Lo spazio europeo di una democrazia senza scorciatoie

Di Nadia Urbinati Mercoledì 25 Maggio 2022 16:11 Stampa
Lo spazio europeo di una democrazia senza scorciatoie ©iStockphoto/silentstock639

In pochi anni l’umanità si è trovata di fronte a eventi carichi di se­gnali contrastanti, indicativi di trasformazioni negli equilibri sociali e istituzionali degli Stati democratici, nelle relazioni internazionali e nella cultura e mentalità politiche. Non si può non cominciare dalla crisi finanziaria del 2008, che oggi sembra un reperto storico ma che ha avuto implicazioni nefaste tutt’altro che residuali e passate. Ha impresso un’impennata sorprendente alla crescita della diseguaglian­za che non è mai più stata riassorbita dalle società democratiche; ha esaltato il potere di organismi opachi; ha accellerato la formazione di monopoli, i veri vincitori nella competizione globale. I governi democratici hanno dimostrato di essere deboli di fronte a questi po­tentati extraterritoriali, incapaci di contenere il potere di influenza dei super ricchi e di mantenere la promessa di pattugliare i confini tra il potere economico e quello politico. Le nostre società sono oggi più oligarchiche e meno democratiche.

Il secondo evento è la pandemia, che ha messo a dura prova i sistemi co­stituzionali ed esteso le prerogative degli esecutivi. Se la crisi finanziaria ha messo in serio dubbio la promessa dell’eguaglianza, la pandemia ha messo in luce la fragilità delle terapie liberiste nella gestione dei servizi pubblici e, infine, la contraddizione di una cultura della libertà che per decenni era stata semplicisticamente identificata con gli interessi indivi­duali e dissociata dalla responsabilità verso la società. La pandemia ha sfi­dato le società democratiche non solo sul terreno istituzionale, dunque, ma anche su quello culturale con lo iato tra sicurezza e diritti. La divari­cazione tra destra e sinistra è passata attraverso questa cesura (anche se i confini si sono rivelati meno chiari di quanto ci si sarebbe aspettati) – le destre populiste sono divenute un baluardo dell’ideologia neoliberista, e la sinistra nelle sue varie anime ha riattivato l’ethos della solidarietà.
Il terzo evento è l’invasione russa dell’Ucraina che dalla fine del feb­braio scorso sta mettendo a dura prova il diritto internazionale e la pace, i due pilastri del processo di democratizzazione iniziato nel 1945. Le due guerre mondiali causate dai paesi europei hanno im­posto una svolta in senso kantiano nel modo di intendere la relazio­ne tra ordine politico e ordine internazionale; i decenni di stabilità goduti dai nostri paesi sono un documento importante del legame inscindibile tra libertà politica e pace. L’equilibrio del dopoguerra è stato, come noto, pattugliato dalle due forze alleate contro il nazi-fascismo epperò nemiche ideologiche. La fine della guerra fredda ha coinciso con la fine dell’Unione Sovietica e del socialismo di Stato e, soprattutto negli Stati Uniti, ha fatto pensare alla vittoria del model­lo capitalistico e alla sostituzione dei conflitti po­litici con la competizione economica sui mercati globali. Abbiamo invece assistito all’emergere di un nuovo tipo di conflitti, quelli tra civiltà ov­vero identitari, che sono restii alle mediazioni e ai compromessi. Il nuovo secolo si è aperto con l’attacco del terrorismo islamico agli Stati Uniti, i cui effetti non sono stati ancora assorbiti. La lotta ideologica di classe ha lasciato il posto a un antagonismo radicale tra valori inconciliabili o presentati come tali. Oggi la democrazia e la cul­tura dei diritti sono il bersaglio ideologico (an­che in alcuni paesi europei) e la cifra della nuova contrapposizione globale che stiamo vivendo. Più che una crisi locale, la stessa invasione russa dell’Ucraina può essere letta come rappresentativa di questo nuovo scenario ideologico che non è meno polarizzato di quello della guerra fredda.

Vulnerabili e molto imperfette, le democrazie occidentali aggrava­no la loro debolezza nella misura in cui restano ancorate irriflessiva­mente al paradigma manicheo della guerra fredda, senza valorizzare il significato universalistico della cultura politica e giuridica che ha ispirato le Nazioni Unite e l’Unione europea. Queste due istituzioni fondamentali della comunità internazionale portano nella loro gene­si l’impronta della guerra fredda, ma ciò non toglie che esse abbiano sul terreno dimostrato di avere un valore che eccede la loro genesi. Anzi, la loro persistenza dopo la caduta del muro di Berlino è da sola un’indicazione di resilienza che tuttavia richiede mutamenti istitu­zionali. Il potere di veto (cioè la regola di minoranza contro quella di maggioranza), figlio di una diffidenza strutturale tra vecchi avversari-alleati, paralizza sia il Consiglio di Sicurezza sia l’Unione europea e invece di garantire stabilità genera paralisi e mette a repentaglio la loro funzione conciliatoria che in questo tempo di guerra sarebbe ol­tremodo necessaria. Sia l’invasione statunitense dell’Iraq sia l’invasio­ne russa dell’Ucraina confermano questa disfunzione. Oggi, le strate­gie decisionali paralizzano tanto l’ONU quanto l’Unione europea e la loro impotenza è ciò di cui i democratici dovrebbero preoccuparsi, sapendo che tolta la funzione del diritto e della diplomazia, restano il sibilo dei missili e la pace del più forte, uno scenario disastroso che l’Europa conosce assai bene.

Le politiche emergenziali economiche e sanitarie e il ritorno della guerra in Europa hanno messo in evidenza tre trend che dovrebbero impensierire e impegnare i democratici: a) il declino della centralità della sovranità nazionale (benchè non di tutti gli Stati egualmente) rispetto a potentati globali non politici; b) l’espansione del ruolo de­gli esecutivi negli Stati democratici; c) la messa in discussione dello strumento del diritto e della conciliazione delle tensioni tra gli Stati, con ricadute prevedibili anche nelle relazioni tra i cittadini e lo Stato. Meno potere delle sovranità nazionali, meno potere degli organismi collettivi democratici, meno forza del diritto: è questa la fisionomia del mondo nel Ventunesimo secolo, iniziato all’insegna della riven­dicazione del ruolo della forza, economica e militare. Non sfugga il paradosso: meno la sovranità politica è potente, più il suo braccio coercitivo prende vigore, quasi a voler recuperare autorità con scor­ciatoie. Il fatto è che la democrazia non regge alla logica delle scor­ciatoie. Come scrisse Alexis de Tocqueville, la democrazia si corregge con più, non con meno democrazia. È realistico temere che l’esito di questi eventi che a raffica si sono succeduti nel volgere di due decen­ni sia una contaminazione autoritaria delle stesse democrazie.

Questa contaminazione è iniziata prima del nuovo secolo. Si potreb­be riandare alla svolta del 1971, con la fine del sistema di Bretton Woods, che segnò la conversione delle democrazie occidentali al li­berismo e la galoppata dell’economia americana verso il controllo dei mercati e degli istituti finanziari internazionali. Gli effetti cultu­rali della svolta antisociale dell’economia si fecero sentire anche nella sinistra, che abbracciò l’ideologia privatistica e accettò di sostenere politiche di decurtazione (in Italia in forme draconiane) dello Stato sociale. Gli eventi del nuovo secolo hanno impresso un’accelerazione a quei processi con un mutamento paradigmatico delle cui conse­guenze sulla democrazia non siamo ancora pienamente consapevoli: ad esempio, la svolta dal governo delle società alla governance rego­latoria dei processi; dalle politiche di progetto concordate con i citta­dini alle decisioni concordate con organismi non politici (gli organi­smi finanziari internazionali) o imposte dai mercati azionari. Si tratta anche di mutamenti di mentalità, che abituano gli stessi cittadini a pensare alla politica in termini funzionalistici invece che normativi, di outcome invece che di principi. In questo trade-off esemplificativo di un realismo anormativo, la pacificazione sociale e lo staus quo sono gli interessi più corteggiati, preferiti al consenso elettorale che è sen­tito anzi come un orpello che premia l’irrazionalità delle decisioni e la selezione di attori politici non necessariamente competenti.

Questo è lo scenario complesso e multiverso nel quale si trova la sinistra, sulla quale ricade un compito che è strategico e culturale, e che si dipana su due direttrici intersecantesi: la prima fa perno sull’uguaglianza e la giustizia sociale; la seconda fa perno sulla pace e la cooperazione internazionale.

Circa la prima direttrice, la crisi finanziaria e quella pandemica han­no evidenziato una divaricazione tra democrazia e capitalismo che ha interrotto l’ottimismo dei liberali del dopoguerra. Questi ultimi due decenni hanno mostrato come non solo il capitalismo possa pro­sperare in regimi autocratici ma anche come possa generare mono­polio senza deperire; al contrario, la democrazia ha meno elasticità trasformativa e non tollera monopoli. Per Anthony Atkinson e il suo allievo Thomas Piketty, l’arma più incisiva che le democrazie han­no per rompere il monopolio e la diseguaglianza che ne consegue è la tassazione della ricchezza, un’arma che richiederebbe un governo mondiale o un coordinamento tra gli Stati per neutralizzare il potere di fuoco dei super ricchi del globo. Ma come abbiamo appreso nel corso degli ultimi rituali G7 e delle riunioni dei capi di Stato euro­pei, il raggiungimento di questo obiettivo strategico è tutt’altro che a portata di mano. Tra gli ostacoli, occorre includere la formazione della classe politica che sempre più frequentemente avviene nelle bu­siness school, nei dipartimenti di economia, negli istituti finanziari e nelle multinazionali, luoghi dove si insegnano e si praticano le stra­tegie più sofisticate per promuovere la crescita dei profitti non per combattere la diseguaglianza. Le politiche di redistribuzione propo­ste da Atkinson e da Piketty richiedono luoghi di formazione delle classi politiche democratiche oltre che politiche fiscali coordinate tra gli Stati. La sinistra non può esimersi dal porsi questo problema, e per questo non può accontentarsi di essere un cartello elettorale.

La debolezza dei poteri sovrani è un fattore funzionale all’egemonia culturale del capitalismo monopolistico. Negli anni Sessanta del se­colo scorso, la democrazia economica era una proposta visionaria; ma la “tirannia” dei monopoli impone una direzione diversa, che riabiliti in qualche modo l’antica strategia contro il potere arbitrario (quello che nel Seicento e nel Settecento ha portato alle rivoluzioni costituzionali) ma con una differenza importante: oggi, la costitu­zionalizzazione e la limitazione del potere devono avvenire a livello sovranazionale e rispetto a un nuovo assolutismo. La crisi del 2008 ha confermato quanto preveggenti fossero stati i popoli e i leader eu­ropei che dopo la guerra optarono non semplicemente per la demo­crazia interna ai loro Stati, ma anche per un ordine sovranazionale che ponesse limiti alle concentrazioni economiche, regole al mercato e che difendesse la democrazia sia contro le diseguaglianze che le nuove povertà. La pandemia ha riconfermato la lungimiranza dei fondatori dell’Unione europea.

E veniamo così al legame tra la democrazia e l’ordine etico-giuridico-politico che si è saldato in seguito a una guerra civile europea lunga un secolo tra forze liberali e democratiche e forze fasciste e autoritarie. Oggi, l’autoritarismo veste panni nuovi. I sistemi autocratici sono permeati di capitalismo (con la Cina monocratica in te­sta) e sono dotati di un ingranaggio propulsivo di crescita e di stabilità che attrae anche le nostre democrazie. Orga­nizzati per decidere senza coinvolgere la partecipazione politica dei cittadini, anzi per mostrarla inutilmente costosa, questi nuovi sistemi dispotici hanno messo in campo una capacità attuativa che desta am­mirazione in Occidente. A leggere le riviste accademiche di scienza politica, a seguire seminari e pubblicazioni sui regimi politici, ci si avvede di quanto largo varco si stia facendo la cultura politica non democratica o apertamente antidemocratica con il deprezzamento dei processi collettivi di discussione e decisione e perfino delle ele­zioni. A suo modo, la svolta tecnocratica avvenuta nel nostro paese con l’insediamento del governo Draghi rientra in questo mutamento paradigmatico in senso funzionalista.

Insomma, la sfida che sta di fronte alle democrazie oggi, quelle so­prattutto che come le europee coltivano ancora aspirazioni di giusti­zia sociale, non passa attraverso il manicheismo della guerra fredda – regime liberaldemocratico contro socialismo di Stato; passa attra­verso obiettivi molto meno appariscenti e ideologicamente più fred­di, come il consenso senza conflitto, l’ordine sociale, la crescita del PIL e il benessere promesso alle classi medie: obiettivi che non sono privi di valore e che possono essere ottenuti anche da minoranze di tecnici con l’ausilio dei sondaggi. Insomma, la Cina è più vicina di quel che non appaia benchè non come modello rivoluzionario e tan­tomeno democratico.

La guerra in Ucraina ha introdotto una emergenzialità drammatica e forse più radicale nelle possibili conseguenze, anche sul piano ide­ologico in quanto da qualche anno la Russia di Vladimir Putin sta svolgendo la funzione di magnete dei populisti autoritari e xenofobi in Europa, con una funzione critica, come il leader russo ha spesso detto, delle liberaldemocrazie. Su questo nucleo di problemi ideolo­gici e di politica culturale, la sinistra non ha un orientamento forte e convincente, povera com’è di riflessioni critiche con lo scopo di rilanciare la cooperazione europea su temi cruciali come l’immigra­zione, il riequilibrio sociale delle fortune, infine il rapporto con la Russia a est, la Turchia e il Nord Africa a sud. In aggiunta, al di là del­le questioni strategiche di geopolitica, è il deprezzamento dell’ordine democratico in alcuni Stati-membri dell’Unione che preoccupa. Ci sono appigli positivi? Mi limiterò a indicare le grandi sfide sulle quali la sinistra, ma in effetti tutti i movimenti democratici nel Vecchio continente, dovrebbero far convergere le proprie energie.

a) Gli eventi che hanno segnato il nuovo secolo hanno, tutti indistin­tamente, riconfermato il valore e la funzione dell’Unione europea; al contempo hanno dimostrato la necessità di imprimere a essa un protagonismo politico non soltanto regolativo e normativo. Il modo con il quale la UE ha atterrato l’economia greca nel corso della crisi finanziaria è indicativo di una gestione funzionalistica a tutto ap­pannaggio degli Stati forti che mentre ha fatto un pessimo servizio ai valori democratici ha aggravato la distanza tra centro e periferia nell’Unione a tutto vantaggio degli antieuropeisti. La necessità im­posta dalla pandemia ha accellerato la costruzione di una politica federativa di condivisione del debito, una strada che assegna valore agli organismi democratici come il Parlamento europeo e che amplia le funzioni di governo dell’Unione. Come ha scritto recentemente Vincenzo Visco su “Domani”, l’Europa «dovrebbe darsi al più presto una strategia idonea ad affrontare la nuova fase. Altrimenti rischia di compromettere la sua autonomia. L’assetto attuale dell’Europa, infatti, non è adeguato ai nuovi tempi che si prospettano».

b) La guerra in Ucraina ha dimostrato il bisogno di una unione con­tinentale dotata di una voce indipendente dalla potenza statunitense di riferimento. Se l’UE non ha un esercito comune questo dipende anche dall’Alleanza atlantica, che mentre si av­vantaggerebbe di politiche nazionali di riarmo, teme e osteggia una scelta di unione continen­tale nella politica di sicurezza. Si legge in una comunicazione del Servizio diplomatico dell’U­nione europea che l’autonomia strategica è stata recentemente estesa a nuovi soggetti di natura economica e tecnologica come ha rivelato la pandemia; e che si tratterebbe di portare questa autonomia nel settore della difesa e della politica estera. Ciò comporterebbe però rinegoziare i ter­mini dell’Alleanza atlantica. La guerra in Ucrai­na sembra aver allontanato questa ambizione, rilanciando un ruolo egemonico diretto degli Stati Uniti. Eppure proprio in questo frangente drammatico si comprende quanto im­portante potrebbe essere per la pace e la cooperazione internazionale che l’Europa esca dalla minorità e decida di giocare un ruolo diretto come global player. Questa guerra e la gestione della non-pace pro­mossa dalla NATO mostrano come ci sia una divergenza di interessi tra gli Stati Uniti (che mirano a indebolire definitivamente la Russia e quindi a proseguire la guerra) e l’Europa (che avrebbe tutto l’in­teresse a che la guerra si concluda in tempi brevi e con una pace ragionevole). Una UE autonoma sarebbe capace di operare secondo le proprie leggi e norme sia per proteggerle internamente sia per gio­care un ruolo come partner multilaterale in un ordine che è, almeno in teoria, basato su regole che la UE stessa ha contribuito a scrivere.

La partita politica della sinistra democratica si gioca in Europa dun­que. E si gioca anche con uno sforzo di immaginazione istituzionale finalizzato a ridisegnare le relazioni del Vecchio continente con l’al­leato americano. L’Unione europea dovrebbe prendere una direzione doppia: da un lato consolidare l’unione politica del nucleo primario dei suoi Stati-membri e dall’altro avviare una relazione privilegiata con il cerchio largo degli Stati terzi a est e a sud del continente, in­clusa in prospettiva la Russia. La pandemia e l’invasione dell’Ucraina hanno messo a nudo i limiti di una Unione europea debole e chiusa in se stessa, incapace di farsi attore politico autorevole e autonomo, di curarsi della pace e della cooperazione nel proprio continente. Si tratta di obiettivi titanici. Ma assumerli come orientamenti ideali o operare “come se” tutte le scelte fossero coerenti con essi sarebbe già mettere l’impossibile al servizio della politica pragmatica.

 

 

 

 

 

 

 

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Acquerello di Emanuele Ragnisco