La centralità del lavoro come fondamento di un nuovo modello di sviluppo

Di Maurizio Landini Giovedì 25 Marzo 2021 17:07 Stampa

La crisi che stiamo vivendo non ha precedenti. Infatti, a quella del 2007-08 dalla quale non tutti i paesi europei erano usciti, ha fatto seguito la diffusione della pandemia. Proprio questa drammatica vi­cenda rappresenta l’ammissione più esplicita del fallimento dell’at­tuale modello di crescita che ha portato a un approfondimento delle diseguaglianze tra le persone e alla rottura degli equilibri e dei rap­porti con la natura. Siamo davvero nel pieno di una crisi sistemica: c’è un’emergenza sanitaria e, al tempo stesso, precipita la situazione economica e sociale che si intreccia con una altrettanto grave crisi ambientale. A essere particolarmente colpiti sono i paesi dell’Occi­dente più sviluppato. Sono stati colti di sorpresa e si sono trovati impreparati a fare i conti con eventi di questa natura. Le politiche di austerità adottate in questi anni, con particolare veemenza pro­prio in Europa, hanno colpito i sistemi di welfare, ridotto le tutele sociali, mortificato la partecipazione democratica e tutto il tessuto delle relazioni sociali. Paradossalmente proprio quelle società che si ritenevano più forti e “moderne” hanno rivelato tutte le loro fragilità.

In sostanza la pandemia ha aperto il vaso di pandora facendo esplo­dere una condizione di disagio già prima ampiamente diffusa. Fram­mentazione sociale, precarietà come condizione di lavoro e di vita sono presenti, certamente con dimensioni diverse, in tutti i paesi svi­luppati. Da tempo, infatti, il valore e il peso del lavoro nella società e nella politica sono diventati del tutto marginali.

A cavallo tra il XX e il XXI secolo vi è stata una vera e propria ri­mozione politica e culturale della grande questione del lavoro. Da decenni la politica, e in essa la sinistra in tutte le sue componenti, ha smarrito la capacità di cogliere i processi in atto, le loro dinamiche e il loro impatto sulle condizioni concrete delle persone. Si è consa­pevolmente lasciata cadere la centralità del lavoro. Non è certamente un caso se, a fronte di una delle più gravi crisi del capitalismo come la recente crisi finanziaria, la sinistra sia stata completamente afona e incapace di esprimere qualsiasi progetto alternativo.

Tutto questo mentre, paradossalmente, è cresciuta l’invasività del la­voro sui tempi di vita e sfumato il concetto stesso di orario di lavoro e di luogo della produzione che supera i perimetri di fabbriche e uffici per diffondersi sul territorio, fino nelle abitazioni di tanti uomini e donne. La segmentazione del ciclo produttivo – dall’ideazione alla messa sul mercato di una merce o di un servizio – è regolata e con­trollata da sistemi informatici e dalla concorrenza dei costi. È ciò che ha contribuito al proliferare di forme contrattuali che spingono verso il basso salari e condizioni di lavoro.

Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso c’era una vicinanza di coloro che lavoravano e un’omogeneità delle condizioni di lavo­ro. Oggi siamo invece di fronte a un mondo del lavoro frammenta­to, diviso. Le esternalizzazioni di funzioni che negli anni passati si svolgevano all’interno dell’impresa, le catene di appalti e subappalti, hanno prodotto diseguaglianze di reddito e di diritti. Assai spesso, nello stesso posto di lavoro ci sono lavoratrici e lavoratori che pur svolgendo le stesse mansioni hanno condizio­ni e diritti diversi. Ciò produce divisione e la stessa solidarietà non è più un fatto scontato. E tutto ciò ha ricadute pesanti sulle persone. Il lavoro, infatti, da luogo di identità e occasione di emancipazione (economica, sociale, politica, culturale) è sempre più percepito come fattore di solitudine e alienazione. Si è fatto credere che ri­ducendo i diritti si potesse avere una ripresa della crescita e dello sviluppo. Questo non è successo e si è avuto invece un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro, al punto che, assai spesso, si è poveri pur lavorando. Lavoro preca­rio, part time involontario, riduzione dei diritti hanno prodotto una condizione diffusa fatta di disagio e di esclu­sione. Sono processi che rischiano di produrre forme sistematiche di emarginazione. Fenomeni che colpiscono in particolare giovani e donne. Si dice spesso che la rivoluzione tecnologica offra la base ma­ teriale per prospettare una nuova fase di crescita e di sviluppo. Non vi è dubbio che le tecnologie della comunicazione e dell’informazio­ne potrebbero offrire la possibilità di un’organizzazione del lavoro meno gerarchica, più aperta, ove investire sull’autonomia e sull’in­telligenza del lavoratore e della lavoratrice. Non è questo però, oggi, l’indirizzo che ha assunto l’innovazione tecnologica o, come viene comunemente chiamata, la società della conoscenza. Essa è in realtà un campo aperto di contraddizioni e di conflitti. È segnata dai valori e dagli indirizzi che si sono affermati negli ultimi decenni; da scelte e strategie orientate da grandi centri economici e di potere per loro natura separati dal destino delle persone e dei territori. È proprio in questo contesto che l’utilizzo di tecnologie sempre più complesse, la centralità delle attività di progettazione, ha prodotto un inaudito ac­centramento delle funzioni strategiche, del sapere, della conoscenza e un decentramento delle attività operative delle grandi imprese.

Hanno prevalso inoltre gli investimenti a breve termine invece di quelli a lunga scadenza o quelli nella ricerca di nuovi prodotti, nel­la formazione e nelle competenze delle lavoratrici e dei lavoratori. Hanno preso corpo così nuove fratture e diseguaglianze, ad esempio tra un nucleo ristretto di persone impegnate nelle funzioni strategi­che delle imprese e un’ampia fascia di lavoratori che svolge mansioni ripetitive e che vede a rischio di obsolescenza il proprio bagaglio for­mativo. Anche in questi processi sta l’attuale frammentazione, par­cellizzazione, subordinazione del lavoro. È una condizione che va molto oltre il lavoro manuale e strettamente produttivo.

La pandemia ha dunque reso più evidente l’insostenibilità di questo modello di crescita. In Italia in modo particolare. Perché il nostro pa­ese già da prima si trovava in condizioni di grande difficoltà. La sua crisi, infatti, va oltre la diffusione del virus, ha radici profonde e di lungo periodo. Si intreccia con la debolezza del suo sistema produt­tivo concentrato prevalentemente su settori scarsamente innovativi e su una prevalenza di piccole imprese. A ciò si aggiunge l’assenza da diversi anni di investimenti pubblici nelle infrastrutture, nella ricerca e nell’innovazione e la diffusione di forme di lavoro precario, di scar­sa qualità e assai spesso privo di qualsiasi tutela. Non a caso nel pieno dell’emergenza ci siamo battuti affinché venissero messi in campo strumenti – dalla Cassa integrazione in deroga alle indennità – che garantissero una tutela a tutte le forme di lavoro.

C’è però un altro aspetto, non meno importante di quelli fin qui indicati, che va messo in evidenza. Proprio con l’esplosione della pandemia è stata messa in discussione l’idea che il lavoro non ser­ve più, che il lavoro, in particolare quello manuale, non esiste più ed è diventato un elemento marginale nelle società moderne e più sviluppate. In questo anno di drammatica emergenza questo luo­go comune è stato spazzato via. Oggi siamo di fronte al fatto che si sono rivelati essenziali lavori che venivano considerati marginali e residuali. Anche quelli che erano invisibili sono improvvisamente diventati addirittura indispensabili. È il caso dei riders, dei lavoratori della logistica, di quelli della filiera agricola e alimentare, della gran­de distribuzione, dei lavoratori impegnati nella pulizia della città e nello smaltimento dei rifiuti, del personale scolastico per non parlare naturalmente delle lavoratrici e dei lavoratori della sanità, che stanno pagando a duro prezzo il loro impegno straordinario a fronte della scarsità di mezzi frutto dei tagli operati in questi anni nel nostro sistema di welfare.

È proprio da qui allora che bisogna ripartire: dalla centralità del la­voro come parametro e criterio fondativo di un nuovo modello di sviluppo. Finita l’emergenza non si può pensare di tornare a fare le stesse cose di prima. C’è una cesura tra un prima e un dopo la pandemia. E il dopo ha bisogno di scelte radicalmente diverse da quelle operate nel passato. Intanto si tratta oggi, fino a che perdura l’emergenza sanitaria, di prorogare il blocco dei licenziamenti e le diverse forme di sostegno al reddito. Contestualmente va definita una riforma complessiva degli ammortizzatori sociali connessa a un piano nazionale della formazione e ispirata a principi di universalità e solidarietà. Inoltre la pandemia e il conseguente distanziamento nel lavoro stanno portando alla diffusione dello smart working e del lavoro da remoto. Queste forme di lavoro possono assumere caratteri diversi: possono aumentare i ritmi di lavoro e il controllo, la condi­zione di isolamento dei lavoratori oppure possono ampliare gli spazi di autonomia, di responsabilità, di professionalità delle lavoratrici e dei lavoratori. Per questa ragione è fondamentale riportare tale stru­mento nel perimetro della contrattazione introducendo temi a tutela di chi lavora: orario, diritto alla disconnessione, pause, formazione, mantenimento di un principio di lavoro collettivo anche quando si è da soli. C’è bisogno quindi di un cambiamento radicale. Da questo punto di vista il contesto europeo è decisivo. Sarebbe miope non coglie­re i cambiamenti intervenuti in questo ultimo anno nelle politiche dell’Unione europea. Le iniziative assunte dalla BCE, il congelamen­to del Patto di stabilità e del divieto degli aiuti di Stato, le ingenti risorse previste dal Next Generation EU rappresentano una evidente inversione di rotta rispetto agli indirizzi di politica economica seguiti nel corso di questi anni. Le recenti scelte hanno consentito, dopo una prima fase di incertezze e titubanze, di fare fronte all’emergenza e di prospettare gli interventi necessari per avviare una ripresa. È chiaro a tutti che le misure assunte sono il frutto di uno scontro politico che si è aperto a livello europeo nel quale si sono definite nuove alleanze tra i diversi paesi. Proprio per questa ragione diventa importante utilizzare bene le risorse europee. Esse vanno impiegate non solo per cambiare e riprogettare lo sviluppo del paese ma anche per tenere aperta la prospettiva di una modifica dei trattati dell’UE.

Proprio la tragedia del Coronavirus ha evidenziato il carattere strut­turale della crisi che da anni stiamo vivendo. Per questa ragione c’è bisogno di ripensare e rimodellare le politiche di sviluppo. Da lungo tempo nel nostro paese, ad esempio, si è rinunciato a definire ade­guate politiche industriali, a indicare priorità e settori strategici su cui investire. Si è scelta la strada delle decontribuzioni, dei bonus, degli incentivi fiscali senza alcuna condizionalità. Queste si sono ri­velate però misure che hanno assorbito risorse consistenti ma poco hanno dato dal punto di vista della crescita e del lavoro.

Come e dove allora orientare lo sviluppo? Quali i settori strategici su cui orientare risorse e competenze? Decenni di politiche liberiste hanno lasciato credere che il mercato, libero di agire, avrebbe portato crescita e benessere per tutti. Non solo invece veniamo da anni di crisi ripetute e di crescita stentata ma proprio il modello di sviluppo fondato sul primato del mercato ha portato a una esplosione delle diseguaglianze, a un impoverimento dei beni comuni e pubblici, a una drammatica crisi ambientale di cui il cambiamento climatico è la dimostrazione più evidente. La diffusione del Coronavirus, infatti, ha molto a che vedere con la distruzione dell’ambiente, della biodi­versità, con l’inquinamento atmosferico, con il consumo del suolo. Oggi allora diventa assai concreta e urgente la battaglia e l’iniziativa per affermare un nuovo modello di sviluppo orientato verso la qua­lità delle produzioni, la rivalutazione dei beni comuni e pubblici, la conoscenza e la cultura, la qualità sociale. Esiste una grande doman­da inevasa, paradossalmente proprio nelle società più avanzate, su cui declinare nuove politiche di sviluppo: il risanamento del territorio e delle aree urbane, la mobilità collettiva, le fonti di energia rinnovabili e il risparmio energetico, la salute e l’istruzione, la qualità dell’alimenta­zione, l’economia circolare e la manutenzione programmata. Tutto ciò significa porre la stessa industria al servizio di uno sviluppo equilibrato e sostenibile sul piano sociale e ambientale.

Quelli indicati sono bisogni e domande oggi lar­gamente inevasi ma se assunti realmente posso­no migliorare la qualità della vita e offrire consi­stenti occasioni di lavoro.

La stessa rivoluzione digitale può essere orientata in questa direzione. Oggi le nuove risorse sono i dati e il loro uso. Il loro controllo esclusivo è nelle mani di un ristret­to nucleo di grandi multinazionali che hanno fondato il loro potere e la loro ricchezza proprio sulla gestione dei dati a fini commerciali e di profitto. I dati però sono legati alla vita delle persone e ciò solleva una grande questione democratica: è giunto il tempo di riportare queste risorse in capo alla comunità e orientarle verso grandi obietti­vi sociali, quali la salute, la lotta all’inquinamento, la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.

Le questioni che abbiamo fin qui richiamato non riguardano un lontano futuro. Richiedono impegni e scelte precise oggi, a partire dall’utilizzo delle risorse del Next Generation EU. E hanno bisogno che si definiscano alcune condizioni chiare. In primo luogo un cam­biamento di tale portata non può essere lasciato al mercato, bensì c’è bisogno di un nuovo ruolo dello Stato che assuma l’obiettivo della “piena e buona occupazione” e conseguentemente definisca scelte, priorità, indirizzi, strategie.

In secondo luogo, se il tema oggi sul tappeto è il futuro produttivo e sociale del paese c’è bisogno di attivare e sollecitare la partecipazione democratica degli attori e dei soggetti sociali. Cambiamento, infatti, vuole dire dare vita a un progetto di trasformazione sociale che si sostanzia del rapporto concreto con le persone a partire dal mondo del lavoro. Per costruire il futuro del paese c’è bisogno della parte­cipazione attiva dei lavoratori e delle lavoratrici. Per questo bisogna investire sul lavoro a partire dal diritto alla formazione permanente e alla conoscenza. Un diritto soggettivo della persona. Un diritto fon­damentale se non si vogliono subire le nuove forme di organizzazio­ne del lavoro e se non ci si vuole rassegnare alle nuove diseguaglianze, di cui l’esclusione dal sapere e dalla conoscenza costituisce la forma più grave e discriminatoria. Se la qualità del lavoro, la persona, la dignità, vanno poste al centro delle scelte economiche, politiche, so­ciali, ciò vuol dire che i lavoratori hanno il diritto di essere coinvolti ed essere partecipi delle scelte delle imprese, di dire la propria sulla natura degli investimenti.

Un nuovo modello di sviluppo non può fermarsi fuori dai cancelli della fabbrica ma deve sostanziarsi di nuove forme di democrazia e partecipazione.