Il segno di una fase della storia del paese

Di Massimo D'Alema Giovedì 21 Settembre 2023 09:18 Stampa
Il segno di una fase della storia del paese Illustrazione di Emanuele Ragnisco

 

È ovvio che Giacomo Leopardi non avrebbe potuto prevedere l’avvento sulla scena pubblica italiana di Silvio Berlusconi. E tuttavia vi sono pagine nel suo “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani” che sembrano anticipare tratti fondamentali della personalità del leader recentemente scomparso. Così come quando il grande poeta e intellettuale descrive l’individualismo e il cinismo delle classi dirigenti del nostro paese, anche come frutto dell’assenza di uno Stato nazionale che ha caratterizzato a lungo la storia italiana. Molto più tardi il concetto di “familismo amorale” ha ripreso e ha arricchito questa interpretazione sui tratti fondamentali della borghesia del nostro paese. Sì, non è un caso che Silvio Berlusconi abbia meritato l’appellativo di “arci-italiano” nel senso di quell’impasto tra furbizia, spirito di intraprendenza, mancanza di scrupoli morali, affabilità sentimentale e cinismo che sono state rappresentate in tanta letteratura sull’Italia e sugli italiani. L’arci-italiano Silvio Berlusconi è stato anche, però, l’anticipatore di un fenomeno che ha riguardato e riguarda in modo assai più ampio il mondo occidentale. Quella peculiare forma di antipolitica che ha segnato il trentennio del dominio culturale neoliberista teorizzando la supremazia dell’economia sulla politica e la necessità di liberare le forze del mercato da ogni condizionamento determinato dal vecchio compromesso democratico che aveva caratterizzato, in particolare, il capitalismo europeo. “Alla politica non resta altro compito che eseguire i compiti che l’economia le assegna”: così è stato scritto, ed è evidente che non c’è più bisogno dei partiti ma che “il grande imprenditore che si è fatto da sé” è il migliore interprete dell’agenda imposta dal tempo in cui viviamo. Tutto ciò con buona pace di Max Weber, che ci ha lasciato una pagina straordinaria e profetica nella quale spiega la inconciliabilità tra la missione dell’imprenditore, che è utile alla società in quanto ricerca il suo profitto personale, e la missione dell’uomo di Stato, che deve necessariamente essere indirizzata alla ricerca del bene comune. Ma evidentemente né Silvio Berlusconi né Donald Trump hanno avuto dimestichezza con queste letture.
Silvio Berlusconi emerge sulla scena pubblica italiana nel vivo di una crisi drammatica del nostro sistema democratico. Gli storici dovranno ancora scavare per comprendere meglio la vicenda dei primi anni Novanta, la crisi della cosiddetta “Repubblica dei partiti” e il peso che ebbero le indagini giudiziarie che travolsero Tangentopoli. Non si tratta di inseguire dietrologie, ma di comprendere quali forze furono in campo e quale fu il segno di quella “rivoluzione”. Perché non si trattò soltanto di una somma di vicende giudiziarie, ma di un passaggio radicale di fase nella storia dell’Italia repubblicana. Un passaggio la cui portata è paragonabile a quello che tra il 1944 e il 1948 vide l’affermarsi dei partiti democratici come protagonisti della stagione del postfascismo. All’inizio degli anni Novanta il cambiamento avviene, invece, nel segno dell’antipolitica. Vi è certamente un clima internazionale che favorisce questo dato, come si è accennato; ma vi è anche una forte peculiarità italiana. Le stesse indagini giudiziarie furono indirizzate in questo senso. La geniale invenzione del reato di “concussione ambientale” non fu solo un grimaldello per spezzare la complicità tra corrotti e corruttori, fu anche una chiave interpretativa del sistema che entrava in crisi. Mise cioè sul banco degli imputati la politica e i partiti, rappresentati in blocco come una forza oppressiva che soffocava il mondo dell’economia e dell’impresa e l’intera società civile. Questo fu il segno culturale di quel passaggio. Al di là di ogni considerazione sulle vicende giudiziarie il problema è che questa interpretazione della crisi italiana non era vera. In realtà ciò che entrava in crisi era un complesso sistema di potere nel quale interessi economici e finanziari si intrecciavano con la politica. Il problema vero non era quello di liberare la società dalla politica, ma semmai quello di liberare la politica da questi vincoli. Questa non verità ha avuto un grande peso nelle vicende che hanno investito il nostro paese nei trent’anni successivi. In ogni caso prevalse una visione opposta, e alla criminalizzazione del sistema dei partiti fece da contrappunto l’esaltazione acritica delle virtù della “società civile”. Berlusconi fu quindi non a caso, il frutto di questa stagione. Per quanto possa apparire paradossale alla luce della lunga e sterile guerriglia che egli condusse contro la magistratura italiana, egli dovette in buona parte all’azione della magistratura stessa la sua affermazione come protagonista di una nuova stagione per l’Italia.
La demolizione del sistema dei partiti che investì soprattutto le forze di governo determinò un vuoto di rappresentanza che egli seppe cogliere con grande tempestività e che rappresentò l’opportunità per lanciare il suo progetto politico. Berlusconi dette dunque rappresentanza a un blocco moderato e anticomunista che si era formato negli anni della guerra fredda e che aveva rappresentato il nervo della maggioranza del paese. La grande differenza rispetto al passato e alla DC è che, mentre il gruppo dirigente cattolico aveva tenuto a bada le pulsioni qualunquiste e antidemocratiche che attraversano questo mondo, Berlusconi le cavalcò con indiscutibile abilità, dando avvio alla stagione di quello che è stato chiamato il “populismo”. Nel corso di tutta la sua lunga esperienza politica egli si è trovato quindi perennemente in bilico fra la necessità, come leader politico e uomo di Stato, di operare per una ricostruzione del sistema democratico e la perenne tentazione populista e distruttiva. La vicenda della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali rappresenta un passaggio emblematico di questo dualismo. Basterebbe mettere a confronto il discorso, tutto ispirato al senso dello Stato e alla ricerca del bene comune, con cui fu motivato il voto favorevole al progetto in Commissione e la virulenza con cui due mesi dopo il tutto venne rigettato in aula aprendo la strada a quella permanente e rissosa delegittimazione reciproca che ha caratterizzato il claudicante bipolarismo italiano.
Anche sul tema cruciale dei rapporti con l’Europa Berlusconi ha giocato un ruolo ambiguo. Da una parte, integrando Forza Italia nel popolarismo europeo, in parallelo con la saldatura fra il centrosinistra italiano e il PSE, egli ha dato un contributo importante alla “europeizzazione” del nostro sistema politico. Tuttavia questo non gli ha impedito di continuare ad alimentare un sentimento di diffidenza verso l’integrazione europea, che ha continuato sino ad oggi a serpeggiare nella destra italiana. Questa diffidenza, com’era inevitabile, è stata reciproca e ha fatto sì che le fondamentali classi dirigenti europee non abbiano consentito all’Italia di giocare, per lungo tempo, un ruolo primario nella costruzione dell’Unione. Pure con questi limiti e queste contraddizioni Silvio Berlusconi ha dato un contributo molto grande all’innovazione del sistema politico italiano, del rapporto tra politica e comunicazione, della relazione tra organizzazioni politiche e leadership personale. Anche per chi come me considera non positivo il segno di questi cambiamenti è tuttavia difficile negare che queste trasformazioni hanno investito gran parte dei sistemi politici democratici dell’Occidente e che ciò che è accaduto in Italia ha, non di rado, anticipato tendenze di più vasta portata. Mentre si faticherebbe a delineare i tratti di una eredità “di governo” del berlusconismo, è innegabile che egli abbia cambiato il modo di fare politica nel nostro paese. Certo il grande progetto berlusconiano di trasformare il centrodestra in una grande formazione personale sul modello americano non è riuscito per la resistenza di partiti come la Lega e Fratelli d’Italia, che hanno mantenuto forme di rapporto con la società, di militanza e di organizzazione molto più tradizionalmente radicate nel nostro paese. Questa è a mio giudizio una delle ragioni per le quali oggi la destra governa il paese. Quella idea di partito aperto e destrutturato, privo di radici e post-ideologico ha invece prevalso, paradossalmente, nel centrosinistra. E forse questa è una delle ragioni delle difficili prospettive dell’opposizione.