produrre e interagire; in questi casi, si corre sempre il rischio di osservare i fenomeni con un’ottica emergenziale, perden­do di vista i macro processi che è nostro dovere provare a disegnare e governare.

Credo che il periodo che va dal 2014 al 2018 abbia rappresenta­to per l’Italia il momento più importante per un salto di qualità sul fronte della trasformazione digitale, grazie anche al grande la­voro svolto da Francesco Caio e Diego Piacentini nei governi Letta, Renzi e Gentiloni. In quella stagione noi comprendemmo che l’u­nico modo per uscire dalla palude di annunci, tentativi parcellizzati e aspettative inevase era partire dalle fondamenta: costruire alcune grandi infrastrutture pubbliche su cui poggiare la digitalizzazione dei servizi e fare da volano anche all’innovazione del settore priva­to. L’anagrafe unica nazionale, l’identità unica digitale, il sistema dei pagamenti elettronici verso la PA e la fatturazione elettronica, la di­chiarazione precompilata e il punto unico di accesso ai servizi della Pubblica amministrazione sono i grandi pilastri indispensabili che sono stati realizzati. Non occorre sottolineare come tutto sia ancora oggi perfettibile, come tutte queste infrastrutture debbano crescere, migliorare per diffonderne maggiormente l’uti­lizzo e l’utilità. Ma oggi esistono. Oggi c’è una strada che consente a molti servizi di viaggiare in modo più semplice, veloce ed efficace e ci sono le condizioni per aggiungere a quelle infrastrut­ture, seguendo il medesimo metodo, altre di cui dobbiamo dotarci e mi riferisco in primo luo­go all’interoperabilità delle nostre banche dati, all’utilizzo dei big data e naturalmente alla banda ultra larga.

Esiste però un tema di fondo con cui dover fare i conti: noi viviamo in una parte di mondo, l’Eu­ropa nel suo complesso, che paga un ritardo decennale sulla compe­titività tecnologica rispetto almeno a Stati Uniti e Cina. Questo è un fattore chiave, strategico per lo sviluppo del sistema economico ma anche per la tutela dei diritti degli individui e per la democrazia. La consapevolezza di questo dato essenziale, su cui pure l’Unione euro­pea sta dando segnali di reazione negli ultimi anni, deve tenerci in guardia da miopi derive sovraniste che nell’illusorio pensiero di una possibile italica autarchia digitale rischiano di spingere verso scelte irragionevoli che rischieremmo di pagare a caro prezzo negli anni a venire.

CONCLUSIONI

Guardando lo stato della nostra amministrazione pubblica in un’ot­tica prospettica e non condizionata da fattori contingenti, credo sia corretto affermare che, nel complesso, la nostra amministrazione pubblica è migliore, più efficace e più efficiente, di quanto sia gene­ralmente rappresentata. Se certamente è ancora lontana dall’essere la burocrazia che vorremmo e di cui avremmo bisogno, è altrettanto chiaro che si sia consolidata ormai con chiarezza una cultura istitu­zionale che ha ben presente la strada su cui insistere.

Il punto di domanda, la questione con la quale ho aperto questa riflessione, tuttavia permane. Una soddisfacente realizzazione degli obiettivi previsti dal PNRR imporrà uno sforzo eccezionale agli ap­parati dello Stato e richiede una presa di responsabilità individuale e collettiva per superare i blocchi e le inefficienze del sistema che tuttora permangono e che rischiano di essere il fattore di fallimento di molti progetti.

Alle forze politiche è chiesta una vigilanza attiva ma anche la capacità di intervenire, con coraggio, introducendo dove occorra i correttivi normativi che si riterranno necessari.

Le forze politiche, soprattutto quelle progressiste, abbiano la piena consapevolezza che questa sfida non riguarda solo il nostro paese e va ben al di là della stagione politica attuale: il PNRR può essere il piano attorno a cui ricostruire, alla prova dei fatti, l’idea di uno Stato che con professionalità, strutture e investimenti svolga un ruolo deci­sivo per la tutela dei diritti, delle libertà individuali e per il sostegno allo sviluppo economico e sociale del paese.