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La parabola di Boris Johnson

«Attento a ciò che desideri, perché potresti ottenerlo» diceva Oscar Wilde. Raramente questo aforisma risulta tanto azzeccato come nel rapporto tra Boris Johnson e la premiership. Come abbiamo cercato di raccontare su questa stessa rivista,1 quella di arrivare a Downing Street come il suo idolo Winston Churchill è stata per Johnson una vera e propria ossessione, per ottenere la quale non ha lesinato azioni avventate e attacchi spregiudicati ai propri avversari politici. Una tattica che ha contrassegnato tutto il suo agire politico e che aveva sempre pagato, anche grazie all’appoggio delle élite inglesi (stampa in primis) che consideravano una sua ascesa all’ufficio più alto del paese come un dato di fatto: si discuteva del quando, non del se.

 

Una analisi della sconfitta del Labour

Nel mese di giugno l’associazione Labour Together ha pubblicato il suo tanto atteso rapporto sulle elezioni politiche britanniche del 2019. L’associazione nasce con l’intento di essere un ambiente “neutrale” tra le tante (e l’un contro l’altra armate) correnti del Labour, e all’indomani della storica sconfitta elettorale dello scorso anno ha messo insieme quindici tra parlamentari, ex parlamentari, associazioni, esperti, militanti e giornalisti per analizzare quello che era andato storto nella campagna elettorale conclusasi con il peggior risultato laburista dal 1935. Tra i membri della commissione spicca il nome di Ed Miliband, ex leader del Labour e ora ministro ombra per il Commercio.

Keir Starmer, una pagina nuova per il Labour

Come altre volte cerchiamo di partire dai dati. Keir Starmer ha stravinto il congresso del Partito Laburista britannico arrivando primo in tutte le fasi del tortuoso sistema di elezione del leader che il Labour si è dato a partire dal 2015. Si è assicurato il maggior numero di firme all’interno del gruppo parlamentare, il maggior sostegno tra le sezioni locali del partito e ha ottenuto l’appoggio di quasi tutti i grandi sindacati affiliati.

Labour, una sconfitta da leggere con la mappa

È inutile nasconderlo: il risultato delle elezioni del 12 dicembre è stato per Jeremy Corbyn un disastro, in termini di seggi il peggiore per i laburisti dal 1935. Tuttavia, in termini di voti assoluti (10,2 milioni) e di percentuali (32,2%) non è stato così negativo se si pensa che nel 2005 Tony Blair, con 9,5 milioni di voti e il 35%, ottenne 355 seggi e una maggioranza schiacciante in Parlamento. E soprattutto bisogna considerare che nel 2015 Corbyn ereditò da Ed Miliband un partito al 29%, con circa un milione di voti in meno (oltre che con circa la metà degli iscritti, mentre oggi il Labour veleggia verso quota 600.000, di gran lunga il partito con più iscritti nella sinistra occidentale).

Boris Johnson, il leader della spregiudicatezza

Dopo che Boris Johnson è stato nominato leader del partito conservatore e, di conseguenza, primo ministro della Gran Bretagna, molti commentatori lo hanno definito il “Trump inglese”. Certo, questa impressione è favorita dalla grande intesa che pare esserci tra i due e dalle sperticate lodi che il presidente americano ha rivolto a Johnson su Twitter. Eppure questa similitudine rischia di essere decisamente fuorviante, Johnson e Trump non potrebbero essere più diversi se si esclude la passione per una capigliatura bizzarra.
Trump infatti si è imposto sulla scena per il suo essere un personaggio assolutamente alieno alla politica e all’establishment, in particolare quello dei partiti.

I Miliband, la storia del Partito Laburista

Ralph Miliband è stato uno degli intellettuali britannici più influenti della seconda metà del Novecento. Nato a Bruxelles nel 1924, da famiglia di polacchi ebrei trasferitisi in Belgio, nel 1940 fu costretto a scappare in Gran Bretagna con la famiglia per sfuggire alle persecu-zioni naziste. Di lì a poco si iscrisse alla prestigiosa London School of Economics e cominciò la sua carriera accademica. Anche per via delle peripezie familiari le sue idee politiche divennero via via sempre più radicali, tanto da diventare uno dei più importanti studiosi mar-xisti del paese e un punto di riferimento intellettuale per la sinistra britannica.

Che fine ha fatto Gordon Brown?

Gordon Brown dieci anni fa avrebbe potuto stravincere un’elezione e, chissà, forse diventare uno dei più importanti leader della storia laburista. Invece verrà ricordato come colui che ha consegnato il Regno Unito ai conservatori di David Cameron, che hanno guidato il paese verso anni di austerità, lacrime e sangue e il disastro della Brexit.
Nel giugno del 2007, infatti, dopo anni di lotte intestine nel Labour tra Gordon Brown e Tony Blair, lo scozzese Brown diviene finalmente leader del Partito Laburista, in un congresso senza contendenti che lo porta direttamente al n. 10 di Downing Street. Brown è un leader atipico, innanzitutto perché è scozzese, cosa molto rara per un Regno Unito ancora fortemente “inglese”, e inoltre perché è uno dei rarissimi casi di primo ministro non formatosi a Oxford o a Cambridge. Questo non influisce certo sulla sua preparazione o formazione, però ci indica che Brown non ha fatto parte di quelle cerchie ristrette in cui si formano le future classi dirigenti britanniche, classi dirigenti – in entrambi i partiti – piuttosto standardizzate persino nell’accento e nell’abbigliamento. Eppure nel settembre di quell’anno i sondaggi sia per il Labour che per quanto riguarda il gradimento personale di Brown sono alle stelle, dopo anni di lento calo laburista che nel 2005 ha vinto le elezioni con una maggioranza in declino.

Corbyn, il vecchio socialista che ha rivitalizzato il Labour

Come è possibile che un sessantottenne, sindacalista, parlamentare di lunghissimo corso ma che non ha mai ricoperto ruoli di spicco nel governo e nel Partito Laburista, attivista di tutte le cause perse degli anni Sessanta, sia riuscito a diventare leader della sinistra inglese e un fenomeno pop in grado di scatenare tra i giovani britannici un entusiasmo riservato solitamente alle rockstar? Il successo di Jeremy Corbyn è da un lato l’esito di un intreccio di eventi rocamboleschi, dall’altro il frutto del suo modo di fare politica e della forza dell’idea che rappresenta: un programma elettorale apertamente socialista in grado di ottenere un consenso eccezionale perfino nel Regno Unito.

L’allarme scozzese

I cittadini scozzesi hanno preferito il Regno Unito alle incognite dell’indipendenza, ma il referendum ha fatto suonare un importante campanello di allarme che non deve essere sottovalutato: in Scozia, come in altre parti dell’Europa, quello che sta emergendo non è il solito vecchio nazionalismo e la sinistra deve giocare d’anticipo per farvi fronte.

Towards a new politics of production

La crisi economica e le politiche di austerità hanno avuto un impatto devastante sulla crescita del Regno Unito. La sfida per i partiti di sinistra, ora, è riuscire non solo a ripristinare la fiducia popolare nelle proprie capacità di gestire le difficoltà, ma soprattutto progettare una strategia di sviluppo credibile.

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