Rialzarsi e mettersi in cammino. Insieme

Di Stefano Bonaccini Mercoledì 14 Dicembre 2022 15:00 Stampa
Rialzarsi e mettersi in cammino. Insieme ©iStockphoto/Mesut Ugurlu

Ho accolto volentieri la proposta di Massimo D’Alema di condividere alcune riflessioni sulla sinistra. Mi è parso tanto più doveroso farlo nel momento in cui il Partito Democratico, il mio partito, ha avviato il proprio percorso congressuale e io ho deciso di candidarmi alla segreteria nazionale. Riflessioni e proposte più compiute arriveranno nelle prossime settimane, ma considero questa un’occasione utile per iniziare. Per ragionare di quello che non ha funzionato, in particolare nell’ultima fase, per indicare alcuni spunti da cui ripartire.

La sconfitta elettorale del 25 settembre scorso, ben lungi dal rappresentare un fulmine a ciel sereno, si inserisce in un più lungo ciclo di ridimensionamento della sinistra italiana. E, come spesso accade, quando il campo della sinistra si restringe, si divide.
Affermare che la destra non sia maggioritaria nel paese e che solo un campo del centrosinistra diviso le avrebbe perciò permesso di vincere, seppur aritmeticamente corretto non pare argomento politicamente sufficiente. Le fratture che si sono consumate nel fronte democratico, peraltro, non sono accidentali: la comune esperienza di governo prima con il Conte II e poi con Draghi non solo non ha cementato quel campo largo che Enrico Letta ha tenacemente ricercato ma, al contrario, ha delineato approdi significativamente diversi per le principali forze oggi divise anche all’opposizione.
Eppure, i cambiamenti di contesto avvenuti intorno e sopra di noi in questa stagione non hanno rappresentano solo un’insidia, o una contingenza sfavorevole di contesto rispetto alle identità e alle parole d’ordine della sinistra, anzitutto del Partito Democratico. Gli spunti di riflessione sarebbero tanti, dalla guerra in Ucraina all’accoglienza dei profughi nel nostro paese, fino alla crisi energetica e all’impatto che questa ha sul nostro sistema produttivo e sulla vita di milioni di famiglie italiane. Ma lo spazio assegnatomi costringe a scegliere, e voglio farlo prendendo a spunto due o tre di questi fattori sovraordinati che hanno determinato non poca parte del contesto dentro cui abbiano vissuto come comunità negli ultimi anni, chiamando in causa la politica e le sue risposte.
Penso alla pandemia da Covid, che ha rimesso al centro la questione della sanità e del diritto alla salute non solo come sistema di protezione individuale, ma anche collettivo – proprio come enunciato dall’articolo 32 della nostra Costituzione – ricordando a tutti noi come solo una grande infrastruttura pubblica possa assolvere contemporaneamente a questa duplice funzione. Di più, la lotta alla pandemia e la ricerca del vaccino ci hanno restituito anche la funzione che solo il pubblico – ancorché in questo caso in alleanza col privato – può assolvere, laddove la ricerca non può essere unicamente appaltata al capitale: è certamente un grande business per i colossi del farmaco aver trovato e commercializzato il vaccino, ma nessun investitore si sarebbe lanciato in quel modo e in quei tempi fuori da un affidamento blindato con la committenza pubblica. E così si sono potuti trovare i vaccini e, cosa non meno importante, li si è potuti distribuire in modo democratico e gratuito, riaffermando concretamente una volta di più che non solo dinanzi al diritto alla salute non può esserci distinzione tra ricco e povero, ma che solo tutti insieme si poteva uscire dall’emergenza (esiste un modo migliore per esemplificare la distinzione tra avarizia e politica indicata da don Milani?). E se precedenza c’è stata, la si è dovuta casomai accordare alle persone più fragili: in caso contrario avremmo avuto non solo un numero più drammatico di vittime, ma avremmo anche compromesso la tenuta stessa degli ospedali; e anche qui, abbiamo ben visto come la resilienza del sistema sanitario sia un bene comune, non affidabile al mercato. Anche il PNRR, destinando alla sanità quasi 20 miliardi di euro, ha dettato una nuova agenda nazionale: l’importanza di rafforzare, e realizzare lì dove più carente, un servizio pubblico e universalistico, fortemente territoriale e diffuso, con un rilevante investimento sia sull’assistenza domiciliare sia sulla trasformazione digitale.
In questo contesto la destra ha arrancato e balbettato, rincorrendo di volta in volta le paure e le pulsioni dell’opinione pubblica, ma senza mai riuscire, stavolta, a dettare l’agenda; non quando ha strizzato l’occhio alle iniziative no-mask, non quando ha cavalcato le proteste contro le chiusure, o quando ha lisciato il pelo alle scomposte e irresponsabili iniziative no-vax. E il nuovo impianto di sistema sanitario scaturito dalla reazione alla pandemia, per come delineato dalla Missione 6 del PNRR, è oggettivamente quanto di più distante si possa immaginare dal cosiddetto modello lombardo, fortemente ospedalocentrico e per metà affidato alla sanità privata (sia detto naturalmente col rispetto che meritano punte di eccellenza di quella sanità anche sul piano nazionale e internazionale). Tuttavia, è successo che quello che a ben vedere poteva essere il cavallo di battaglia della sinistra in campagna elettorale – una nuova centralità del diritto alla salute e della sanità pubblica – sia inopinatamente e totalmente scomparso dall’agone politico. Eppure, se penso alla mia Regione, c’era un precedente concreto a cui attingere: ancor prima che la pandemia esplodesse, mettendo in risalto tutti gli aspetti che ho richiamato, per le regionali in Emilia-Romagna del gennaio 2020 avevamo fatto della difesa e valorizzazione della sanità pubblica uno dei discrimini essenziali rispetto alla destra. E già lì si era ben visto quanto fosse aggregante e identitario questo obbiettivo per il centrosinistra ma anche sfidante verso tanti elettori di centrodestra, che su questo punto ideale e concreto al tempo stesso non sono affatto ideologicamente contrari.
Eppure, oggi siamo qui: con un fondo sanitario nazionale sottofinanziato, una strada che ci riporterà rapidamente a ridurre l’incidenza della spesa sanitaria sul PIL, con un PNRR che fatica a realizzarsi per l’aumento dei prezzi, con le Regioni a più forte sanità pubblica che saranno le prime ad andare in difficoltà. È auspicabile ora che quel che non si è saputo cogliere e valorizzare in campagna elettorale possa almeno costituire un punto fermo per la ripartenza nella battaglia dell’opposizione, anche per iniziare per tempo a costruire una alternativa ancorata a punti solidi sul piano valoriale e programmatico.
Mi sono dilungato sulla sanità e sulla reazione alla pandemia anche per una seconda ragione, che chiama in causa un altro caposaldo della sinistra riformista. Se si è potuto avere un vaccino e una sua distribuzione equa e democratica lo si deve principalmente alla cooperazione europea: i singoli Stati, anziché lanciarsi in una corsa competitiva e disgregante, si sono uniti in consorzio e insieme hanno risposto a un bisogno primario di tutti i cittadini dell’Unione. L’Europa ha fatto fino in fondo l’Europa: non solo con l’acquisto comune del vaccino ha prodotto una reazione governata e solidale, ma ha realizzato una risposta straordinaria, in termini di ripresa e resilienza, alla crisi economica prodotta dalla pandemia. Il Next Generation EU è esattamente questo, e nessun paese quanto l’Italia ha potuto giovarsi di una massa di risorse inedita per portata – 191,5 miliardi di euro – e per natura: un mix di prestiti agevolati e sovvenzioni finanziati anzitutto attraverso una vera e propria mutualizzazione dell’indebitamento, un fatto epocale su cui pendevano veti apparentemente inamovibili. Penso a SURE – lo strumento temporaneo di sostegno concepito dalla Commissione europea per proteggere l’occupazione – e agli ammortizzatori sociali che ci ha permesso di attivare: deve essere nostro obiettivo prioritario riprodurre quest’esperienza anche per fronteggiare gli effetti della crisi energetica, come giustamente proposto dal commissario Paolo Gentiloni. E penso naturalmente alle misure del Recovery Fund per accelerare la cosiddetta double transition – ecologica e digitale – che per un grande paese manifatturiero come il nostro costituisce a tutti gli effetti l’unica strada possibile per conciliare due beni irrinunciabili come il lavoro e l’ambiente; e per colmare i divari – territoriali, economici e sociali, di genere e generazionali – in una Italia che viaggia non a due ma a quattro o cinque velocità, dove la forbice sociale si è ulteriormente allargata in questi ultimi anni di emergenze, dove le donne e i giovani hanno pagato il prezzo più alto aggravando ancora la già severa condizione di partenza.
Ebbene, dicevo, l’Europa – caposaldo politico della sinistra riformista e tabù della destra sovranista – è stata ed è questo nella risposta alla pandemia. Era concepibile un’agenda più sintonica rispetto alla nostra e una risposta più forte e concreta rispetto ai problemi del nostro paese? Direi di no. E infatti anche su questo fronte la destra si è trovata completamente spiazzata: dopo aver contrastato il Recovery in Europa e il PNRR in Italia si è dovuta acconciare a una condizione di sostanziale subalternità. E solo il dibattito lunare generatosi nel centrosinistra sul sostegno a una fantomatica “agenda Draghi” o sulla necessità di una marcata discontinuità che permettesse di recuperare in purezza e radicalità ha potuto occultare ciò che, viceversa, avremmo dovuto rivendicare e cavalcare: quelle risorse sono arrivate all’Italia grazie alla sinistra e servono a fare proprio quelle cose che la sinistra ha sempre invocato ma per le quali prima mancavano i mezzi. E cioè una sanità e una scuola pubbliche più forti, una spinta più decisa alla ricerca e all’innovazione, la trasformazione dei nostri prodotti e dei nostri processi produttivi in chiave di piena sostenibilità, la produzione di energia rinnovabile e di economia circolare, le infrastrutture per la mobilità sostenibile e la messa in sicurezza del territorio. Potrei continuare. Per dire che nessuno di questi obiettivi e di queste politiche è generalmente rinvenibile tra le priorità della destra; che la Lega ha mal sofferto questa politica nel sostegno al governo Draghi; che Fratelli d’Italia ha stabilmente fatto opposizione parlando d’altro, non potendo toccar palla su tutto ciò. Ma noi, una volta che abbiamo avuto l’occasione irripetibile di occuparci di questo, abbiamo scelto di dividerci tra “draghiani” e “contiani”, risultando infine marziani agli occhi dell’opinione pubblica. A dimostrazione che il buon governo non basta, se non è in grado di restituire un senso, di indicare una direzione di marcia, di dare rappresentanza.
Tuttavia, questi temi e priorità, al pari di quanto detto per la sanità, restano sul tappeto anche adesso. E oltre a sollecitare una funzione specifica di rigoroso controllo per l’opposizione – perché queste risorse debbono essere spese bene e in fretta, se l’Italia non vuole restituirle –, e se vogliamo essere costruttivi, possono anche suggerire un’agenda concreta su cui provare a costruire, col tempo, un’alternativa apprezzabile a questa destra.
Se c’è un luogo dove questa discussione ha trovato invece maggior concretezza e una più lucida coerenza è nel territorio. In questi due anni ho visto i nostri amministratori locali saper interpretare questi passaggi sia in chiave politica – cioè obiettivi attorno a cui costruire una propria egemonia politica – sia in chiave di buona amministrazione – saper cioè cogliere queste opportunità come occasione di sviluppo delle proprie comunità attraverso politiche trasformative. Va da sé che ogni generalizzazione è sbagliata, così come sarebbe demagogico contrapporre la virtù o la capacità della generalità dei nostri amministratori locali all’incapacità o all’inadeguatezza di un intero gruppo dirigente nazionale. Però è un fatto che la pandemia e le sue conseguenze siano state affrontate meglio e capitalizzate di più dalla sinistra nel governo locale rispetto a quello nazionale; è un fatto che la gestione di queste politiche nel territorio abbia spesso consentito al PD di crescere in termini di consensi e di allargamento delle alleanze, mentre a livello nazionale il voto del 25 settembre ha segnato l’epilogo di un ciclo negativo.
Così come dobbiamo registrare il fatto che, forse per la prima volta dalla sua fondazione e ben oltre la portata numerica della sconfitta elettorale, il PD veda ora insidiata la sua stessa funzione, svolta con alterne fortune fin dal 2008, di perno del centrosinistra. La necessità politica che noi ravvisiamo di una forza autenticamente progressista e riformista, ancorata alla famiglia del socialismo europeo, non va confusa con la sua necessità storica: anche in altri paesi europei si è assistito a un collasso di partiti simili a favore di forze della sinistra populista o di forze moderate che ne hanno cannibalizzato, insieme all’elettorato e all’insediamento sociale, anche la funzione di alternativa praticabile alla destra. Vuoi perché la stessa destra ha nel frattempo cambiato pelle e codici – mai come in questo tempo l’accettazione sovranista si è imposta come principale caratterizzazione – vuoi perché cambiamenti di scenario non necessariamente sfavorevoli per la sinistra progressista – ho fatto alcuni esempi – non siano stati pienamente colti e interpretati in maniera adeguata, finendo paradossalmente per neutralizzare quella funzione per cui il PD era stato concepito e quell’identità stessa che ti rende riconoscibile e capace di assolvere a quel compito di rappresentanza, senza il quale la sinistra può anche non essere populista, ma smette senz’altro di essere popolare.
Essenzialmente, ci sono due strade davanti a noi. La prima è quella di rifugiarsi nelle identità trapassate, scomponendosi e richiudendosi per parti separate dentro recinti tanto rassicuranti quanto angusti. È già capitato alla sinistra, non solo italiana, all’indomani di sconfitte cocenti o della chiusura di un ciclo. Non mi stupisce ma mi preoccupa, per fare solo un esempio in proposito, sentire rievocare paradigmi del secolo scorso in materia di lavoro e capitale. Per uno come me, che viene dall’Emilia-Romagna, dove già Togliatti nel 1946 ebbe a svolgere la peculiare riflessione su “Ceto medio ed Emilia rossa”, è quantomeno straniante. È evidente che si parla di lavoro con nostalgia del passato e scarsa frequentazione del presente. Oppure abbiamo la possibilità – io direi la necessità – di rimetterci a fare (o forse, per la prima volta, a fare fino il fondo) il Partito Democratico. Imparando qualcosa dagli errori commessi (insieme) e rimboccandoci le maniche per ri-costruire un progetto, una classe dirigente, una comunità. Una traversata nel deserto.
Mi conforta in questa intrapresa ripensare a quanto diceva in proposito Alfredo Reichlin: «In fondo, la sinistra, un popolo già bell’e pronto non se lo è mai trovato». Al netto del piglio pedagogico, lì c’è un’idea di comunità. E la sinistra ha tante donne e uomini che hanno subito sconfitte ma hanno saputo rialzarsi e mettersi in cammino insieme.