Ucraina: dove sta la verità?

Di Irene Savio Lunedì 09 Giugno 2014 18:18 Stampa
Ucraina: dove sta la verità? Foto: U.S. Embassy Kyiv Ukraine

Forse l’unico dato certo della crisi ucraina è che la guerra di propaganda condotta da entrambe le parti ha profondamente distorto la realtà di quanto sta avvenendo nel paese dell’Europa orientale, che lo scorso 25 maggio si è recato alle urne per scegliere il nuovo presidente. E mentre nell’Est del paese si continua a combattere, gli attivisti di Maidan denunciano il fallimento della rivoluzione.


Prendendosi gioco della retorica di Kiev, un miliziano filorusso spaventa i passanti che sfidano la notte uscendo tardi per le strade di Donetsk. «Eccovi un terrorista. Mi vedete? Sono qui! Proprio qui». È armato, però, come accade dall’inizio del conflitto ucraino, non si sa se sia nato prima l’uovo o la gallina. Ovvero, se i filorussi separatisti si siano armati prima o dopo che le autorità ucraine li qualificassero come “terroristi”, inclusi quelli senza armi. 

La guerra propagandistica condotta da tutti i belligeranti è stata così accesa da quando è iniziato il conflitto armato che, a metà maggio, Human Rights Watch (HRW) ha pubblicato una nota ufficiale dal titolo “La verità, una vittima del conflitto ucraino”. È accaduto dopo che il ministro dell’Interno, Arsen Avakov, dichiarasse che almeno venti “terroristi” erano morti nella battaglia di Mariupol, il 9 maggio, in circostanze che rimangono ignote. I filorussi, da parte loro avevano parlato di tre vittime. Mentre HRW avrebbe contato almeno sette deceduti e quaranta feriti.

«In tutti i conflitti, la propaganda fa parte della guerra e l’Ucraina non fa eccezione. Ogni parte usa la propria narrativa e il risultato è che si diffondono dati che hanno ben poco a vedere con la realtà», ha scritto la delegata di HRW nella zona, Anne Neistat. «La situazione peggiora quando i giornalisti alimentano questa situazione, disseminando fatti non confermati o completamente inventati. Queste distorsioni della realtà, amplificate dai social network, arrivano in pochi minuti a decine di migliaia di persone e, per alcuni, si trasformano in una chiamata all’azione».

Parole come provokatsiya, usate per screditare i rivali, imputando loro manovre di provocazione destinate ad alimentare disturbi o atti bellici, sono entrate così nel linguaggio di tutti i giorni della crisi ucraina, evocando oscure trame, spie e traditori, impiegati per destabilizzare l’ordine pubblico costituito. E se il megafono di ciò sono stati i mezzi di comunicazione vicini ai belligeranti, le idee sono state influenzate dai poteri economici e politici.

«Sono evidenti le intenzioni di questi eredi ideologici di Bandera,[1] l’assistente e complice di Hitler durante la seconda guerra mondiale», ha detto il presidente russo, Vladimir Putin, lo scorso 18 marzo. «Sono stati i banderovtsy [simpatizzanti di Bandera]», è una delle frasi che più si sentono a Donetsk, come prima in Crimea. Il mito di Pravy Sektor, il gruppo di estrema destra ucraino, fondato negli ultimi mesi del 2013, e che i filorussi indicano come l'onnipresente responsabile di ogni uccisione nella parte orientale del paese, è nato così. E questo anche se nelle ultime elezioni presidenziali del 25 maggio, Pravy Sektor è riuscito appena a ottenere l’1% dei consensi.

In questa atmosfera, alle scorse elezioni l’Ucraina ha votato per sopravvivere. Gli ucraini hanno scelto la stabilità, per quanto dura, dando al candidato più votato, l’oligarca Petro Poroshenko, una percentuale di voti sufficiente (54%) a evitare il secondo turno. L’altra opzione possibile era Iulia Timoshenko, la “principessa del gas”, figura politica controversa, già accusata di corruzione e abuso di potere. Nel giorno delle votazioni (che non si sono svolte nelle province ribelli di Donetsk e Luganks), pochi si dicevano convinti dei candidati e per giustificare la propria scelta dichiaravano di voler «porre fine alla guerra».

Il dato è che l’Ucraina è a pezzi. Tra le principali sfide del nuovo presidente ci sono riattivare la fallimentare economia del paese – la grivna, la moneta locale, ha perso un quarto del suo valore dall’inizio dell’anno e il PIL scenderà, secondo le stime, del 5% circa; mettere fine a corruzione e clientelismo; semplificare la frustante burocrazia del paese; individuare gli strumenti per favorire la crescita, senza che il paese sia saccheggiato dalle potenze interessate alle risorse ucraine. Obiettivi che Poroshenko non potrà raggiungere se non sarà prima ristabilita la pace nel paese.

«Dall'indipendenza [1991], l’errore più grande che abbiamo fatto è stato quello di non sapere creare meccanismi di controllo per evitare la corruzione e le diseguaglianze sociali», spiegava all’autrice di questo articolo un diplomatico ed ex primo ministro dell’Ucraina. Così, il paese si trova oggi dove è: in “respirazione assistita” dal Fondo monetario internazionale, che gli ha concesso un prestito di 17 miliardi di dollari, in cambio di un controverso pacchetto di misure di austerità le cui conseguenze potrebbero aggravare la situazione, già pessima, dei molti che si trovano sulla soglia della povertà.

Secondo il rapporto “Regional Inequalities in Ukraine. Causes, Consequences, Policy Implications, pubblicato a fine 2013 da Yelizaveta Skryzhevska, la regione orientale dell’Ucraina è stata la più colpita dalla grave crisi economica degli anni Novanta, quando il paese soffrì il crollo della produzione più pronunciato fra tutti i paesi ex sovietici (-45% tra il 1991 e il 1998). «Nell’epoca sovietica, la maggior parte della popolazione dell’Est del paese lavorava nel settore minerario e nell’industria pesante. Però negli anni Novanta molte di queste fabbriche furono chiuse, provocando un drammatico declino delle condizioni di vita in tutta la regione», spiega Skryzhevska.

I dati elaborati da questa esperta, sulla base degli studi condotti dall’UNDP, lo spiegano chiaramente. Essi mostrano che le industrializzate Donetsk e Luganks sono passate in meno di dieci anni, dal 1994 al 2001, rispettivamente da prima e terza provincia con il più alto indice di sviluppo umano dell’Ucraina, al ventiseiesimo e ventisettesimo posto. Ovvero, quelle con il peggiore standard di vita di tutto il paese. Un simbolo di ciò sono le agguerrite babuskas (nonne) che appoggiano i filorussi, nostalgiche dell’Unione Sovietica, ma anche addolorate da anni di difficoltà economiche dovute alle miserabili pensioni che ricevono.

Oggi, Slaviansk e Kramatorsk sono sinonimi di guerra. Al loro interno vivono popolazioni ostili a Kiev e ai governi “senza anima” dell’Occidente, persone che si proteggono con pile di sacchi di sabbia, armi provenienti dagli arsenali sovietici e altre di più recente produzione. Lì, dove si trovano fianco a fianco immagini della Vergine Maria, di Lenin e della Russia degli zar, insieme a caricature di Poroshenko e Timoshenko. «Non siamo comunisti, però in noi ci sono concetti socialisti. Siamo contrari al Fondo monetario internazionale, al nazismo e alla NATO. Non li vogliamo qui», mi assicurava uno dei leader dell’insorgenza, Miroslav Rudenko.

Eppure ci sono, senza dubbio, molte differenze tra la retorica – forse genuina, forse no – di personaggi come Rudenko, già professore universitario, o Igor Strelkov, il presunto capo dell’esercito ribelle – che secondo Kiev sarebbe un ex agente dell’intelligence russa –, e la base della lotta, tra le cui fila abbondano miliziani di aspetto professionale – ultimamente venuti anche dalla Cecenia – ma anche operai e minatori, giovani che sono poco più che adolescenti, e veterani dell’oggi dissolto esercito sovietico.

«Io non ho neanche fatto il servizio militare. Ho imparato a sparare nei campi, cacciando», mi spiegava uno di loro a Slaviansk. «Le sembro un terrorista? Io vivo qui. Anni fa ero nell’esercito dell’URSS. Guardi il mio kalashnikov. È del 1979», spiegava un altro, mentre una giovane dai capelli mal tinti gli portava da mangiare al checkpoint che controllava. Là, a pochi metri da dove, da mesi ormai, si svolgono battaglie quotidiane contro l’esercito ucraino e gruppi di paramilitari di origine sconosciuta. E si muore.

La rivoluzione di Maidan, iniziata il 29 novembre dell’anno scorso dopo una carica della polizia contro dei giovani, e il cui punto di svolta è stato la destituzione dell’ormai ex presidente Viktor Yanukovich, pure è stata tradita. Le idee di rinnovamento e di cambiamento politico rivendicate dai manifestanti non si sono concretizzate per il ruolo ambiguo giocato dall’Occidente, l’aggressiva risposta russa, e per il ritorno degli oligarchi.

«La realtà è che Maidan si è frantumata nel momento in cui doveva esprimere un candidato comune», secondo Volodymir Viatrovych, giovane storico, attivista della prima ora, e oggi responsabile dell’Istituto della memoria, che tra le altre cose custodisce gli archivi ucraini del KGB. «Il processo di cambiamento è stato frenato prima dall’annessione della Crimea da parte della Russia, poi dalla rivolta nell’Est e infine ora, visto che il Parlamento continua a essere lo stesso». «Sono al potere sempre le stesse facce», afferma Oleg, un contadino di Odessa, installato con la sua tenda sulla piazza di Maidan da mesi. «Poroshenko è uno di loro», aggiunge, in riferimento al fatto che il nuovo presidente dell’Ucraina è stato ministro di Yanukovich.

E nonostante tutto, a Kiev, ci sono quelli a cui non va così male. «La verità è che ora si possono fare affari in Ucraina, che prima neanche ci sognavamo», spiega un imprenditore lituano-canadese, uno dei tanti che ultimamente si vedono gironzolare per il centro della capitale. Lì dove i giovani si stordiscono bevendo birra, mentre nelle tende ora si ricevono i rifugiati e, di tanto in tanto, si sente ancora qualche petardo esplodere. Nessuno si muove, nessuno si spaventa. Ora, uomini e donne vestiti in abiti estivi calpestano i resti di quello che Maidan fu.

L’Unione europea, nel mentre, assiste e perde. Soldi. Secondo le ultime stime di Eurostat, le esportazioni verso l’Ucraina e la Russia sono calate drasticamente nei primi mesi di quest’anno. Lo scorso febbraio, la cifra totale delle vendite alla Russia era di circa un miliardo inferiore rispetto allo stesso mese del 2013. Quella delle esportazioni verso l’Ucraina, tra gennaio e febbraio, segnava il 12% in meno.



[1] Stephan Bandera (1909-1959), politico ultranazionalista ucraino, odiato nelle zone orientali del paese.

 

 

 


Foto: U.S. Embassy Kyiv Ukraine

 

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