“Il volto disumano della globalizzazione”. Intervista a Lula

Di Maura Pisciarelli Mercoledì 18 Marzo 2020 10:44 Stampa
Luiz Inácio da Silva, detto Lula, impegnato sin da giovanissimo nell’attività politica e sindacale, è stato tra i fondatori, nel 1980, del partito progressista brasiliano PT-Partido dos trabalhadores. Presidente del Brasile dal 2003 al 2010, ha promosso un significativo programma di riforme economiche e sociali che ha permesso al paese di fare enormi passi avanti e di portare fuori dalla povertà milioni di brasiliani. In politica estera ha rilanciato il ruolo regionale e globale del paese intensificandone l’azione nei forum multilaterali.

Maura Pisciarelli Presidente Lula, nelle società occidentali, malgrado le ripetute promesse di ridurre la povertà, negli ultimi decenni del ventesimo secolo il numero effettivo di poveri è cresciuto in media del 2,5% annuo, producendo un enorme divario tra le classi sociali. È questo il vero risultato della globalizzazione?
Lula I risultati della globalizzazione sono complessi e profondamente contraddittori. Negli ultimi trent’anni c’è stata indubbiamente una grande espansione del commercio mondiale e anche la rivoluzione tecnologica si è intensificata, fenomeni che sono in una certa misura legati alla globalizzazione. Penso che un paese come la Cina, probabilmente, non avrebbe fatto il suo straordinario salto storico senza questo aumento del commercio globale e degli investimenti produttivi e tecnologici che ha realizzato. Anche altri paesi, pochi di fatto, hanno beneficiato di questo processo, a causa del suo particolare impatto nel mercato mondiale o sull’interesse geopolitico delle potenze dominanti. Tuttavia, la verità è che per la stragrande maggioranza dei paesi, anche in Europa, le conseguenze della globalizzazione sono molto più negative che positive. Parlo della globalizzazione realmente esistente, del modo concreto in cui è stata attuata, con la logica ultra neoliberalista e antiumanista che purtroppo sembra essere nel suo DNA. La globalizzazione è stata venduta ai popoli del pianeta come un modello capace di generare un mondo più pacifico e cooperativo, attraverso un progresso materiale, politico e culturale per tutti; un modello in grado di superare i particolarismi, i confini artificiali e i muri in nome di una cittadinanza universale. In pratica, però, le principali promesse della globalizzazione sono state tradite.

 

M. P. Promesse tradite soprattutto, come sostiene Joseph Stiglitz, dalla mal configurata integrazione economica dei mercati sia negli accordi commerciali internazionali sia nelle politiche delle istituzioni economiche internazionali. È così o c’è dell’altro?
L. Il capitale finanziario ha avuto una completa libertà di circolazione e di azione, in assenza di tutele per i legittimi interessi dei popoli e dei paesi. Ma le persone, soprattutto i poveri, che costituiscono la metà della popolazione mondiale, sono sempre più limitati nel loro diritto di muoversi. I mercati dei paesi in via di sviluppo sono diventati molto più aperti e vulnerabili ai capitali transnazionali, ma le grandi potenze, in particolare gli Stati Uniti, non hanno rinunciato al loro protezionismo, che ora è aggravato dalla politica unilaterale e aggressiva di Trump. Negli ultimi decenni, con il pretesto di adattarsi alle esigenze della globalizzazione, nel mondo si sono avviati 165 processi di riforma, che hanno tolto importanti diritti dei lavoratori e reso precari i rapporti di lavoro. È uno strano paradosso: in America Latina lottiamo affinché i nostri lavoratori raggiungano i diritti sociali degli europei, mentre gli europei devono lottare per non perdere ciò che hanno realizzato nel dopoguerra. Una delle promesse cruciali della globalizzazione era che l’apertura del mercato e l’integrazione finanziaria e commerciale avrebbero ridotto le diseguaglianze tecnologiche tra i paesi. Tutti avrebbero, in qualche modo, avuto accesso alla modernità tecnologica, non solo come consumatori, ma anche come produttori. Con poche eccezioni, ciò che è accaduto è stato esattamente l’opposto: c’è un sempre meno efficace trasferimento tecnologico nel mondo, a parte qualche eccezione in cui prevalgono motivi geopolitici e/o militari. La tecnologia rimane uno strumento di potere per perpetuare le diseguaglianze economiche e politiche tra i popoli.
Di fronte alla crisi globale del 2008, scoppiata nel cuore del capitalismo finanziario, provocata dall’irresponsabile speculazione della Lehman Brothers e di altre grandi banche private, i summit del G20 decisero che il corso della globalizzazione doveva essere fortemente corretto e che fosse necessario regolamentare i flussi finanziari internazionali, combattere la speculazione e i paradisi fiscali e, soprattutto, investire nella crescita globale, in modo particolare nella lotta contro la povertà e sulle infrastrutture produttive e sociali, al fine di portare lo sviluppo nei paesi più poveri dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. Questo non soltanto a beneficio di centinaia di milioni di persone bisognose, il che sarebbe già del tutto giustificabile, ma anche per sostenere la produzione e il commercio stesso dei paesi più ricchi. Niente di tutto questo si è verificato. I governi hanno speso miliardi di dollari di denaro pubblico per coprire la caduta delle banche private, e il capitale finanziario continua con lo stesso potere assoluto e destabilizzante di prima. Paradossalmente, coloro che sono usciti vittoriosi dalla crisi globale del 2008 sono proprio coloro che hanno provocato la crisi. Tutto ciò genera più diseguaglianze, più miseria, più conflitti, più rifugiati e immigrazione forzata, oltre a favorire un’agenda conservatrice e autoritaria che vende soluzioni facili e false a problemi complessi.

 

M. P. Dalla fine del Novecento anche in America Latina ha governato l’instabilità economica. Tuttavia in Brasile, nel primo decennio degli anni Duemila, avete cercato di contrastare questa tendenza con misure innovative.
L. In Brasile abbiamo seguito una strada diversa, ed è per questo che siamo riusciti a superare questa crisi molto prima di altri paesi. Abbiamo mantenuto e migliorato la regolamentazione del nostro sistema bancario in modo che finanziasse la produzione e il consumo, non la speculazione. Senza pregiudizi verso uno sforzo di esportazione vigoroso, che ha generato riserve per oltre 350 miliardi di dollari e ha dato all’economia brasiliana una stabilità senza precedenti, abbiamo scommesso sull’espansione del mercato interno, che ha esteso i diritti di cittadinanza e di consumo a più di 50 milioni di persone che vivevano in condizioni di estrema povertà, molte delle quali morivano di fame. L’aumento dei salari, del reddito e dei consumi popolari ha fatto crescere il paese in media del 4% all’anno durante i nostri governi. Ho sempre sostenuto che i ricchi, quando hanno risorse in più, investono nel mercato finanziario, mentre i più poveri, quando ricevono risorse da programmi sociali o hanno un miglioramento dello stipendio, non mettono soldi in banca: comprano cibo, vestiti, materiale scolastico per i bambini, elettrodomestici che migliorano la vita quotidiana della famiglia. Tutto questo fa girare l’economia, creando domanda e posti di lavoro sostenibili. È così che siamo riusciti a generare 20 milioni di nuovi posti di lavoro regolari, soprattutto per i poveri. Anche la classe media ha beneficiato molto dei nostri governi. Il Brasile ha più di 6 milioni di piccole e medie imprese che dipendono fondamentalmente dal mercato interno e che sono state molto favorite dall’espansione dei consumi. Un altro esempio: quando abbiamo assunto la presidenza nel 2003, c’erano più di 500.000 ingegneri disoccupati in Brasile. Quattro anni dopo, grazie ai nostri investimenti in infrastrutture produttive e sociali, abbiamo assunto ingegneri provenienti da Argentina, Cile, Portogallo, Spagna, perché i nostri erano stati tutti impiegati. Oggi, purtroppo, molte di queste conquiste economiche, sociali e culturali sono state cancellate o sono sotto pesante attacco. La follia neoliberista e antipopolare ha ancora una volta prevalso nel paese.

 

M. P. Non soltanto in Brasile, ma in gran parte dell’America Latina “l’onda rosa” dei governi di centrosinistra, dopo un periodo di intensa crescita, è rallentata. Le forze conservatrici, che agiscono in difesa del modello economico neoliberista, stanno aumentando il numero dei consensi. Cosa ne pensa?
L. Ho avuto l’onore di essere presidente in quello che è stato forse il momento migliore in America Latina: con più democrazia, inclusione sociale e culturale, integrazione e dialogo tra i nostri paesi. Non tutti i governi erano progressisti, ma per lo più lo erano, e siamo riusciti ad avere un rapporto costruttivo con gli altri, nonostante le differenze nella concezione economica e sociale dello Stato. I nostri paesi hanno una struttura e una formazione storica molto differenziata, molto più di quanto sembri. La Bolivia, ad esempio, ha una popolazione prevalentemente indigena. In Brasile e Colombia, la presenza nera è enorme, non è così in Cile, Uruguay, Argentina. I paesi dell’America centrale hanno altre particolarità, per non parlare della maggiore vicinanza geografica agli Stati Uniti, che comporta sfide molto specifiche. Il Messico, a sua volta, anche se è essenzialmente un paese sudamericano, con il quale ho cercato di rafforzare le relazioni a tutti i livelli, appartiene al NAFTA, il blocco economico del Nord America, insieme agli Stati Uniti e al Canada.

 

M. P. Tra le cause della disfatta di questa ondata rosa vi sono certamente elementi strettamente nazionali, ma l’immagine generale è quella di un declino delle politiche progressiste a vantaggio di una destra che sembra essere in continua ascesa in gran parte dell’America Latina.
L. È vero che la destra ha conquistato il potere in diversi paesi dell’America Latina nell’ultimo periodo. Ma bisogna chiarire che alcuni sono stati vinti con il voto, altri no. In Cile, ad esempio, la destra ha vinto nei sondaggi. In Uruguay, seppur con un margine minimo, la destra mantiene una forza enorme nel paese. Ma in Paraguay, Honduras e Brasile la destra ha preso il potere con colpi di Stato e non attraverso percorsi democratici. Inoltre, due dei più grandi paesi della regione, il Messico e l’Argentina, oggi hanno governi progressisti, con innegabile sostegno popolare, nonostante i duri attacchi subiti dall’establishment conservatore e dalla maggior parte dei media.
Non credo che il sostegno sociale ai governi di destra stia crescendo. Sebastián Piñera, in Cile, si confronta con un’enorme opposizione popolare, e ha livelli molto bassi di consenso, così come Iván Duque in Colombia. Mauricio Macri ha subito una pesante sconfitta in Argentina, nonostante tutto il supporto delle oligarchie, proprio per il fallimento del suo modello ultra neoliberista. Non dobbiamo inoltre dimenticare che anche quando la regione ha avuto la maggioranza dei governi progressisti, l’opposizione conservatrice è sempre stata molto forte nei nostri paesi. C’è ovviamente un’offensiva della destra in corso, ma la resistenza popolare è grande e, in diversi paesi, cresce anche l’opposizione politica, come nel caso della Colombia. A mio parere, questo è un caso aperto. Nonostante la destra possa consolidarsi in modo antidemocratico, le forze progressiste possono comunque riprendersi nelle prossime elezioni. In Bolivia, ad esempio, il MAS di Evo Morales è in testa in tutti i sondaggi per le elezioni presidenziali. Se la democrazia viene rispettata nel continente, il che significa ripristinarla completamente dove ci sono stati colpi di Stato, vedrà che le forze progressiste potrebbero tornare presto al governo in diversi paesi della regione.


M. P. Cosa glielo fa pensare? E soprattutto, in che modo la sinistra potrà riaffermarsi?
L. C’è un aspetto molto importante che dovrebbe essere considerato. L’esperienza dimostra che, nella nostra regione, le politiche concrete del neoliberismo sono oggi molto meno sostenute dall’opinione pubblica rispetto a venti o trenta anni fa. A quei tempi, il neoliberismo era una novità, parlava di apertura, modernizzazione, integrazione nel mondo. Sembrava indicare la direzione del futuro. La prima ondata neoliberista in America Latina, con Fernando Henrique Cardoso, Carlos Menem, Sebastián Piñera, è arrivata ad avere una certa egemonia democratica nei nostri paesi perché, in qualche modo, anche gran parte delle classi popolari ha creduto alle sue promesse. Poi, di fronte alle conseguenze concrete delle politiche neoliberiste, l’opinione della maggioranza è cambiata. La disoccupazione è aumentata, i servizi pubblici in generale sono peggiorati, la povertà e la miseria sono cresciute, gli indicatori economici, sociali e culturali sono diventati sempre più negativi. Anche le vittorie progressiste dei primi decenni del XXI secolo hanno a che fare con questo, oltre che con la forte presenza sociale della sinistra e la sua preparazione all’esercizio del governo.
Oggi, le politiche neoliberali sono tornate in diversi paesi della regione, non come innovazione, ma come restaurazione. Non hanno più la stessa capacità di egemonia democratica, anche perché i loro effetti reali sono, appunto, ben noti. Da qui la tentazione di attuarli con mezzi sempre più autocratici, con il ferro e il fuoco, come sta accadendo in Brasile.

 

M. P. Questo fenomeno si verifica, anche se in modi diversi, in molti paesi, dall’America di Trump al Brasile di Bolsonaro; in Europa, dall’Ungheria di Orban alla proposta di Salvini in Italia. Siamo alla vigilia della riaffermazione della destra in tutto il mondo?
L. L’offensiva della destra ha certamente una dimensione globale da non sottovalutare, sia in termini di radicalità del suo progetto sia nei metodi d’azione utilizzati, come le fake news diffuse su scala mondiale in quasi tutti i nostri paesi, nella più odiosa tradizione nazifascista. C’è un chiaro sostegno politico e pratico da parte dei governanti di destra, e di estrema destra, a leader e candidati che si mostrano allineati al loro pensiero. Pensi al pieno sostegno di Trump a Netanyahu e Boris Johnson, ad esempio, che va ben oltre la consueta interferenza degli Stati Uniti nei processi elettorali di altri paesi. Vi è una motivazione ideologica specifica e diretta.
Penso, tuttavia, che la forza di questa offensiva internazionale da destra non derivi solo dalla manipolazione e dal potente sostegno commerciale e politico che ha, nonostante questo sia un elemento importante e non affatto trascurabile, ma credo abbia a che fare con un problema più ampio per il quale la sinistra e altre forze democratiche tradizionali non hanno finora trovato risposte coerenti. Un problema di valori, di ideali di vita sociale, di visione del mondo, del senso stesso della vita nella società contemporanea.
La verità è che la vita collettiva e individuale è cambiata così tanto negli ultimi decenni, e così rapidamente, soprattutto a causa della rivoluzione tecnologica, che i nostri criteri e concetti, nonché il nostro vocabolario, risultano essere obsoleti. La nostra difesa del welfare state, per quanto giusta, non dialoga correttamente con le nuove forme di esistenza collettiva e con le aspirazioni e le paure che esse creano.

 

M. P. Il problema, dunque, non è solo economico e sociale?
L. Al fondo penso che ci sia una crisi dell’umanesimo. Molto legato al consumismo, all’individualismo esacerbato, al fatto che le persone stanno perdendo il contatto diretto tra loro e fanno tutto per telefono cellulare. La scrittrice mozambicana Mia Couto ha scritto una frase che ho letto in prigione e che ritengo sia molto appropriata. Dice che in tempi di terrore, scegliamo i mostri per proteggerci. Questa ondata conservatrice porta con sé molto di ciò che credevamo di esserci lasciati alle spalle. Ma proprio come il fascismo è venuto dopo il crollo della borsa del 1929, anche questo è in parte un riflesso della crisi finanziaria del 2008.
Ma si tratta di un’onda, appunto, e le onde passano. Non è un caso che oggi vediamo Bernie Sanders negli Stati Uniti, Papa Francesco, i giovani che si mobilitano per l’ambiente, per le libertà, per gli importanti valori di civilizzazione adottando spesso nuovi linguaggi e nuove forme di partecipazione. Per non parlare dei governi di sinistra in Portogallo, Messico, Spagna e di quello di una socialdemocratica di 34 anni come primo ministro in Finlandia.

 

M. P. La destra emergente è radicale e nazionalista e può, per certi versi, rappresentare un pericolo per la democrazia. È possibile contenere e arginare questa tendenza?
L. L’estrema destra non è sempre nazionalista. L’estrema destra brasiliana, ad esempio, utilizza il nazionalismo solo nella propaganda. Nella pratica politica il governo di Bolsonaro sta cedendo la sovranità nazionale adottando un allineamento automatico con gli Stati Uniti, anche danneggiando i legittimi interessi brasiliani. L’attuale governo vende riserve di petrolio a un prezzo irrisorio e vuole fare dell’Amazzonia, compresi i territori indigeni e le aree protette, un paradiso per le società minerarie e di disboscamento transnazionali. L’integrazione del Sud America e dell’America Latina è stata cancellata dall’agenda del governo. La politica di difesa che noi abbiamo creato, una politica serena, pacifista, ma autonoma, la vediamo annientata dalla destra di Bolsonaro.
L’Europa è stata la prova più grande per decenni dell’importanza della solidarietà e dello sviluppo comune tra i paesi. Il salto dalla situazione del dopoguerra a oggi è stato così grande da essere diventato un luogo comune soprattutto per i giovani. Eppure, sulla Brexit, abbiamo visto che la più grande opposizione è stata fatta dai giovani che non considerano affatto positiva l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. C’è una nuova generazione che percepisce un mondo più connesso. Tuttavia la vita delle persone è locale, si sviluppa nella propria città, nel proprio quartiere. La sinistra deve combinare l’attenzione ai problemi locali con la capacità di dimostrare e sostenere soluzioni più ampie ai problemi globali in modo efficace: diseguaglianza, ambiente, immigrazione, questi sono i grandi temi da affrontare. Dobbiamo essere in grado di fronteggiare i problemi locali e allo stesso tempo far capire che un altro mondo è possibile, ma soprattutto dobbiamo saper indicare la strada che ci conduce verso quel mondo.
E questo è un processo che comporta il non negare mai la necessità della politica di risolvere problemi collettivi. Perché ogni volta che la politica è stata negata, ciò che è venuto dopo è stato peggio. La politica non è semplice ma complicata, richiede pazienza, non esiste una soluzione magica. Quindi bisogna combattere senza tregua coloro che vendono una soluzione al di fuori della democrazia, al di fuori della politica.

 

M. P. Lei ha subito in prima persona gli effetti dell’antipolitica, eppure suggerisce di non arrendersi, come?
L. In Brasile c’è stata una forte campagna, durata anni, per sconfiggere il PT e la sua promozione della politica e della democrazia. Mi è stato impedito di candidarmi alle elezioni del 2018, quelle in cui ero tra i candidati preferiti dal popolo, il risultato è stato l’arrivo al potere dell’estrema destra. Ma non ho intenzione di rinunciare alla politica o al dibattito politico. Per me questo è importante, perché è da questa trincea, da questa perseveranza che in qualche modo verrà ripristinata la normalità democratica del Brasile.
Credo che la soluzione a questo confronto non implichi alcuna magia o teoria spettacolare. Sarà necessario un lungo lavoro di base, sarà necessario dialogare e, soprattutto, sarà necessario lavorare a una giusta informazione per sottolineare le assurdità di questa politica. È così che abbiamo organizzato le nostre vittorie un paese grande e diversificato come il Brasile: riunendo movimenti sociali, viaggiando molto e dialogando molto in tutto il paese, facendo spazio a chi non era solito partecipare alla politica brasiliana come gli operai, i movimenti rurali, le donne, i neri, i giovani.