Energia: strumento di pace, strumento di guerra

Di Valeria Termini Giovedì 26 Maggio 2022 10:48 Stampa
Energia: strumento di pace, strumento di guerra ©iStockphoto/silentstock639

La guerra in Ucraina sarà un freno o un’accelerazione per la transi­zione energetica verso fonti rinnovabili? Non mi sento di rispondere su questo terreno, mentre immagini e racconti di distruzione in terra europea riempiono i nostri occhi e la nostra memoria. L’Europa ha una responsabilità straordinaria in questo frangente, mentre discute di sanzioni ed embargo di gas e petrolio nei confronti della Russia, l’unica arma non militare che abbia qualche efficacia per ridurre le finanze che Putin destina alla guerra totale. È urgente raggiungere il cessate il fuoco, affrontare l’emergenza umana con gli strumenti a di­sposizione, tra i quali le sanzioni energetiche hanno un peso centrale.

Ciò non significa, naturalmente, abbandonare la visione di lungo termine e la svolta che la transizione ecologica può attivare. I movi­menti di faglia di lungo periodo proseguono il loro corso, mentre gli accidenti della storia, la guerra, la difficoltà di governare il cambia­mento, devono essere affrontati nel percorso travagliato dell’emer­genza. Nella catastrofe si può trovare spazio per guardare al di là della tragedia umana e cercare un barlume di speranza per il lungo periodo.

Nell’immediato, accelerare la transizione ecologica è una misura eti­ca per chiudere il finanziamento alle armi di Putin togliendo, solo dall’Italia, 80 milioni di euro al giorno pagati per le importazioni di gas. È una risposta costosa che richiede l’unione dei paesi europei; la stessa che ha guidato la politica economica solidale durante la pan­demia e, prima ancora, la convergenza politica sul programma dello European Green Deal al nascere della nuova Commissione nel 2019. Il piano del Green Deal per una crescita sostenibile ha cambiato la strategia economica dell’UE da una visione impostata sulle percen­tuali del debito (pure essenziali) a una opposta, di crescita comune e solidale. La guerra ha in parte interrotto quella costruzione che pas­sa attraverso il rafforzamento delle istituzioni europee. Ma l’Unione europea non può non raccogliere la responsabilità che la guerra oggi le attribuisce. Ai paesi fondatori spetta il compito di avanzare nel nuovo paradigma che investe la sfera politica e sociale, utilizzando la rivoluzione energetica per costruire una politica economica comune.

È utile sottolineare, tuttavia, che le fonti rinnovabili non offrono il paradiso. Di certo riducono le emissioni di biossido di carbonio nell’atmosfera, rispondendo all’urgenza climatica; creano però una dipendenza alternativa, che ad oggi riguarda minerali, terre rare e materie prime essenziali nella filiera produttiva delle nuove fonti. Le vie dell’energia si spostano a Oriente, attraversano l’Africa e il trian­golo Sudamericano, ma non ci rendono liberi dalla dipendenza dalle risorse che viviamo dal secolo scorso. È essenziale preparare ora il terreno, per non cadere tra un decennio nella stessa condizione di dipendenza di oggi, ma dalla Cina. L’Europa produce solo il 2% del proprio fabbisogno di materiali critici necessari a produrre batterie, strumenti di conservazione dell’energia, input per pale eoliche, sola­re, motori per veicoli elettrici e strumenti della domotica. Le inno­vazioni avanzate dalla scienza – biologia, chimica e fisica – offrono opportunità per avviare la sostituzione di quei materiali applicando quelle scoperte alle nuove filiere energetiche. Sta all’indirizzo dei go­verni e alla capacità visionaria degli imprenditori unirsi nella ricerca di perseguire un mondo dove la crescita dell’economia sia davvero socialmente e ambientalmente sostenibile. L’energia continuerà a es­serne al centro.

L’ENERGIA NELLA PREPARAZIONE DELLA GUERRA

La strategia di Putin si poteva leggere nei bilanci dello Stato. Energia e spese militari sono gli strumenti che ha scelto per riportare la Russia al ruolo di potenza mondiale. Ma l’Europa, concentrata entro i suoi confini, non percepisce la forza reale di quel disegno. Non l’ha colta nell’aumento di spesa militare della Federazione Russa – esplosa nel 2011 fino a superare il 4,5% del PIL nel 2020. Non l’ha percepita nel gioco di squadra sul petrolio che Putin ha avviato nel 2008 con le autocrazie arabe, formando l’OPEC-plus e guidando con l’Arabia Saudita i 23 paesi produttori di petrolio per rafforzare il cartello.

L’Europa non ha colto la strategia politica sottostante, anche per­ché è fallita la tattica energetica attivata dall’OPEC-plus tra il 2014 e il 2016, quando il cartello, puntando sul ribasso del prezzo del petrolio, ha cercato di scalzare le nuove imprese dello shale oil ame­ricano dal mercato globale: una politica che si è rivelata perdente e costosa sia per la Russia che per l’Arabia Saudita e non ha ottenuto i risultati voluti. Tanto da far cambiare completamente strategia ai paesi produttori nel 2021, quando Putin decide che un alto prezzo di gas e petrolio potrebbe finanziare la guerra, imminente e ancora in attesa in Europa, con esportazioni delle aziende del monopolio di Stato a un prezzo abnorme, fatto lievitare ancor più dall’incertezza e dalla speculazione, e con entrate fiscali accresciute di conseguenza.

Invero, alcuni hanno notato che il prezzo del gas ha iniziato a lie­vitare ben prima dell’estate, nel maggio 2021, dopo l’attacco di hackeraggio da parte di una so­cietà che parla russo alla Continental Illinois, la condotta che attraversa orizzontalmente tutti gli Stati Uniti; l’attacco ha paralizzato il trasporto del combustibile, costringendo il neopresidente Biden a dichiarare lo stato di emergenza energe­tica e a pagare un riscatto importante per ripri­stinare la bollettazione elettronica della Conti­nental Illinois. Non fu colta in Europa la gravità dell’azione, né il nesso con la crisi del gas che i paesi europei, importatori di gas e petrolio dalla Russia, avrebbero rischiato nell’inverno 2021. Ma nei mesi successivi la strategia energetica rus­sa si è consolidata: la finanza di guerra era stata predisposta.

La storia del secolo scorso ci dice che per Putin è difficilissimo lasciare l’Ucraina all’Occidente perché incarna la figura dell’“uomo forte” vota­to a ricostruire la potenza dell’Unione Sovietica; né l’Ucraina può perdere la sua battaglia identitaria; dopo più di otto anni di guerra fratricida ha fatto una scelta irreversibile verso l’Unione europea e l’Occidente.
Putin, tesse la sua strategia dalla prima elezione (2000), la prepara per tutto il periodo in cui governa la Russia, fino alla recente revisione della Costituzione (2020) che gli consentirebbe di rimanere al potere fino al 2036. Il tempo necessario per portare a termine il suo disegno geopolitico imperiale. Vuole contrastare le condizioni di miseria e umiliazione vissute con il collasso dell’Unione Sovietica; nel discorso del 25 aprile del 2005 dichiara persino che: «il crollo dell’URSS è stata la più grave catastrofe del XX secolo, un vero dramma per il po­polo russo» e interpreta il pensiero di larga parte della popolazione.

Seppure con minore estremismo, infatti, Putin è intriso della filo­sofia eurasiatica di Alexander Dugin, che sostiene la rivincita di una Russia eurasiatica: estranea cioè all’Occidente, di cui non capisce né riconosce i valori; diversa dall’Oriente, verso il quale tende. Mira a costruire un’alleanza strategica antioccidentale con la Cina, incentra­ta anche in questo caso sul comune interesse allo scambio di combu­stibili fossili, e la raggiunge nel 2019 con la costruzione del gasdotto Power of Siberia, che porterà gas russo dalla Siberia e dalla penisola di Yamal in territorio cinese.

Ma la storia è più antica. Nel 1870 Bismarck scrisse in “Divide et im­pera”: «La forza della Russia può essere insidiata soltanto attraverso la separazione dell’Ucraina. Quelli che vogliono che ciò accada non solo devono dividerle, ma devono mettere l’Ucraina contro la Rus­sia, insanguinare le due parti dello stesso popolo e assistere a come il fratello uccide il fratello. Per realizzare questo devono individuare e istruire traditori nel seno dell’élite nazionale e con il loro aiuto cambiare la coscienza di una parte del popolo, a tal punto che essa aborrisca tutto quanto è russo, aborrisca la propria stessa stirpe, senza nemmeno che se ne renda conto. Il resto lo farà il tempo».

È una citazione da Otto Von Bismarck, riportata in una tesi di dot­torato.1 Ci rivela che quello che accade oggi ha radici e cause pro­fondissime.

Non è solo la ricchezza di risorse energetiche a contrapporre Putin all’Occidente su questo versante. Anche la transizione ecologica è un’occasione per generare contrasti. Nel 2008 con Brasile, India e Cina, la Russia dà vita al sistema di cooperazione politico-econo­mica dei BRICs, i paesi in via di sviluppo che contestano il forum globale sul clima, perché li include come grandi inquinatori del pre­sente, quando i paesi più ricchi hanno accumulato lo stock di biossi­do di carbonio nell’atmosfera bruciando carbone e petrolio per quasi due secoli, dopo la rivoluzione industriale. Gli Accordi di Kyoto di cui l’Europa si era fatta promotrice falliscono anche per l’opposizio­ne dei BRICS, guidati dalla Russia con la Cina.

L’Occidente ha vinto nel 1991, certo, con la disgregazione dell’U­nione Sovietica che ha segnato la fine della guerra fredda, ma è una vittoria che si dimostrerà fragile e non definitiva anche perché i go­vernanti occidentali, poco visionari e appagati dal crollo dell’URSS, non sanno coltivare la pace con l’avversario sconfitto, lo umiliano, con lo scopo di contenerne un eventuale desiderio di ripresa. Non lo includono nelle istituzioni, nei trattati economici, non lo aiutano a rapportarsi con il mondo occidentale da interlocutore diverso, da seguire con attenzione guardinga, ma importante.

Ce lo ricorda Habermas in uno splendido monito di pace che lancia all’Occidente nel mese di aprile, in piena guerra, in attesa del temuto 9 maggio, giorno di memoria nazionale per i russi, del grande sa­crificio e della grande vittoria contro la Germania nazista; il giorno nel quale Putin ambiva a celebrare anche la vittoria sulle macerie dell’Ucraina. Ma non è stato così: la resistenza inattesa dell’Ucraina e la risposta unita dell’UE e dell’Occidente, altrettanto inattesa, non glielo hanno consentito.

Al contrario, quella del dialogo è stata la strategia che ha perseguito solitaria Angela Merkel, passando ancora attraverso l’energia, punto di forza della Russia. Riallacciare i rapporti con il grande vicino è stato al centro della visione di ricostruzione della Russia e di raf­forzamento dell’area europea della Cancelliera tedesca. Sbagliando, contribuisce nel nuovo millennio a costruire la completa dipendenza della Germania e dell’Europa dal gas russo. Incoraggia la costruzione dei due gasdotti Nord Stream 1 e 2 per trasportare il gas russo diretta­mente in Germania (55+55 m3), eludendo la regolazione europea e il transito dall’Ucraina, e da lì nel resto dell’Europa. Uno è in funzione dal 2011, il secondo, completato lo scorso settembre (2021), è bloc­cato dal nuovo cancelliere Scholz dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

La strategia della Merkel è stata contrastata dagli Stati Uniti in un’ot­tica politica e dalla Commissione e dai regolatori europei dell’energia in un’ottica economica, consapevoli che la sicurezza richiede di di­versificare le fonti di approvvigionamento dell’energia. La Germania, seguita dall’Italia in scala minore, costruendo la dipendenza ener­getica dalla Russia commette l’errore strategico che oggi l’Europa paga a caro prezzo, ma che va riconosciuto come parte di una visio­ne politica inclusiva e di pace, non riducibile alla mera convenienza economica nazionale, come viene descritto da molti. È un errore che conferma la sottovalutazione della strategia velata di Putin.

Infine l’invasione dell’Ucraina chiama in causa direttamente l’Euro­pa, che non può più non vedere. All’Unione europea, protagonista per l’Occidente, compete l’impegno politico per attivare un’azione che riesca a fermare la tragedia. Ciò non sta accadendo, nonostante gli sforzi individuali di alcuni governanti; l’Unione europea prende tempo, non riesce a darsi una politica estera e una difesa comuni e condivise per assumere la responsabilità di mediazione che la storia inequivocabilmente le attribuisce. Ci si aspetta il necessario rafforza­mento delle istituzioni dell’Unione, per il quale l’Italia con le gran­di democrazie dei paesi fondatori deve assumere un ruolo di guida. Gradualmente la Germania si arma, il Consiglio e il Parlamento arriveranno a una decisione di embargo sul petrolio, possibilmente europea.

L’ENERGIA NELLA GUERRA

Oggi la Russia pesa poco nell’economia globale – con un reddito di 1700 miliardi di dollari nel 2021 sfiora l’1,5 % del reddito mon­diale –; anche gli scambi sono modesti: le esportazioni russe – circa 400 miliardi di dollari – pesano meno del 2%; il reddito nazionale è vicino a quello dell’Italia, ma la popolazione è più del doppio (144 milioni) distribuita su un territorio immenso. Il reddito pro capite stimato dalla Banca mondiale non arriva a 12.000 dollari, a fronte dei 32.000 circa dell’Italia e 63.000 degli Stati Uniti.

Ma la Russia è il terzo produttore di petrolio (11 milioni di barili al giorno) e secondo esportatore, nonché primo produttore di gas (650 miliardi di m3) e primo esportatore, di cui detiene anche le maggiori riserve. La distribuzione delle fonti fossili avviene attraverso una rete imponente di condotte – quasi 160.000 km di gasdotti e 90.000 di oleodotti. Gazprom, impresa russa a capitale pubblico, acquista l’in­tera produzione di gas del Kazakistan, del Turkmenistan e dell’Uz­bekistan e la distribuisce con la sua rete di gasdotti anche alla Cina. All’Europa in larga parte, anche attraverso gasdotti che attraversano l’Ucraina. Dal cambiamento climatico e dalla riduzione dei ghiacci nella calotta polare ha tratto beneficio, scoprendo nuovi giacimenti nell’Artico e attivando la nuova via del Nord per il trasporto navale delle risorse. Putin, abbiamo visto, ha puntato sulla dotazione straor­dinaria di risorse energetiche del paese che gli assicura potere nego­ziale, ma si accompagna alla disgregazione dell’industria e dei servizi che erano stati coltivati nell’Unione Sovietica. La “maledizione delle risorse” colpisce ancora.

LE SANZIONI: RUSSIA, EUROPA, ITALIA

La dipendenza energetica tra Russia ed Europa è reciproca. L’UE im­porta 155 miliardi di m3 l’anno dalla Russia (40% del proprio con­sumo) e finanzia così larga parte del bilancio russo. Oggi si propone di ridurre di due terzi il valore di queste importazioni, attingendo da altre fonti: dal GNL di Stati Uniti e Qatar, dall’Egitto, dal Nord Africa; utilizzando i gasdotti esistenti che collegano l’Azerbaijan, la Norvegia, l’Algeria; utilizzando biometano; accelerando l’uso di fon­ti rinnovabili; infine, nel medio periodo, avviando la produzione di idrogeno verde per l’industria pesante energivo­ra, i trasporti pesanti per mare e l’aviazione. In altri termini accelerando la transizione energeti­ca secondo gli indirizzi della Commissione.

La capacità di decisione dell’Unione è un punto cruciale. L’UE ha risposto rapidamente all’inva­sione con voce unica: tra il 25 febbraio e il 15 marzo ha deciso 5 pacchetti di sanzioni all’una­nimità – sanzioni finanziarie e reali vietando l’e­sportazione in Russia di tecnologia navale, aero­spaziale, beni di lusso; approvando deroghe sulle esportazioni di combustibili fossili – petrolio e gas – dalla Russia e sulle materie prime essenziali alla tecnologia europea dal palladio al rame, al titanio, al nikel.
La tattica di Putin sull’energia è ancora quella di dividere l’UE; il primo passo è stato quello di chiudere il gas a Polonia a Bulgaria. Ma l’UE non è stata ferma in questi anni in campo energetico, la rego­lazione del decennio trascorso garantisce oggi l’approvvigionamento sicuro tra i paesi membri (con qualche smagliatura, ad esempio nel collegamento tra Francia e Spagna). Si tratta di completare il gioco di squadra con politiche energetiche condivise e alleanze tra impre­se innovative per superare la transizione in atto e prevedere i rischi di dipendenza per le nuove filiere energetiche, che questa volta, tra venti anni, sarà dall’Asia. Non è facile costruire una politica energe­tica europea ma l’alternativa è lasciare spazio al rischio di autarchia in alcuni singoli paesi, una strada che nella storia non trova esempi rassicuranti.

Nei dati aggregati si nascondono situazioni molto diverse tra i paesi membri. Germania e Italia sono i più colpiti dal gas russo. L’Italia tuttavia è in posizione di estremo vantaggio rispetto alla Germania e può usarlo al meglio sotto la guida di un governo consapevole. Sono quattro i punti da richiamare al riguardo. In primo luogo i dati di realtà; sono circolati spesso in modo troppo approssimativo: esagerando la nostra vulnerabilità e annichilendo le aspettative di crescita rendono più debole l’economia e la capacità di reazione del paese. Nel 2019, ultimo anno di normalità pre-pandemia, il gas ha coperto il 40% (61.000 tonnellate equivalenti petrolio, toe) del to­tale dei consumi energetici, che ammontano a 155.000 tonnellate. Il resto è coperto da petrolio (54.000 toe), rinnovabili e bioliquidi (29.500 toe) e pochi altri combustibili solidi (6.500 toe). Il gas è quasi tutto importato, ma dalla Russia solo per il 40%. Ciò significa che l’Italia dipende dal gas russo per il 16% dell’energia consumata nel paese (dati del bilancio energetico nazionale di Arera e del MITE 2021). Per di più, parte di questa dipendenza è dovuta recentemen­te ai prezzi relativi, alla convenienza delle fonti: il gas russo costava meno di quello algerino, ma ora non è più così; la quota algerina sarà aumentata e la missione del governo ne dovrebbe assicurare 9 miliardi di metri3.

In secondo luogo, a differenza di quanto si legge, le infrastrutture aiutano nel breve e nel medio periodo: l’Italia ha tre rigassificatori (Panigaglia, Livorno, e Cavarzese) nei quali accogliere gas naturale liquefatto (GNL); i primi due sono rimasti poco utilizzati per manu­tenzione lo scorso anno, ora tornano in funzione e a essi si aggiunge­rà in corso d’anno il primo impianto galleggiante di rigassificazione (una nave). Inoltre l’Italia è raggiunta da 5 gasdotti, i primi costru­iti da un lungimirante Enrico Mattei negli anni Cinquanta; l’ultimo, Tap, in Puglia, oggi in uso dopo aver superato i contrasti locali.

Le difficoltà incontrate per la realizzazione di Tap richiamano la nuova consapevolezza del governo sulla necessità di sbloccare le procedu­re che hanno fermato larga parte degli impianti da fonti rinnovabili; l’urgenza spinge la politica nella giusta direzione di favorire la produzione rinnovabile non con incentivi, ma con l’accelera­zione delle procedure attuative in vigore. In Italia queste realtà han­no trovato un percorso accidentato, stretto dalle maglie burocratiche autorizzative; anche in questo caso i numeri parlano: in Germania le comunità energetiche locali hanno superato il migliaio, in Italia sono poche decine, molte in attesa dei permessi necessari.

Quarto elemento, infine, è la posizione geografica dell’Italia. Il Me­diterraneo è un’enorme risorsa di gas naturale. Fino alla guerra in Ucraina l’ostacolo principale a questo sviluppo è stato la concorrenza del gas russo che, attraverso Nord Stream, riforniva la Germania e parte dell’UE. Certo oggi non è più così e l’Italia potrà e dovrà assu­mere la guida di questa risorsa vicina.

Prima di parlare di razionamento dell’energia per i cittadini è dunque necessario attivare atti amministrativi favorevoli alla crescita delle co­munità energetiche locali alimentate da fonti rinnovabili, che pre­mono per l’autorizzazione in tutto il paese; hanno anche una forte rilevanza politica, poiché in esse cittadini, imprese (piccole e medie) e governo locale partecipano con interesse diretto e responsabilità condivisa alla produzione e al consumo efficiente di energia da fonti naturali. Contribuiscono a ricostruire un tessuto sociale partecipati­vo sul territorio.

CONCLUSIONI

Dobbiamo liberarci dei combustibili fossili, questo è un aspetto cen­trale dell’esperienza che viviamo. Per motivi economici, la volatilità dei prezzi è distruttiva per la crescita e mette seriamente a repentaglio lo sviluppo dei paesi poveri; per motivi politici e sociali – i paesi do­tati di risorse sono i più autoritari: in essi i proventi da gas e petrolio rendono economicamente irrilevante lo sforzo per uno sviluppo in­dustriale interno –; infine per i motivi ambientali che premono per la transizione a fonti naturali non inquinanti.


[1] E. Bertolasi, La questione dell’identità nazionale ucraina, anno accademico 2013-14, Università di Milano “Bicocca”, p. 328.