Cinque campi di azione per ridefinire funzione e identità del PD

Di Nicola Zingaretti Mercoledì 14 Dicembre 2022 15:00 Stampa
Cinque campi di azione per ridefinire funzione e identità del PD ©iStockphoto/Mesut Ugurlu

Confesso che non sono rimasto sorpreso dal risultato elettorale. Le forze alternative al blocco di centrodestra si sono presentate in ordine sparso, senza una proposta di governo unitaria, quindi credibile e competitiva.
La maggioranza che sosteneva il Conte II, anche ampliata a forze moderate ma sinceramente europeiste, rappresentava l’unica possibile alternativa alle destre. L’iniziativa di Renzi decretò la fine di quell’esperienza di governo. Il presidente Mattarella, a quel punto, decise di intraprendere l’unica strada saggia e realistica per non far precipitare l’Italia, in un momento difficile, verso avventurose elezioni politiche anticipate. Draghi aveva come missione di affrontare in una situazione eccezionale uno stato di emergenza, con una maggioranza molto ampia che conteneva forze molto distanti e persino contraddittorie. Aver voluto, da parte di molti, trasformare la sua funzione indispensabile e transitoria in una forma politica alla fine non ha retto; infatti, si è presto sfaldato tutto. In questo passaggio, purtroppo, e per diverse ragioni, anche nel centrosinistra è emersa una pericolosa euforia identitaria, in sostituzione di una cultura politica unitaria. Ognuno ha “radicalizzato” una propria autonomia, anche con tratti massimalistici: chiedere il massimo possibile sapendo di non poter ottenere granché. Inoltre, nel nome di Draghi si è diviso il campo del centrosinistra; e tale decisione non poteva che spianare la strada alla destra di Giorgia Meloni.
Per capire come siamo arrivati alla sconfitta, occorre addentrarci nelle ragioni che ci hanno allontanato dalla parte sofferente del paese. Lì dove qualcosa si è rotto e si sono generate le solitudini, le incertezze e le paure che hanno spinto milioni di persone a diffidare della politica, di noi, dello stesso Stato. Il PD ha scelto di governare, anche dopo la caduta del governo Conte II, accettando compromessi e un ruolo, ancora una volta, di responsabilità repubblicana. Tuttavia, lo ha fatto in questi anni senza ricevere un mandato chiaro dall’elettorato.
Abbiamo dato il nostro supporto a governi tecnici, politici, istituzionali. Non accuso nessuno e, semmai, è anche un’autocritica. Piuttosto prendo atto di un dato storico. Potevamo tirarci indietro per quanto riguarda la legislatura appena conclusa, i miei dubbi li espressi chiaramente. Anche se, sulla base dell’esperienza, riconosco che il varo del governo giallo-rosso è servito al paese. Aver difeso la democrazia e garantito la tenuta dell’Italia, di fronte alla drammatica pandemia del Covid, rimane un patrimonio di tutti. Così come aver affrontato con umanità e impegno sociale il disagio di vita di milioni di italiani durante la crisi economica è una scelta che ha prodotto giustizia e coesione in un momento difficilissimo.
Però è d’obbligo una riflessione. Pur promuovendo azioni utili, non siamo riusciti negli ultimi dieci anni a impedire un impoverimento di massa di tante persone. Non siamo stati in grado di capire i cambiamenti profondi che stavano avvenendo intorno a noi. Ci siamo ripiegati su noi stessi; e dietro la responsabilità di governare per far funzionare il paese, abbiamo smarrito una dimensione più vicina alla vita e alle cause di un malessere montante di tanti italiani. Questo mentre i processi della globalizzazione e della rivoluzione digitale dei modelli sociali, del lavoro e quindi nella esistenza concreta dei cittadini, chiedevano un pensiero nuovo e una capacità di lettura più attenta. Chiedevano una capacità di orientare lo sviluppo partendo dalla centralità delle persone e dalla salvaguardia del pianeta. Non abbiamo dato lo spazio vitale e necessario alle tante energie dei giovani e delle donne, che in forme diverse, autonome e libere hanno segnalato una volontà di cambiamento. Non abbiamo saputo avvertire la sostanza friabile nascosta sotto la superficie luccicante dello sviluppo tecnologico. L’apologia per il nuovo ci ha impedito di predire per tempo che si stavano scavando colossali sacche di diseguaglianza, con una vertiginosa concentrazione della ricchezza, a scapito della valorizzazione e della qualità del lavoro. Questo la sinistra non può permetterselo!
Ritroveremo un senso alla nostra funzione e una capacità di contrapporci all’offensiva delle forze conservatrici se sapremo mettere in campo nei prossimi mesi una critica serrata e radicale sulle strutture del modello di sviluppo che, se lasciato al suo naturale procedere, tende a riproporre lo status quo e un modello predatorio di società, che premia i più forti, penalizza soprattutto i giovani, distrugge l’ambiente. Ma, oltre a questo, forse è il tempo di ammettere anche che, nella vita del PD, l’identità del partito si è affermata come giusta apposizione dei vecchi involucri, piuttosto che come affermazione di sintesi nuove, creative e avanzate. Ciò non significa dire che abbiamo sbagliato tutto, ma non c’è dubbio che è prevalsa una tendenza di rimozione della ricchezza delle storie che ci stanno alle spalle, incapaci di sciogliersi in un nuovo pensiero e riproposte più come occasione di veti reciproci e non della possibilità di una nuova storia comune. Sulla politica ho detto, ma lo stesso è accaduto anche nelle forme organizzative. Un processo involutivo che ci ha portato a sostenere e approvare alcune delle principali leggi dell’antipolitica, presentate come panacea per risolvere i mali del paese: abolizione del finanziamento pubblico dei partiti; eliminazione degli eletti nelle province; riduzione dei consiglieri comunali; riduzione dei consiglieri regionali; riduzione del numero parlamentari come condizione obbligata per far nascere il governo Conte II.
La democrazia oggi è più fragile anche perché gli attori politici e sociali sono deboli e la cultura politica della sinistra in questo ha delle responsabilità grandi. Troppo spesso ha inseguito “il nuovo” solo come “distruzione” del vecchio. Questo ci ha portato a un’idea di innovazione solo come rinuncia alle “vecchie” forme organizzate della partecipazione politica. Di “nuovo”, a parte la passione di tanti militanti, se ne è visto poco.
Per ritrovare una via, dunque, occorre un discorso di verità e una coerenza che in questi anni abbiamo smarrito. Non per distruggere, ma per fissare un nuovo punto di partenza. Bisogna avere chiaro chi rappresentiamo e con quali strumenti intendiamo impegnarci nella battaglia democratica. La politica e i suoi strumenti servono, non a noi, ma alla democrazia: a dircelo e a darci una rotta è la Costituzione italiana. In particolare, lasciamoci illuminare dal secondo comma dell’articolo 3, alla viglia del settantacinquesimo anniversario della Costituzione, in quest’Italia sempre più debole e diseguale: è fondamentale ricordare che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli», garantire a tutti – senza distinzioni e diseguaglianze – la piena realizzazione della persona. Io vedo su questa grande missione cinque campi di azione, cinque possibili compiti della politica, per ridefinire la nostra funzione e identità.
Il primo campo riguarda proprio il tema enorme dell’aumento delle diseguaglianze. Il nostro sradicamento sociale nasce dal non essere riusciti a impedirlo. Posso dire che il mio impegno alla guida del PD, a partire dall’esperienza di “Piazza Grande” con cui ci presentammo al congresso, nacque proprio dalla consapevolezza che occorreva ancorare il nostro pensiero e la ricostruzione di un’identità del partito alla necessità di ridurre le distanze tra chi ha e chi non ha. Con la stessa franchezza, posso dire che non ce l’abbiamo fatta. Le molte resistenze non hanno permesso una svolta significativa. Forse anche perché nella nostra Italia la parola “riequilibrio” spaventa ancora troppi. Io credo che sia invece ancora la più attuale e necessaria. Riequilibrio tra Nord e Sud, tra ZTL e periferie, tra piccoli centri e realtà metropolitane, tra fasce sociali, tra uomini e donne, tra generazioni. Tutte queste fratture sono ancora lì, davanti ai nostri occhi. La nostra perdita di senso nasce proprio da questo. La povertà assoluta oggi riguarda 5,6 milioni di persone in Italia. Quasi una persona su dieci, un valore triplicato negli ultimi quindici anni, e che colpisce soprattutto i minori. La ricerca delle risposte per invertire questi dati drammatici deve essere il nostro assillo.
Il secondo campo d’azione è il tema del lavoro come strumento per dare dignità, possibilità di emancipazione, libertà alle persone. Oggi il lavoro, quando c’è, è sempre più precario, e spesso è pagato poco. In questi anni siamo stati troppo passivi, o anche peggio, di fronte all’arretramento dei diritti e delle tutele del lavoro. Le sfide sono complesse, ma possiamo invertire i trend in atto. Mai come oggi abbiamo, anche grazie al PNRR, le risorse per gli investimenti necessari a creare lavoro di qualità e arginare il fenomeno della precarietà. Ma gli investimenti del PNRR, se non saranno ancorati a una “missione” di riequilibrio, non è detto che producano giustizia e benessere. Il lavoro lo creano le imprese e per questo è fondamentale supportare in pieno gli imprenditori e rafforzare le misure strutturali per favorire la transizione green e digitale e sostenere gli investimenti in ricerca e innovazione. Dobbiamo essere più ambiziosi sui temi della formazione continua e delle politiche attive, che rivestono un ruolo centrale per creare lavoro, in particolare per donne e giovani, e per dotare le persone delle competenze necessarie ad affrontare questi tempi nuovi. Bisogna, inoltre, aggredire il tema dei diritti e degli stipendi, per garantire al lavoratore una retribuzione «proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa», come ci ricorda il bellissimo articolo 36 della nostra Costituzione, per troppo tempo rimasto disatteso. Non affrontare questi temi vuol dire lasciare campo libero a nuovi poteri che spesso agiscono al di fuori del perimetro delle regole democratiche, quindi alimentare le paure, i populismi, le derive nazionaliste e individualiste. Io credo che la sinistra su questo campo possa ritrovare una sua strada. Il nostro ruolo è, precisamente, quello di fare da cerniera tra lo sviluppo e l’equità.
Il terzo campo d’azione riguarda il tema improcrastinabile della sostenibilità. La sostenibilità può essere la nostra bussola per lo sviluppo, la chiave in grado di mettere insieme tutela dell’ambiente, innovazione, valorizzazione delle risorse umane e naturali e rispetto dei diritti di uomini e donne. Anche sulla sostenibilità paghiamo una grande ambiguità e una timidezza nell’affermare un modello alternativo di sviluppo e scommettere senza reticenze su un’opzione di tutela della terra. Non è avvenuto perché siamo stati bloccati in un dilemma. Se si ferma la crescita, abbiamo pensato, si determina un disastro sociale che fa morire la speranza e la democrazia. Senza però considerare che se va avanti “questo” sviluppo muore il pianeta. La sostenibilità ambientale è un tema che non va affrontato in ottica difensiva, ma in termini di opportunità economiche, di crescita giusta, di benessere diffuso e collettivo. L’Italia è uno dei paesi che trarrebbero i maggiori vantaggi da un approccio veramente sostenibile allo sviluppo. Sta a noi assumerlo come impegno necessario.
Il quarto campo d’azione è valorizzare le energie della nuova generazione. L’Italia è il paese dell’UE con la più alta incidenza di giovani NEET, un esercito di oltre 3 milioni di giovani, un incredibile potenziale sprecato, ed è uno dei paesi con la più bassa mobilità sociale. Oggi solo il 12% dei figli di genitori con la licenza media si laurea, contro il 75% di chi ha i genitori laureati. Proprio in questi giorni, abbiamo letto i dati sul calo delle immatricolazioni all’Università, una conseguenza diretta della crisi economica e degli aumenti dei prezzi che hanno ridotto drasticamente il potere d’acquisto delle famiglie, in particolare di quelle più fragili. Un dato molto pericoloso per un paese, come l’Italia, che già sconta un drammatico ritardo sulla formazione universitaria dei giovani. Il PD deve spingere, a mio avviso, sulla proposta della totale gratuità dei costi per la formazione, dall’asilo all’università. Non solo rette, ma mense, libri di testo, traporto pubblico, alloggio tutto completamente gratuito per le famiglie con redditi medi e bassi. Sarebbe il primo passo per scrivere un futuro per le ragazze e i ragazzi che hanno meno possibilità economiche e, quindi, anche per cominciare ad abbattere i muri insormontabili che oggi esistono tra fasce sociali.
Infine, il ruolo dello Stato; occorre un progetto ambizioso che punti sull’innovazione per migliorare la qualità e l’accessibilità dei servizi pubblici. Paradossalmente, su questo punto, il Covid è stato uno spartiacque. È stata la pandemia a riproporre l’importanza delle politiche pubbliche, la centralità della tutela della salute, dell’istruzione, e la dignità della persona, del “benessere” come obiettivo da perseguire. Per anni, anche una parte della sinistra si è lasciata sedurre dallo slogan illusorio “meno Stato”. Pensando di risparmiare abbiamo esternalizzato funzioni e servizi elementari come la gestione di mense o pulizie scaricando tutto sul lavoro e la qualità del servizio. Nello stesso tempo abbiamo rallentato o tagliato gli investimenti per la riqualificazione del capitale umano nella Pubblica amministrazione. Senza cadere nella trappola di una rappresentazione macchiettistica di sinistra, incrostata di statalismo, dobbiamo combattere per un’idea nuova di Stato, come principale regolatore di eguaglianza e di giustizia, come motore di innovazione e semplificazione per migliorare la qualità delle nostre vite. Questo, in fondo, è il principale dettato della nostra Costituzione. È un tema oggi centrale, perché il sentimento di solitudine e disillusione di enormi fasce di popolazione si è generato proprio nell’assenza dello Stato, nella sua farraginosità e, troppo spesso, inaccessibilità. Abbiamo bisogno di uno Stato presente e semplice. Non per eliminare o nascondere la complessità delle interazioni che attraversano la nostra vita, ma perché le persone non siano sole a gestirle.
La digitalizzazione è un potente fattore di innovazione della vita. Ma come tutte le innovazioni può produrre libertà nuove oppure oppressioni. Deve essere la sinistra a impadronirsi di questo tema e orientarne lo sviluppo. La digitalizzazione al servizio della persona umana può realizzare, in termini di uguaglianza nell’accesso ai servizi, obiettivi inimmaginabili fino ad ora. Questi sono ovviamente solo alcuni punti di una ricollocazione necessaria dell’identità della sinistra.
Per questo ci serve oggi una vera fase costituente, aperta e vera che abbia come terreno di confronto e di incontro – anche e soprattutto fuori dal perimetro di un partito – le grandi questioni di quest’epoca. Una fase di ascolto ed elaborazione aperta, per raccogliere le tante pulsioni positive che esistono nella società italiana di oggi. A partire dall’impegno di moltissimi ragazzi e ragazze che, giustamente, non riescono a comprendere come la politica possa far finta di niente di fronte al disastro globale in atto sull’ambiente, sul clima, sul lavoro, sulla scuola. Non sono sicuro che le regole e le forme che abbiamo ce lo permettano. Vedo riaffiorare il rischio che di nuovo tutto si riduca alla scelta del nuovo leader come panacea rispetto ai problemi. Ma in quindici anni l’unica cosa che il PD ha cambiato sono i segretari: dieci, e al contempo ha diminuito voti e forza organizzata. Forse il primo vero atto di innovazione sarebbe quello di avere il coraggio di ammetterlo e iniziare a cambiare con l’obiettivo ambizioso di rielaborare una cultura e un pensiero politico, facendo finalmente i conti con tutto ciò che è cambiato attorno a noi e le ragioni per cui noi democratici abbiamo perso credibilità per tante persone.