Giorgio Napolitano, una lunga storia politica e istituzionale

Di Anna Finocchiaro Lunedì 18 Dicembre 2023 14:17 Stampa
Giorgio Napolitano, una lunga storia politica e istituzionale ©iStockphoto/cienpies con elaborazione grafica di Emanuele Ragnisco

È una lunga storia politica e istituzionale quella di Giorgio Napolitano, che comincia a Napoli nel 1945. La città è stata liberata dai nazisti dall’insurrezione popolare del settembre del 1943, che ha favorito così l’ingresso delle truppe alleate, pagando però un prezzo assai alto di lutti anche tra i civili. È sfigurata dai bombardamenti e conosce miseria infame, centinaia di migliaia sono i senzatetto, 200.000 secondo il sindaco Gennaro Firmariello. Devastata è la sua dignità: La Capria la definisce «una Saigon mediterranea», Eduardo De Filippo racconterà di questa devastazione in “Napoli milionaria”, che va in scena al San Carlo per la prima volta proprio nel marzo del 1945.

Ma la città conosce insieme un grande fermento di idee, volontà di riscatto e rinascita, passioni civili e politiche.

Giorgio Napolitano ha vent’anni, ottimi studi, viene da una famiglia della borghesia professionale, il padre è un avvocato, liberale. La cultura liberale ha una solida presenza in città. Benedetto Croce, tra il 1942 e il 1944, rifletterà nei suoi scritti su come il liberalismo possa rinnovarsi attraverso l’accoglimento del principio di giustizia sociale proprio del pensiero socialista e credo che quell’atmosfera culturale abbia segnato comunque la personalità in crescita di Napolitano, che ha insieme passione per la letteratura, il cinema, il teatro e frequenta Raffaele La Capria, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi e altri, studenti antifascisti, con i quali si ritrova a discutere e a leggere il “Manifesto” di Karl Marx, in appendice a un testo di Antonio Labriola che per primo lo aveva tradotto in italiano.

Si iscrive al PCI nel dicembre del 1945 e spiegherà di averlo fatto «per impulso morale, piuttosto che per motivazioni ideologiche», che erano ancora confuse e imprecise e sulla scorta di due ragioni: il PCI è il partito che più ha combattuto il fascismo; il PCI si mescola al popolo. Dice proprio così.

Due ragioni piane, e profonde.

Furono Amendola innanzitutto, Cacciapuoti, Sereni i suoi riferimenti di quegli anni, e Gerardo Chiaromonte, cui resterà legato da amicizia «la più importante, la più intensa» della vita.

Comincia così la storia politica di Giorgio Napolitano, che sceglie di essere funzionario di partito, piuttosto che avvocato come il padre.

Questa storia ha un punto irrinunciabile di partenza (e poi una ininterrotta attenzione) nella questione del Mezzogiorno, lì dove più si manifesta «il senso della necessità di un impegno concreto ad operare». Lo aiutano anche in questo gli studi di politica economica, che, a partire dalla tesi di laurea, costruiranno la competenza che gli anni di lavoro nel partito e in Parlamento metteranno a frutto.

Si è molto insistito, lo fa anche Giuliano Amato nell’articolo pubblicato in questo numero di “Italianieuropei”, su uno dei caratteri che hanno contraddistinto, in ognuno dei ruoli esercitati, il suo impegno e cioè la necessità che competenza e conoscenza siano a fondamento dell’azione, sia essa politica che istituzionale. È stato ricordato che ne scrisse nella prefazione a “I moniti all’Europa” di Thomas Mann: «Non può esserci politica, nella pienezza del suo significato e della sua efficacia, in assenza di serie basi e validi strumenti culturali…». Si tratta della conferma della dignità che Napolitano attribuiva sia all’azione politica che a quella istituzionale (e alle sue sedi), trovandone origine nell’autorevolezza dei soggetti protagonisti, nella serietà delle argomentazioni, nella qualità culturale del dibattito. Tutti attributi di un’assunzione pubblica di responsabilità. È stato un segno distintivo costante del suo agire sulla scena pubblica, potrei dire un positivo e costante accanimento, incautamente classificato come “pignoleria”, che ha trovato la sua acme nel suo secondo discorso di insediamento da presidente della Repubblica.

Il secondo tratto del suo impegno potremmo tradurlo in ciò che viene normalmente definito pragmatismo, e che più propriamente ricondurrei alla necessità che l’agire politico abbia continuamente come fine quello di mutare positivamente l’esistente. Un tratto riconoscibile e nella sua esperienza politica riformista e nella sua esperienza di presidente della Camera, in continuità con l’opera già intrapresa da Nilde Iotti.

Gli anni della presidenza Iotti furono caratterizzati da eventi che modificarono profondamente la vita del paese e la stessa relazione tra istituzioni, partiti politici e cittadini. Iniziò in quegli anni la crisi di delegittimazione dei partiti politici, che poi culminò negli anni Novanta con Tangentopoli e la cancellazione di interi partiti; il ricorso al referendum si affermò come forma antagonista al modello del Parlamento e alla forma rappresentativa; a partire dagli anni Ottanta il modello classico di governo parlamentare basato su una legge proporzionale venne messo in discussione a favore di un modello maggioritario; crebbe l’attività normativa del governo, delle Regioni e della normativa comunitaria. I tempi della deliberazione vennero avvertiti, specie in campo economico, troppo lunghi e non adatti al dinamismo e alle esigenze della società. Cominciò a venir meno quella correlazione tra pluralismo e sistema dei partiti. I regolamenti del 1971, che erano disegnati sul Parlamento quale luogo del dibattito e del confronto, non poterono evitare il declino del Parlamento quale luogo della decisione.

Iotti affrontò questo scenario con un convincimento: «L’esigenza di fondo è quella di un Parlamento moderno, quella di un dibattito serrato che non appanni la posizione di ciascuno, e a cui si leghi la decisione effettiva e tempestiva. In questo modo si realizza non solo un rapporto più efficace tra Parlamento e paese, ma si esprime la dialettica reale, un confronto sui contenuti tra maggioranza e opposizione e quindi una capacità effettiva di partecipare alla vita politica». Vennero di conseguenza le nuove regole per la sessione di bilancio, tali da scongiurare l’esercizio provvisorio, le norme anti ostruzionismo, la programmazione dei lavori, la riforma del voto segreto.

Anche questo carattere si fondava sulla “necessità pubblica” di un’azione politica e parlamentare produttiva di effetti e su una corrispondenza tra funzione esercitata e responsabilità nei confronti del paese, poiché è su questa rispondente responsabilità che si fonda la legittimazione stessa della politica e delle istituzioni.

Appartiene a questa stessa responsabilità un altro tratto dell’impegno di Napolitano, frutto di maturazione e anche coraggioso riconoscimento di errori: sfuggire all’ideologismo. A proposito della opposizione del PCI all’intervento straordinario dice «nonostante la volontà di giocare un ruolo nazionale, nel PCI l’ideologia aveva ripreso i suoi diritti». Nell’intervista a Scalfari dirà che il compromesso storico aveva avuto la debolezza di restare avvolto in un involucro ideologico, senza dichiararsi politica di collaborazione di governo.

La sua collocazione nel PCI, in quella storia lunga, complessa e talvolta contraddittoria di quel partito, può riassumersi col titolo della autobiografia politica: dal PCI al socialismo europeo. In essa ritroviamo il senso politico dell’appartenenza all’area riformista, la continua tensione alla ricomposizione di legami e interlocuzione col partito socialista e con le socialdemocrazie europee, l’individuazione dell’Europa come “seconda patria”. La testimonianza di Baron Crespo che compone questo numero della rivista è ulteriore conferma dell’investimento politico e culturale nei confronti dell’integrazione europea.

Ma Giorgio Napolitano è stato, sopra a tutto, parlamentare. I dirigenti politici consideravano più importante l’impegno politico piuttosto che quello parlamentare. Lui vi si era invece “immerso”, considerandolo il luogo per l’approfondimento e la riflessione sulle questioni, il confronto tra forze politiche, la ricerca della migliore tra le transazioni per la cura dell’interesse collettivo e credeva fermamente che nella qualità dell’esercizio della rappresentanza risiedono forza e autorevolezza del Parlamento e delle istituzioni repubblicane. Garantire efficacia ed efficienza dell’agire istituzionale per garantire la democrazia e per corrispondere alle esigenze del paese resterà il suo continuo monito, la sua ossessione. Ci tornerà nel discorso di insediamento del 2013: «non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana».

Il suo primo impegno parlamentare è dedicato ai temi economici; a partire dagli anni Settanta si rafforza quello in materia di politica estera, che lo rende interlocutore dei maggiori protagonisti della scena politica internazionale. Inviterei a rileggere il suo intervento in Commissioni Esteri riunite, dell’11 novembre 1989, a due giorni dalla caduta del muro di Berlino, in occasione dell’audizione del ministro De Michelis.

Pochi ricordano poi che, sempre, farà riferimento alla questione politica del ruolo e della condizione delle donne italiane.

È Presidente della Camera dal 1992 al 1994. Nel febbraio del 1993 oppone l’immunità di sede alla Guardia di Finanza delegata dalla Procura di Milano all’acquisizione di atti (peraltro già pubblici), nel maggio convoca la Giunta per il Regolamento per rendere palese il voto sulle autorizzazioni a procedere. Anche in queste decisioni ritroviamo la scrupolosa difesa della autonomia del Parlamento, lo sforzo di corrispondere a un’esigenza di trasparenza nell’agire istituzionale che era diffusa richiesta dell’opinione pubblica, ma soprattutto, direi, di garantire dignità e prestigio alla sede parlamentare.

Sarà due volte presidente della Repubblica. Una vicenda, quella della rielezione, stretta sul principio di responsabilità, esercitata in prima persona, ma al tempo stesso vivamente reclamata nei confronti delle forze politiche. Un esercizio del ruolo, come puntualizza Giuliano Amato, condotto con salvaguardia del ruolo di garanzia del capo dello Stato, nella espressione dei poteri che consentono al presidente della Repubblica di «indirizzare gli appropriati impulsi ai titolari degli organi che devono assumere le decisioni di merito, senza mai sostituirsi ad essi, ma avviando e assecondando il loro funzionamento, oppure, in ipotesi di stallo o di blocco, adottando provvedimenti intesi a riavviare il normale ciclo di svolgimento delle funzioni costituzionali » (sentenza della Corte Costituzionale n. 1 del 2013).

Una lunga straordinaria esperienza quella di Giorgio Napolitano, difficilmente ripetibile per la ricchezza dei ruoli e delle responsabilità assunti, ma allo stesso tempo continuamente viva per la lezione che contiene, e cioè quella del nesso profondo che lega lo sviluppo sociale ed economico del paese alla forza e alla autorevolezza delle istituzioni democratiche.