Italia/America Latina, a sinistra

Di Donato Di Santo Giovedì 15 Dicembre 2022 09:58 Stampa
Italia/America Latina, a sinistra ©iStockphoto/Mesut Ugurlu

 

In Brasile Bolsonaro ha perso, dando un dispiacere al nostro vicepresidente Salvini, che già aveva in canna il suo tweet grondante giubilo, e sono entrambe buone notizie. Ma il bolsonarismo, autonomizzatosi da Bolsonaro (così come da noi il berlusconismo lo è da Berlusconi), ha impregnato di sé quasi la metà dell’elettorato, sdoganandone le pulsioni più basse, persino quelle più oscene. Qualcosa di analogo successe in Italia a metà degli anni Novanta, quando lo sgretolamento della DC portò a galla, appunto sdoganandole, le pulsioni più nascoste e reazionarie di parte del suo elettorato – congelate nei cinquant’anni di guerra fredda – che, da maggioranza non più silenziosa, divenne massa di manovra dell’assetto di potere berlusconiano post Tangentopoli. Le conseguenze, lo abbiamo visto, arrivano fino ai giorni nostri con i risultati delle ultime elezioni politiche italiane. C’è almeno un altro italiano deluso dai risultati brasiliani, ed è l’ex magistrato Davigo, consigliere del suo collega brasiliano Sergio Moro, il persecutore di Lula che incarcerò senza prove, spianando la strada all’ascesa di Bolsonaro, e ricavandone un posto da ministro.
A dispetto di tutto e tutti, Lula ha vinto. È un avvenimento storico, per le condizioni in cui ciò è avvenuto e per la violentissima e odiosa opera di demolizione, personale e politica, cui è stato sottoposto, che gli è costata anche una ingiusta prigionia. Personalmente, da amico di vecchia data, ne sono felice. Rientrerà a Planalto, il 1° gennaio 2023, esattamente vent’anni dopo quel 1° gennaio 2003 in cui vi mise piede inaugurando il suo primo mandato presidenziale. Le differenze da quel primo mandato sono però immense, nel Brasile e nel mondo. Insieme alla svolta brasiliana, l’altro avvenimento politico centrale degli ultimi mesi sono state le elezioni colombiane, con la vittoria del leader di sinistra Gustavo Petro.
Altri articoli di questo numero di “Italianieuropei” affrontano e approfondiscono le dinamiche politiche in vari paesi latinoamericani. A me invece è stato chiesto di guardare a quanto avviene a sinistra, nella agenda progressista latinoamericana e nel suo rapporto con l’Italia.
Il nuovo presidente della Colombia, il dirigente di sinistra ed ex sindaco di Bogotà, Gustavo Petro, in una recente intervista a “El País”, ha affermato: «Si uno mira los últimos triunfos electorales, el de Boric, el de Lula y el mío, hay un cambio en América Latina. Es el triunfo de grandes frentes democráticos, es la izquierda frente al fascismo. Rechazar la democracia liberal lleva hacia dictaduras y autoritarismos como se vienen presentando en algunos países de América Latina. (…) aceptar la democracia liberal es parte de la agenda progresista en América Latina.». Parole che più esplicite e chiare sarebbe difficile concepirle.
Quindi, se l’agenda progressista latinoamericana ingloba la democrazia liberale, essa non può che fondarsi sulla lotta contro le ingiustizie e le diseguaglianze, sulla difesa e lo sviluppo della democrazia e dei diritti umani, civili, sociali e politici, costituendo il terreno di confronto più avanzato e fruttuoso che ci lega al nostro Estremo Occidente latinoamericano. In Italia la sinistra è molto frastagliata, sia geograficamente che politicamente, ma indubbiamente il Partito Democratico ne è parte preponderante. E purtroppo il PD, praticamente dalla sua fondazione, ha voltato le spalle all’America Latina. Anzi, si potrebbe dire che non l’abbia mai guardata in faccia e non le abbia mai rivolto la parola. Perché?
Gli obiettivi autentici che, nel 2007, si celavano dietro la molto sospetta accelerazione veltroniana della fusione tra la tradizione cattolico-popolare, Margherita, e quella riformista e socialista, Democratici di Sinistra, sono cristallinamente svelati nel libro autobiografico di Romano Prodi (pag. 164), quindi posso esimermi dal ricordarli. Oltre alla presunzione arrogante e autoreferenziale di definirsi «partito a vocazione maggioritaria» che – allora come oggi – allontanò molte forze di centrosinistra potenzialmente interessate a una alleanza progressista e spianò la strada al rigurgito berlusconiano, quel PD cancellò l’idea stessa di proiezione internazionale del partito. Addirittura l’adesione al PSE la fece Renzi, uno che non c’entrava nulla, e che grazie alla follia del “partito contendibile” e alle primarie à la carte (per cui il segretario del partito non lo eleggono gli iscritti allo stesso bensì chiunque, basta che si rechi in un gazebo e versi due euro), si era impadronito del PD. Fatta salva la giusta, ancorché effimera, “proiezione internazionale” della figura del segretario pro tempore (che assiste a una convention dei Democratici statunitensi, che visita un kibbutz o il Museo della Shoah in Israele, che risponde alle domande dei giornalisti presso la city di Londra, che dialoga con un gruppo di studenti di una università di Parigi, che si intrattiene con i vertici comunitari a Bruxelles, e lì finisce la proiezione internazionale!), mi pare che l’idea di un partito che in modo strutturato costruisca un proprio sistema di relazioni internazionali con altre forze politiche non solo europee, e non solo “atlantiste”, sia stata accuratamente accantonata all’atto di nascita del PD.
Chi ne ha sofferto di più è stata la relazione con l’America Latina. Cioè con gli attori politici di quel nostro Estremo Occidente che, pur condividendo tradizioni culturali, valori di giustizia sociale, di libertà e democrazia, di diritti umani simili ai nostri, se non costantemente alimentati dal confronto politico e culturale serrato, magari anche aspro, possono facilmente orientarsi verso altre derive e rimproverarci, non sempre a torto, una visione eurocentrica. Che non significa la sacrosanta volontà di costruzione dell’Unione europea cui, peraltro, guardano con grande interesse coloro che da quelle parti ancora sognano una qualche integrazione latinoamericana; significa l’illusione ottica che l’Europa sia il centro del mondo.
L’invasione russa dell’Ucraina, poi, ha inferto un altro colpo durissimo. Leggere gli avvenimenti bellici europei dal continente che, dopo il dominio coloniale spagnolo, ha sperimentato la Dottrina Monroe (quella della “America agli americani”, ma intesi come statunitensi!), le dittature militari “battezzate” dalla CIA in Sudamerica e la guerra di bassa intensità in Centroamerica, crea non poche contraddizioni. Anche perché, alcuni di quei paesi – a partire dalle nuove autocrazie di Venezuela e Nicaragua e da quella, più antica e ormai conclamata dittatura, di Cuba – hanno accordi militari con la Russia, mentre quasi tutti gli altri sperimentano da oltre un decennio la versione latinoamericana della Via della seta, con una presenza commerciale imponente e invasiva della Cina, che sta costruendo il monopolio dell’acquisto delle risorse minerarie, energetiche e alimentari di Brasile, Argentina, e moltissimi altri paesi. Altro che rapporto win win! Per verificare gli effetti di questi avvenimenti sulla cultura politica della sinistra latinoamericana non è necessario arrivare a leggere gli scritti di esponenti quali l’ex vicepresidente boliviano, García Linera (che, covando un’atavica e viscerale avversione per il PCI e i suoi derivati, è facile immaginare cosa possa sostenere), basta ascoltare le opinioni di esponenti politici assolutamente non estremisti, ma ormai intrisi di un pregiudizio antieuropeo, acuito dalla guerra in Ucraina, che si somma a quello antiamericano: dal Messico all’Argentina, passando per una parte del PT brasiliano.
A volte queste spinte sono riequilibrate da iniziative politiche coraggiose, come l’invito al proprio insediamento che il presidente cileno Gabriel Boric ha rivolto a Sergio Ramírez (il grande scrittore perseguitato dal regime nicaraguense), o come le affermazioni di Celso Amorim (cito dal quotidiano “Folha de São Paulo”): «Le preoccupazioni della Russia sui pericoli di espansione della NATO sono legittime, ma non possono essere usate per appoggiare la guerra. Non si può giustificarla dicendo che “gli USA hanno fatto venti volte azioni militari del genere”: significa solo che per venti volte hanno sbagliato! ». Concordo.
Sul piano istituzionale le cose vanno un po’ meglio. L’IILA, Istituto Italo-Latino Americano, l’organizzazione internazionale creata da Amintore Fanfani e Aldo Moro, che grazie alla lungimiranza di Renato Sandri ebbe il voto favorevole del PCI, e che tra gli anni Sessanta e Ottanta fece dell’Italia una cerniera formidabile tra Europa e America Latina, ha saputo recentemente rivitalizzarsi riprendendo il posto che le spetta. Stessa genesi bipartisan e di politica di Stato per l’altro strumento istituzionale italiano: le Conferenze Italia-America Latina e Caraibi, attive da vent’anni.
Invece sul piano più squisitamente politico, negli ultimi anni si è assurdamente abdicato al ruolo di ponte tra le due sponde dell’Atlantico. Quella fu la funzione preziosa che caratterizzò l’azione internazionale dei partiti di centrosinistra nel secondo dopoguerra, il Partito Socialista, la DC e il PCI, ma anche il movimento sindacale (con personalità come Alberto Tridente), i movimenti sociali e dei diritti umani (con figure come Linda Bimbi, della Fondazione Basso). Con l’avvento del PD, pur essendone l’erede legittimo, questa storia è stata bruscamente, e per me inspiegabilmente, interrotta e addirittura dimenticata.
Come è noto, in politica non esiste il vuoto pneumatico e, con il progressivo ritrarsi della sinistra italiana (e purtroppo anche di quella europea) dalle relazioni politiche con l’America Latina, questo spazio è stato immediatamente riempito da altri. Gli scritti di Negri e Fusaro, ad esempio, vanno di gran moda. E anche sul versante conservatore e reazionario sono in corso rapidi cambiamenti e, dopo il lavoro in profondità in America Latina impresso per anni da Aznar, più recentemente si vanno distinguendo la Presidenta della Comunidad di Madrid, Diaz Ayuso, e i neofranchisti di Vox. Un’accurata e illuminante analisi sulla “nuova” destra cilena è quella di Maria Rosaria Stabili, pubblicata sul numero 4/2020 di questa rivista, scritta quindi ben prima del referendum cileno dell’ottobre scorso ma che aiuta anche a interpretare quel risultato.
Oltre all’ammasso di macerie, qua e là qualche segnale di vita c’è stato. Marina Sereni da viceministra degli Esteri dei governi Conte II e Draghi ha mantenuto vivo il dialogo politico, ed è stata il primo esponente di governo europeo a visitare il Cile della grande rivolta sociale giovanile (el estallido social). Piero Fassino, attraverso il CeSPI – che grazie a lui è stato rivitalizzato –, non ha mai smesso di guardare all’America Latina, con iniziative mirate e inedite nel panorama dei centri studi internazionalistici italiani. Questa rivista, che meritoriamente continua a tenere acceso un faro di attenzione sul continente. Roberto Gualtieri, che nel 2018 ebbe la sensibilità umana e l’acume politico di andare in Brasile, a Curitiba, a visitare in carcere l’ex presidente Lula, imprigionato illegalmente (le altre due personalità italiane che lo fecero furono D’Alema e De Masi). Massimiliano Smeriglio, che da parlamentare europeo si occupa di Messico e centroamerica. Fabio Porta, che instancabilmente tesse le relazioni con le collettività italiane, sforzandosi di farle evolvere politicamente. Andrea Orlando, che ha rappresentato l’Italia all’insediamento di Petro in Colombia, e ha affermato che «il PD deve ricostruire un proprio sistema di relazioni internazionali, puntando a un nuovo internazionalismo». Peppe Provenzano, che da vicesegretario, per la prima volta nella ormai non brevissima esistenza del PD, ha realizzato un viaggio politico, di relazioni internazionali, in America Latina dialogando con Lula e Mujica, con la sinistra cilena del governo Boric e con tanti esponenti progressisti di Brasile, Argentina, Cile e Uruguay. Spero che questi pur timidi segnali non si perdano e che, anzi, possano essere alla base dell’opera di ricostruzione dalle fondamenta del PD e di una più vasta sinistra, socialista, ecologista e internazionalista. Sia in Italia sia a livello europeo, creando le condizioni per una nuova fase di questo impegno strategico. Una nuova fase che sappia fare del dialogo transatlantico la propria bussola, coinvolgendo insieme a Europa e Nord America, anche tutta l’America Latina e il continente africano. Sarebbe la più realistica delle utopie.
Sarebbe anche uno straordinario terreno di confronto e collaborazione con le sinistre latinoamericane, affatto omogenee tra loro e alle prese con le proprie contraddizioni e i propri fantasmi: fenomeni allarmanti di spregiudicato personalismo populista, ambiguità nel concepire la democrazia come fine o invece come mero strumento e, al momento di gestire una vittoria elettorale, confondendo la conquista del governo con la conquista del potere. Confusione che, ovviamente, spalanca scenari completamente diversi quando non opposti.
In Europa, pochi mesi fa, è stato triste ascoltare l’Alto rappresentante per la politica estera europea, il socialista spagnolo Josep Borrell, affermare: «Purtroppo l’America Latina non è tra le priorità della politica estera europea» (sic!). È probabile che, nella seconda metà del 2023, con la presidenza spagnola della UE, si passerà una pietosa mano di vernice su questo mesto scenario. Ma sarà, appunto, una mera riverniciata che rapidamente scolorerà di nuovo se le istituzioni europee continueranno ad “appaltare” a un solo paese, cioè alla Spagna, le relazioni europee con la regione. I risultati di questi circa quarant’anni di appalto sono sotto gli occhi di tutti: ottimi per Santander, Telefonica, BBVA ecc., molto meno per l’Europa. Sarebbe ora di voltare pagina, archiviando visioni anacronistiche e tardo/neocolonialiste, e imprimendo più collegialità e visione europea.
Lula è rientrato da par suo sulla scena mondiale, partecipando alla COP27 e candidandosi a guidare l’alleanza per la tutela globale delle foreste e quella per la sicurezza alimentare globale, e rilanciando l’obiettivo della riforma dell’ONU. Il PD ha in agenda un appuntamento con Lula? E con Petro? E con Boric? Forse è giunto il momento.